38 TFF – Salaam Cinema, di Mohsen Makhmalbaf (Masterclass)
In occasione del Centenario del cinema, un regista iraniano (lo stesso Makhmalbaf) fa pubblicare un annuncio su un giornale per reclutare cento persone, una parte delle quali, dopo un adeguato provino, dovranno recitare nel suo film, anche nei ruoli principali. Una grande folla si presenta alla convocazione e la distribuzione di un migliaio di schede di iscrizione non sembra essere in grado di accontentare tutti i presenti. Al fine di realizzare il sogno di diventare delle star, i concorrenti si abbandonano agli insulti e agli spintoni pur di posare le mani sul numero limitato di moduli. L'audizione ha inizio e ciascuno cerca di dare il massimo di sé per dimostrare la propria sensibilità nei confronti del cinema.
Nazione: Iran, Anno: 1995, Durata: 75'
Un film in onore del cinema, realizzato in occasione del centenario della sua nascita. Salaam Cinema si configura come un film sul casting, uno svisceramento profondo e ossessivo di quel processo pre-produttivo che solitamente anticipa l’opera, imbastendola, ma che in questo caso coincide con essa. Se Makhmalbaf sceglie di dedicare Salaam Cinema al linguaggio coniato (tecnologicamente) dai Lumière, vuol dire che nel casting ne riconosce una (e, forse, la) componente essenziale.
Il casting è ricerca. Solitamente svolta in funzione di un obbiettivo preposto, affinché si giunga al film. Ma in questo caso il lungometraggio di cui si annuncia la realizzazione è immaginario: un’esca fantasmatica per radunare quelli che, inconsapevolmente, diverranno attori semplicemente desiderando esserlo. La ricerca è dunque insensata. O, più correttamente, trova in se stessa la propria finalità. È pura, teleologica, apertura. Evidentemente, è in questo tratto che Makhmalbaf rinviene il fondamento del linguaggio cinematografico. I primi film lumièriani non sono in effetti altro che questo: porte sul mondo, di fronte al quale si pongono innocenti, osservanti. L'Arrivée d'un train en gare de La Ciotat e La Sortie de l'usine Lumière (1895) descrivono degli spazi (soggettisticamente) virginali sottoposti a soprassalti incursori. Soggetti che invadono lo spazio e lo sguardo filmico, contaminandolo e riconfigurandolo. La locomotiva de La Ciotat, la massa di operai che fuoriesce dall’officina Lumière: entrambi si scagliano contro lo sguardo, contro lo spazio. E questi sono pronti ad accoglierli. Così Makhmalbaf è -pur nella sua durezza e crudeltà- fautore di un’opera aperta, un testo in perpetua ri-scrittura.
I soggetti emergono gradualmente, lottano tra di loro per giungere ad una agognata formalizzazione estetica, che consenta loro di apparire. Quel profondo amore che tutti i candidati dicono di provare per il cinema è disinteressato, privo di una qualche intenzione specifica. A tutti basta apparire fugacemente, pur ben consapevoli della loro mancanza di virtù. Disposti a tutto, capaci di nulla. Ma a rincuorarci è il fatto che, nella sterminata lista di incompeteneze, la voce più frequente è quella relativa al pianto.
L’opera di cui Makhmalbaf millanta l’imminente realizzazione è posta in un eterno di là da venire. Essa consiste nel proseguimento indeterminato di un linguaggio indeterminante, in una ricerca (letteralmente) insensata. «Se il cinema deve raccontare la vita, c'è posto per tutti».