Dissolution: il seminario fantasma di Jacques Lacan
Ho preso questa risoluzione perché, se non mi mettessi di traverso essa funzionerebbe in senso contrario rispetto a ciò per cui l’ho fondata. […] Ecco perché sciolgo. E non mi lamento dei cosiddetti “membri dell’École freudienne” li ringrazio, piuttosto, per avermi insegnato come mai ho fallito – vale a dire mi sono ingarbugliato. Questo insegnamento mi è prezioso. Lo metto a profitto.
(J. Lacan, Lettera di Dissoluzione)
Questo saggio è un estratto dall’ultimo capitolo de Il seminario perpetuo. Il tardo e l’ultimo Lacan di Gioele P. Cima (Orthotes, 2020), in cui compare con il titolo di Dissolution (1980): il seminario perpetuo. Il testo intende confutare la diffusa idea secondo cui Dissolution, il ventisettesimo e ultimo dei seminari di Jacques Lacan, non costituirebbe un vero e proprio seminario, ma un insieme precario e disintegrato di brevi interventi. Al riguardo, la sua tesi è duplice: non solo occorrerebbe considerare Dissolution un seminario a tutti gli effetti, ma, se attentamente analizzati, alcuni dei suoi passaggi si rivelano di fondamentale importanza per le sorti del pensiero di Lacan, dall’inconscio come malinteso al ritorno alla necessità della matematizzazione in psicoanalisi.
8.1 La Dissoluzione, ovvero: il Seminario XXVII
Con la Lettera di Dissoluzione del 5 gennaio 1980 Jacques Lacan mette fine alla breve vita dell’École freudienne de Paris (EFP), la Scuola da lui fondata nel 1964 dopo la «scomunica maggiore» pronunciata dall’IPA nei suoi confronti. La penombra leggendaria che circonda questo controverso evento però, che è da molti ritenuto una «seconda morte»1, se non addirittura una messinscena a favore di pochi eletti del suo entourage, porta spesso a dimenticare che con la Lettera non viene pronunciata solamente la fine dell’EFP, ma anche l’inizio di Dissolution (1980), il ventisettesimo ed ultimo dei seminari di Lacan. Come gli eventi politici che gli fanno da sfondo, anche l’entità di questo seminario appare problematica, dividendo la stragrande maggioranza dei commentatori. Del resto, si può dire che sia solo una frangia di lacaniani “radicali” a definire quest’ultimo un vero e proprio seminario, mentre la maggior parte degli altri pareri oscilla tra la sua completa escissione dalla bibliografia finale dello psicoanalista francese e la sua acquisizione a statuto speciale, come se si trattasse di un “surrogato” dei suoi predecessori. Alcuni, come Joel Dӧr2 e Paul-Laurent Assoun3, non hanno dubbi nell’ascrivere Dissolution all’elenco completo dei seminari, definendolo così l’ultimo capitolo del quasi trentennale insegnamento di Lacan. Di tutt’altro avviso appare invece la storica della psicoanalisi Élisabeth Roudinesco, che nella sua imponente biografia dello psicoanalista parigino relega provocatoriamente Dissolution nella sezione Testi dattiloscritti o stampati con il nome o la firma di Jacques Lacan (1980-1981)4, lasciando intendere in più passaggi del suo libro che Lacan potrebbe persino non essere stato l’autore di tali documenti. Anche per i partigiani che reclamano l’importanza dell’ultimo Lacan il Seminario giungerebbe al termine ben prima della Lettera. Claude Dorgeuille, ad esempio, che ha vissuto in prima persona i tumultuosi anni della crisi dell’EFP, non ha dubbi nello stimare che la serie dei seminari si concluda con Le moment de conclure, il volume XXV5. Ancor più particolare è il caso di Jacques-Alain Miller, la cui posizione appare piuttosto esitante: come ha opportunamente notato Adrian Johnston6, nell’edizione del marzo 2006 del Seminario XVI, l’elenco dei seminari comprende anche il numero XXVI (La topologie et le temps), mentre solo pochi mesi dopo, nell’edizione del Seminario XVIII (D’un discours qui ne serait pas du semblant) dell’ottobre dello stesso anno, la lista si chiude con il libro XXV (Le moment de conclure). A prescindere da quali siano le ragioni che hanno portato Miller a scartare il libro XXVI, appare chiaro come, fino al 2006, l’eventualità che Dissolution potesse costituire o meno un seminario non si poneva affatto. Successivamente però, durante il suo Cours del 2010-2011 (L’Essere e l’Uno), non solo Miller sembra cambiare idea, reintegrando Dissolution nell’elenco dei seminari, ma arriva paradossalmente ad includervene uno in più, mai nominato prima (Oggetto e rappresentazione):
Dopo Le moment de conclure abbiamo altri tre Seminari, due dei quali dedicati alla topologia dei nodi, con questi titoli: La topologia e il tempo e Oggetto e rappresentazione. […] C’è infine un ultimo Seminario, contemporaneo dello scioglimento dell’École freudienne de Paris e del tentativo di Lacan di creare una nuova Scuola. Di questo Seminario abbiamo tutte le lezioni che furono scritte anticipatamente7.
