Come seguire un torrente in piena
Scandire il tempo della scrittura di Clarice Lispector è un lavoro arduo e vanificante. La promessa di una scrittura che diviene movimento - voglio scrivere movimento puro – è il segno dell'impossibile, ma è anche la cifra che detta il tempo: voglio scrivere (...) designa un presente rimasto incompiuto, poiché la sfasatura tra voglio che non corrisponde, non potendo farlo, al tempo del gesto creativo, condanna l'azione, se non a rimanere spezzata, a misurarsi continuamente con il desiderio di venire realizzata. È invece, per così dire, tra i due verbi il luogo in cui individuiamo già il generarsi di una nuova economia, non dominata più da un soggetto che scrive ma sospinta verso altro, mossa da uno slancio di cui fatichiamo ad intravedere la direzione (chi vuole scrivere? Lo scriverà? Come si scrive il movimento?). Tutto è estremamente disorientante e il lettore si accorge perciò sin dal principio di avere a che fare con un testo che annuncia la fuoriuscita dalla consolidata idea di narrazione di un'esperienza. Questo è un testo che, diremo meglio, si scrive – s'inscrive –, impone il suo proprio ordine.
«Voglio impossessarmi dell'è della cosa»1.
Il suo lavoro sembrerebbe farsi carico di quell'enorme ridondante interrogativo che deborda, come una massa informe e perciò sfuggente, da ogni scrittura: come cogliere l'istante nell'irrefrenabile fluire del mondo? Come dirigere l'impercettibile e caotico palpitare dell'esistenza verso un argine più sicuro, verso un ordine – mischiare parole in attesa che il tempo si faccia?
Ma dove vi è vita, lei lo sa bene, vi sono anche delle leggi: di tempo, di moto, della propagazione del suono e del linguaggio; leggi che non comprendiamo e che, praticando irrimediabili sostituzioni, vietano.
Alla vita presente che sfugge assieme all'eco della Legge, Clarice risponde con il continuo desiderio – una verità inventata – di liberarsi dalla comprensione e di poter così catturare le cose nel loro intimo sorgere. L'è della cosa, una presenza così leggera da contenersi intera in una sola lettera, un quasi-silenzio, è per lei la vera natura della vita, materia grezza dell'istante del tempo. La bellezza allo stesso modo partecipa di quella strana tensione che le cose possiedono ma che non si sa né se né dove finirà. La comprensione mistica del mondo, diceva Novalis, è la continua ricerca del mistero nella realtà: qualcosa è, ed è già molto.
Il processo della scrittura apre evidentemente a Clarice la strada verso questa ricerca – al limite dell'ossessivo – di è: afferrare nella nascita la sua pulsazione, nell'esistenza scavata il suo cuore duro, dove il mai e il sempre possono finalmente arrivare a coincidere in una forma elementare del tempo. Nel caos dell'eterna emorragia mondana, cosa è?
«Mi è venuto in mente all'improvviso che non è necessario avere un ordine per vivere. Non c'è un modello da seguire e nemmeno il modello stesso: nasco»2.
É il mistero dell'origine ciò che si porta dietro la tensione dell'esistenza. E il mistero dell'origine non scampa niente e nessuno. Intacca le cose, ma come un'interna trascendenza, è il meraviglioso scandalo. Per questo, nel momento in cui ci stiamo domandando da dove è nato il mondo – la domanda che fonda l'ordine simbolico è la stessa a cui esso non potrà mai dare una risposta – ci stiamo trascinando dietro tutto intero il problema dell'origine e sempre e di nuovo lo stiamo tagliando (che cos'è la nascita?). Nel testo emergono in continuazione domande senza risposta. Ciò che non possiamo vedere è ciò che è, ma forse proprio per questo è condannato al silenzio. Mi ritorna in mente un enigmatico enunciato lacaniano che forse ci suggeriva qualcosa di simile: il reale è l'impossibile del simbolico. C'è un silenzio che lavora incessante all'interno delle sue parole, e la domanda sulla nascita – poiché sottintende un al di là al linguaggio che non siamo in grado di pensare davvero ma di cui lei sembra fare esperienza – corrisponde ad un cerchio che non si chiude (un anello rotto).
«Il mondo non ha un ordine visibile e io ho solo l'ordine del respiro. Mi lascio accadere»3.
