38 TFF – Camp de maci (Poppy Field), di Eugen Jebeleanu (Torino 38)
Cristi è un giovane poliziotto rumeno che vive un’esistenza apparentemente contraddittoria: lavora in un ambiente gerarchico e maschilista ed è un omosessuale riservato e geloso della propria vita privata. Nei giorni in cui Hadi, il ragazzo con cui ha una relazione a distanza, è venuto a fargli visita dalla Francia, Cristi viene chiamato per un intervento: un gruppo nazionalista e omofobo ha interrotto una proiezione di un film a tematica omosessuale. Quando uno dei manifestanti minaccia di smascherarlo, Cristi perde il controllo.
Nazione: Romania; Anno: 2020; Durata: 81'
Camp de maci avrebbe tutti i presupposti per deflagrare in esplicite e spettacolari rappresentazioni di violenza, per immergerci nel caos cui siamo oramai abituati nel vedere scontrarsi gruppi di estremisti insensibili al dialogo da un lato, comuni cittadini dall’altro e -coinvolte nel tentativo di un’impossibile mediazione tra i due- forze dell’ordine. Ma Jebeleanu fa della sua opera prima una pentola a pressione in cui ogni dramma o trauma è interiorizzato, dove ogni violenza rimane allo stato germinale, senza dispiegarsi nella sua potenziale distruttività. In questo senso va letta l’onnipresenza, oltre che dei magistrali long takes e piani sequenza (Marius Panduru alla fotografia), di quell’insistenza sui corpi e sui volti dei protagonisti -ed in particolare di Cristi- che caratterizza la principale marca stilistica di Jebeleanu. Nell’insistito prolungamento dell’inquadratura, nei suoi movimenti al confine tra nervosismo e istinto formalizzante, sentiamo intensificarsi quella tensione di cui Camp de maci insaziabilmente si nutre. La violenza resta inespressa, ad uno stadio di preconizzazione informale, velleitaria. Se veniamo immersi in qualcosa non è tanto nella truculenza voyeuristica cui siamo aprioristicamente assuefatti, quanto nella psiche (scissa) di Cristi (Conrad Mericoffer), il nostro principale avatar visuale. Un poliziotto coinvolto nella gestione dei disordini provocati da un gruppo di ultra-nazionalisti nel loro tentativo di preservare l’integrità morale e culturale della Romania. Operazione attuata impedendo la proiezione di un film contenente scene di sesso omosessuale, aberrante manifesto di una filosofia -come viene definita da una delle più agguerrite mentecatte- «sesso-marxista». Come ci siamo tristemente abituati a constatare, proto-destroidi, ignoranza, imbecillità e un grossolano anti-comunismo sono inseparabili compagni di gioco.
Il viaggio verso la sala cinematografica è rappresentato da Jebeleanu facendo ricorso a null’altro che un primo piano di Cristi. I suoi colleghi poliziotti, con cui condivide l’interno del veicolo, rimangono relegati off-screen. Le loro voci interpellano un volto che rimane, oltre che impassibile, impenetrabile. L’uomo è ipnotizzato dalle luci della città che si srotola davanti ai suoi occhi in deformi macchie out of focus. Del mondo esterno a Cristi ci vengono negate le forme, gli abitanti. Il close-up del poliziotto è un invito a penetrarne il cranio, un preludio a ciò di cui si costituirà il film a venire: uno scavo approfondito (pur se tutt’altro che risolutivo) in un antro (iper)popolato da contraddizioni, fantasmi, che minacciano ad ogni istante di far esplodere il loro contenitore. Camp de maci è essenzialmente questo. La concrezione filmica di una condizione psichica. Condizione, vedremo, tutt’altro che peculiare.
Cristi è un doppio mondo. Da un lato un poliziotto aderente ai canoni etero-normativi dalla società in cui vive. Questa la sua superficie. Dall’altro, è un omosessuale claustrofilo, capace di vivere sinceramente la sua sessualità solo in un involucro architettonico che lo protegga dallo sguardo compromettente altrui. Hadi (Radouan Leflahi) è giunto dalla Francia appositamente per stare con lui. Ma lo spazio che ha percorso per avvicinarsi (fisicamente) al proprio partner non vale un viaggio in montagna. Deputate ai loro rapporti sessuali non possono essere che scatole chiuse ermeticamente: un appartamento dalla freddezza carceraria, un ascensore. Qualsiasi intrusione in uno di questi spazi è sentito da Cristi come una penetrazione irrimediabilmente violenta, in quanto fautrice di una collisione tra due universi che devono -pena la sua sanità mentale- rimanere irrimediabilmente separati, compartimentati.
Al cinema, nella forma di una tragica e ridicola messinscena, Cristi è però costretto a fare i conti con il proprio dualismo. I paladini ertisi a difesa della cristiana Romania si stagliano contro lo schermo, impugnando icone sacre. Vogliono impedire la proiezione di quello scabroso e barbarico film di cui il pubblico pagante, seduto in platea, ancora attende la proiezione. Nelle due fazioni, antitetiche, Cristi è (forse) l’unico presente in grado di specchiarsi strabicamente. Da un lato riconosce la sua interiorità, repressa, la cui rappresentazione estetica è negata, relegata al buio dell’oblio e, dunque, inappropriata all’arte della luce par excellence. Dall’altro vede concretizzarsi antropomorficamente quegli impulsi censorei che costantemente appercepisce. Giunto per garantire lo svolgimento di una proiezione che non avrà luogo, Cristi ha l’occasione di vedere teatralizzate le sue contraddizioni, di divenire spettatore di se stesso.