Effettivamente, ci sono diversi punti che giocano a favore di chi rifiuta di riconoscere gli appunti del 1980 come parte di un vero e proprio seminario. Anzitutto, si pone la questione della loro brevità: di fatto, Dissolution raccoglierebbe non più di sei sessioni (se si vuole considerare anche la seduta finale di Caracas), per altro decisamente poco lineari e tempestate di calembours e licenze poetiche. Inoltre, criterio rimarchevole, in questa occasione Lacan non parla, ma legge. Anziché attenersi semplicemente ad una scaletta, Lacan dispone di veri e propri dattiloscritti che, come dice sopra Miller, sono stati redatti anticipatamente, per poi essere tempestivamente smistati presso riviste o quotidiani per la pubblicazione. Ad infiammare ulteriormente la polemica, interviene anche la questione dell’autenticità dei suddetti dattiloscritti: le condizioni di salute non ottimali e l’età ormai avanzata, insieme con il clamore politico suscitato dallo scioglimento dell’EFP, hanno contribuito a nutrire la già sensazionale «leggenda nera»8 di Lacan del dubbio che egli non fosse, dopotutto, l’autore dei testi che leggeva pubblicamente nelle sessioni dell’ultimo seminario, spostando così il dibattito dalla parte di un presunto soggiogamento della sua persona. Come sembra rimarcare Roudinesco, non c’è alcuna ragione per fugare il dubbio che quegli appunti fossero stati preparati da suoi collaboratori, o direttamente da Miller stesso. Da parte mia, ritengo che se da un lato simili tumulti non facciano che spostare la questione dell’eredità lacaniana su di un piano puramente mediatico, dall’altro credo anche che il loro valore storico diventi teorico nel momento in cui tali diatribe finiscono per influenzare, obnubilandolo, il contenuto effettivo dei seminari. In altri termini, è proprio perché simili dietrologie riescono ad agire sul contenuto dell’opera di Lacan che è necessario “attraversarle”, anziché scartarle come una blanda forma di cospirazionismo. Come suggerisce Nicolas Francion, infatti, se la fondazione dell’EFP nel 1964 era passata quasi inosservata, la sua dissoluzione è stata al contrario un’onda d’urto tanto mediatica quanto culturale, che finì sulle prime pagine dei giornali. Eppure, questa notorietà mediatica - prosegue Francion - non ha contribuito a rendere la dissoluzione altrettanto «ben conosciuta»9. Per molti di coloro che si occupano di Lacan, un simile evento rimane a tutt’oggi un riferimento «quasi-mitico»10, diviso tra il burrascoso passato dell’EFP e l’avvenire non convenzionale della Cause freudienne, sua erede. Tornando al caso specifico di Dissolution, mi trovo d’accordo con Alain Lemosof, autore di un sintetico ma complessivamente pregevole commentario del seminario, il quale conclude laconicamente che «se Lacan non li avesse riconosciuti come propri, non avrebbe mai letto quei testi nel corso del seminario»11.