Il rimasuglio reale delle cose, l'intima essenza incastonata nella non-parola it che ritorna nel testo, è un alone che per il suo oltrepassare noi e tutto, rimane invisibile. Non posso vedere il respiro di un'ostrica, ma «la cosa che più mi emoziona è che ciò che non vedo esiste lo stesso»4. Dal momento che non vi è un modello da seguire, sebbene il fatto che la nascita sia realmente an-archica è qualcosa che non sapremo mai fino in fondo, e che la verità rimane ben nascosta da qualche parte, Clarice non fa altro che inventare e reinventare una verità e lo fa seguendo la creazione del tempo con le parole: nasce a sé stessa, e nella possibilità di enunciazione – nel respiro – fonda la sua esistenza, che si traduce nel gesto della scrittura. Una seconda nascita. Clarice rintraccia il mistero dell'inizio in un elenco di popoli e di animali, di piante e di oggetti, giocando a indovinarne l'oscura intessitura che soggiace alla realtà: nascere vuol dire questo:, quasi che nominando l'innominabile possa fissare il momento stesso della loro comparsa sulla terra. Sono anche gli oggetti propriamente detti ciò a cui dedica la sua attenzione, queste forme anch'esse in qualche modo viventi, anche loro partecipanti alla grande domanda sulla nascita. Per esempio, lo specchio non è una cosa creata, bensì nata: ma che cos'è uno specchio? C'è una differenza tra uno specchio che riflette un'immagine, ossia colto nella sua funzione, nel suo uso, e uno specchio colto nel suo essere nascente; «chi comprende che la sua profondità consiste nell'essere vuoto, chi cammina all'interno del suo spazio trasparente senza lasciar traccia della propria immagine... questo qualcuno allora ha percepito il mistero della cosa»5. Affinché possiamo cogliere non l'immagine, ma il nudo corpo dell'oggetto, bisogna divenire ciechi per riaprire gli occhi e a malapena riuscire a sorprendere lo specchio quando è da solo, in una stanza vuota. Mentre Clarice si dissolve per rinascere, lo specchio è.
«Siccome Dio non ha nessun nome, darò a lui il nome di Simptar. Non appartiene a nessuna lingua»6: il testo, abbiamo detto, costringe a dirigerci verso un ordine differente. Il problema allora non è più come circoscrivere la realtà in parole che ne diano un senso, ma come disperdere il senso per fare in modo che sia la realtà stessa a emergere tra le righe. Abbiamo qui un'altra grande domanda: come dire Dio? Così come la nascita, anche Dio è senza nome, è “l'it vivo”, l'impersonale, e l'operazione sin qui esposta assume i caratteri di una parodia: tradurre il silenzio in un nuovo silenzio, vale a dire ridurre all'osso la parola, correre distrattamente dentro se stessa per giungere a qualcosa che non sia la Legge (le regole per dirlo), ma la forza che la fa esistere. La necessità di dire Dio, il più terribile dei silenzi, porta Clarice a donargli un nuovo nome come se niente fosse, ma non un nome qualsiasi, un nome che non appartiene a nessuna lingua, cioè un nome che, in qualche modo, viene prima della lingua stessa. Un nome che non vuol dire. È questo, del resto, in cui sconfina la scrittura dell'impersonale: ad una corsa, all'incontrovertibile tensione verso una finalità senza fine dove non vediamo più sussistere la violenza del segno, dettata dall'idea che sia possibile afferrare qualche cosa appropriandosi della sua voce, ma dove la voce parla e si concatena da sola – dove la parola lasciata a se stessa assumerà un senso quasi corporeo. Al limite dell'automatismo, una convulsione del linguaggio.
Acqua viva è l'immagine di uno straripamento che tuttavia non convive con il timore di confinarlo, osa invece abbandonarsi ad una forma di parola densa e trasparente che tenta di seguirne gli imprevedibili movimenti, e tra crepe, abbagli dell'origine, crea litografie sensibili di un reale smodato. Il suo modello è l'informe sentito e vissuto a partire da un corpo spinto oltre il rappresentabile. Il mondo non è mai iniziato, l'origine non si trova, perché scorre: quando proviamo a pensare l'essere stiamo, eternamente, straripando verso altri luoghi, parlando altre lingue, mettendo a repentaglio il nostro ordine.
Se abbiamo familiarità con la mistica occidentale, l'immagine dello straripamento non ci risulterà affatto nuova. L'interrogazione senza sosta porta infatti Clarice, o quel che resta di lei, verso una quasi indistinzione con il mondo, dove l'oggettività è completamente schiacciata dal sentire, in un godimento senza pari conferito dal movimento stesso della scrittura. Un evento supremo e che tuttavia “non serve a niente” poiché lo stato di grazia non è l'ispirazione degli artisti, esso fuoriesce da ogni economia e da ogni legge, ai bordi del simbolico la traccia del reale continua la sua esistenza in una forma libidica, il cui accesso è consentito solo a chi non conosce divieti. Eppure l'al di là della Legge qui non coincide con il caos, ma con ciò che essendo impronunciabile, l'inizio (la nascita) e la fine (la morte), fino alla sua stessa esperienza di scoperta del disordine organico, assume la forma di un limpido dispendio, di cui leggiamo verso la fine: e se morire avesse il gusto del cibo quando si ha molta fame?
1 Clarice Lispector, Acqua viva, trad. it. Roberto Francavilla, Adelphi, Milano 2017, p. 9
2 Ivi, p. 37
3 Ivi, p. 24
4 Ivi, p. 31
5 Ivi, p. 78
6 Ivi, p. 45