Ciononostante, anche quella di Lemosof è una posizione piuttosto curiosa: benché quest’ultimo consideri l’originalità dei dattiloscritti qualcosa di indubitabile, nella raccolta in cui appare il suo saggio (si tratta di Lacaniana, un commentario in due volumi dei seminari di Lacan curato da un eminente lacaniano come Moustapha Safouan), Dissolution non viene introdotto con il peculiare indice in numeri romani (XXVII, in questo caso), ma come Annexe, e cioè alla stregua di un allegato o di un’appendice. A questo punto non può che sorgere un ulteriore e persino più bizzarro dubbio: se si ritiene, come sembra fare Lemosof, che Lacan sia indubbiamente l’autore dei testi in questione, per quale motivo non considerare Dissolution un seminario a tutti gli effetti? Forse, la risposta definitiva circa l’annosa ascrizione di Dissolution all’elenco completo dei seminari non rimane che da ricercarsi proprio in Lacan e, più nello specifico, tra le pagine dei suoi dattiloscritti. È proprio lo psicoanalista francese infatti che, in più occasioni, si riferisce alle sessioni del 1980 come parte integrante di un effettivo e convenzionale seminario, anziché come a un insieme disparato e non organico di apparizioni pubbliche. Ad esempio, nella sessione del 10 giugno 1980, Lacan dice: «Mi si è fatto osservare che il Seminario di quest’anno non era intitolato. È vero. Vedrete subito perché. Il titolo è: Dissoluzione!»12.
Poco dopo, durante lo stesso incontro, riprende: «Questo seminario, ci tengo meno di quanto esso mi tenga. È per abitudine che mi tiene? Sicuramente no, visto che è per il malinteso»13. Queste non fraintendibili allusioni trovano persino una ancor più lapalissiana conferma quando, prima di far calare il sipario su Dissolution e sul punto di partire per Caracas, Lacan sembra persino concedere l’assist ad un ipotetico proseguimento del seminario:
Tornerò, perché la mia pratica è qui – e questo seminario non è [parte] della mia pratica, ma la integra. […] per quanto non me ne preoccupi, faccio fatica a scioglierlo. E di colpo, lo nutro. È quello che si chiama il seminario perpetuo14.
Si direbbe che simili dettagli siano passati inosservati per chi, come ad esempio Marcelle Marini, ritiene che nonostante sia stato Lacan, «e lui soltanto», a sciogliere l’EFP la dissoluzione debba essere intesa non come un gesto di rivolta politica contro l’istituzione, ma quale «l’ultimo atto di un uomo vecchio e malato»15. In altre parole, per Marini, già dal Seminario XXV la stanchezza di Lacan sarebbe apparsa «evidente», e più che un seminario, Dissolution consisterebbe di una mera «sequenza di messaggi»16.
Chi chiamerebbe “seminario” le poche parole emesse con difficoltà a Caracas, davanti ad un pubblico che non desiderava altro che una presenza e un nome? Lacan era forse diventato l’ostaggio di ciò che egli stesso aveva creato?17
Contro il parere di Marini, ritengo preferibile sostenere che non solo Dissolution contenga, per dirla ancora una volta alla Jean-Claude Milner, un pensiero, nel senso che nelle sue poche pagine ricorrono delle tesi «la cui esistenza si impone a chi non l’ha pensato»18, ma anche che le sue lezioni finiscano per segnare un’ulteriore e conclusiva svolta nel pensiero di Lacan, che si lascia dietro il sedicente pessimismo dei precedenti anni e propone un ritorno ad una psicoanalisi ispirata dal matema e dalla formalizzazione logico-matematica. La produttività di un’attenta lettura degli ultimi seminari è stata recentemente sostenuta anche da Johnston. La sua tesi è che «a partire dal 1976, Lacan mette fine al regno del matema», riconfigurando così il suo insegnamento in un’ottica drasticamente anti-riduttivista, emancipata dall’ideale della trasmissibilità matematica perseguito all’inizio degli anni Settanta.
Eppure, poiché questa analisi non si spinge oltre il Seminario XXV, mi sembra che Johnston sancisca il tramonto dell’insegnamento dello psicoanalista francese con ingiustificato anticipo, trascurando buona parte delle conseguenze critiche della Dissoluzione. Diversamente da Johnston, credo invece che nel Seminario XXVII, dopo aver dissolto l’EFP, Lacan ribadisca clamorosamente «la [sua] ostinazione nella [sua] via di matemi»19, e proponga una nuova chiamata al formalismo che riabilita il potere critico e demistificatorio della psicoanalisi. In altre parole, mentre da un lato il Lacan del 1980 afferma che la trasmissibilità della psicoanalisi è insita esclusivamente nella possibilità della sua perpetua reinvenzione, dall’altro il ricongiungimento finale con la figura di Freud («Tocca a voi essere lacaniani, se volete. Io sono freudiano»20) va di pari passo con un ridimensionamento intransigente delle discipline non formalizzabili (tra tutte: filosofia e religione). La psicoanalisi, ritengo concluda Lacan, può certo degenerare nella religione, a cui del resto tende inesorabilmente (in quanto entrambe operano sul senso), e l’inconscio, lungi dall’essere un’istanza formalmente entificabile, è più che altro un «malinteso»21, una smagliatura mai oggettivamente circoscrivibile. Eppure, attraverso un costante rinnovamento politico della pratica analitica e delle sue istituzioni, è ancora possibile ricorrere alla psicoanalisi non per assecondare, bensì per dissacrare, il bisogno di senso che attanaglia l’animale parlante.
8.2 Dall’EFP alla Cause Freudienne: una panoramica
Secondo Claude Dorgeuille, nonostante la Dissoluzione costituisca il culmine di una serie di crisi e dissidi teorici, la sua natura è «esclusivamente politica»22. Per lo psicoanalista francese - che è stato anche Membro del Consiglio d’Amministrazione dell’EFP -, se la preparazione della crisi può essere addebitata, come certi sospettano, all’affastellamento di «difficoltà di ogni ordine», che hanno reso la dissoluzione al tempo stesso tanto «augurabile» quanto «inevitabile»23, ciò non riguarda l’effettivo atto di scioglimento della Scuola. In altri termini, l’esplosione della crisi non è stata prodotta da cause di tipo quantitativo, innescate da un complessivo accumulo di singoli, problematici dissidi, né è stata dovuta all’irrecuperabile degenerazione di un singolare episodio. Piuttosto, sembrerebbe che dicendo che «essa fu politica nel senso letterale e nient’altro»24, Dorgeuille alludesse ad un atto di rottura radicale, un evento irripetibile, che – per dirla alla Lacan – «si autorizza da sé». In tal senso, è opportuno distinguere la crisi come contestualizzazione storico-politica delle vicende dell’EFP dalla dissoluzione come atto che, in quanto tale, rimane non commensurabile con i propri antecedenti. Un breve excursus storico ci permetterà di chiarire quest’ultimo punto.
A seguito della revoca del rango di didatta nel 1963, Lacan abbandona la Société française de psychanalyse (la società di psicoanalisi nata dopo la scissione dall’IPA nel 195325) e l’anno successivo, il 21 giugno 1964, fonda l’École Freudienne de Paris. Nel 1963, oltre ad abbandonare la SFP, Lacan è anche invitato ad interrompere il suo seminario sui Nomi-del-Padre: Jean Delay non accorda più l’ospitalità a Lacan da parte dell’Ospedale Sainte Anne, mettendo fine ad un sodalizio che durava da dieci anni. Il seminario riprende da capo nel gennaio del 1964, in rue d’Ulm, presso l’École normale supérieure. In apertura del seminario, Lacan non manca di commentare la sua «scomunica», paragonandola al celebre caso di Spinoza:
il mio insegnamento, designato come tale, subisce da una parte di un organismo che si chiama Comitato esecutivo di un’organizzazione internazionale che si chiama International Psychoanalytic Association una censura niente affatto ordinaria, giacché si tratta nientemeno che di proscrivere tale insegnamento, che deve essere considerato come nullo in tutto ciò che può venirne riguardo all’abilitazione di uno psicoanalista, e di fare di questa proscrizione la condizione dell’affiliazione internazionale della società psicoanalitica alla quale appartengo. […] Si tratta dunque di qualcosa di paragonabile a quanto in altri luoghi si chiama scomunica maggiore. Mai tuttavia pronunciata, laddove è in uso questo termine, senza possibilità di revoca. Essa esiste in questa forma solo in una comunità religiosa designata dal termine indicativo, simbolico, di sinagoga, ed è esattamente ciò di cui fu oggetto Spinoza26.
Dopo il trasloco all’ENS, la vita di Lacan subisce una svolta epocale: alla fine della primissima lezione del Seminario XI avviene l’incontro con Jacques-Alain Miller, allora rappresentante di un gruppo di studenti di Althusser catturati dall’insegnamento dello psicoanalista francese (non era la prima volta che Althusser faceva da tramite tra i suoi studenti e Lacan: nel 1960-61, il filosofo marxista condusse a Sainte Anne per assistere a una lezione del seminario anche Alain Badiou, che fu «il primo studente dell’ENS a tenere due lezioni sul pensiero di Lacan»27). Nel gennaio del 1966, dopo il felice incontro con Miller, appare il primo numero dei Cahiers pour l’analyse, rivista lacaniano-marxista lanciata da alcuni normalisti come Jean-Claude Milner, François Regnault ed altri, tra cui vi erano gli stessi Badiou e Miller. Con questa iniziativa, oltre ad accrescere l’affluenza del pubblico filosofico dell’ENS, è anche qualcos’altro a cambiare: i testi dei Cahiers non sono infatti, propriamente parlando, degli scritti psicoanalitici, ma si occupano di logica, matematica, filosofia ed epistemologia, consacrando così l’apertura multidisciplinare che aveva contrassegnato i primi anni del Seminario di Lacan ad un tratto costante del suo insegnamento. Non era più soltanto l’uditorio di Lacan ad essere variegato e specializzato in differenti campi, ma ora erano anche gli stessi membri della Scuola a provenire da ambiti diversi dalla psicoanalisi. Alla fine del 196628 vengono alle stampe gli Scritti, e in questo periodo l’EFP sembra godere di ottima salute: nel febbraio 1967 inizia a circolare un bollettino interno in cui sono riportati gli atti degli eventi della Scuola, Les Lettres de l’École, mentre la fama di Lacan cresce a dismisura in Francia e nei paesi limitrofi, ergendosi ben al di sopra della sua immagine di psicoanalista dello strutturalismo. Come nota François Roustang,
quando l’Ecole Freudienne fu fondata, Lacan aveva in programma quella che definì “un’articolazione con le scienze affini” – quelle scienze che possedevano una certa affinità con la psicoanalisi. Non bisognava essere un analista, e nemmeno essere in analisi, per diventare membri della Scuola29.
In quegli anni, le politiche liberali ed aperte dell’EFP rappresentano a tutti gli effetti «una piccola rivoluzione», soprattutto se si paragona il successo di questa operazione allo spirito di gelosia claustrale, «stile club» che «permeava le altre società psicoanalitiche». Con i fasti dell’EFP, la psicoanalisi diventa «una disciplina che non sembra più temere il contatto con il mondo esterno»30, ma che si immerge nel panorama intellettuale francese, ponendosi in un dialogo attivo con esso. Parafrasando una nota formula di Lacan, con l’EFP la struttura rompe con la conclamata ermeticità delle scuole psicoanalitiche, con la loro settaria riservatezza, e scende “in strada”.
Il 9 ottobre del 1967, tre anni dopo aver dato vita all’EFP, Lacan inaugura la procedura della passe, un dispositivo che permette agli allievi della Scuola di essere riconosciuti come analisti attraverso la testimonianza, da parte del passant, della propria fine analisi a due passeurs, anch’essi membri dell’École. Quest’ultimi devono poi riferire, separatamente, quanto appreso dal passant ad una giuria di analisti. Se il procedimento va a buon fine, il passant può divenire un AE, Analyste de L’École. L’idea di fondo della passe è di sbarazzarsi tanto delle ingombranti strutture reverenziali tipiche della convenzionale analisi didattica, tanto dell’ideale quasi-mistico celato dietro il concetto di fine analisi, che lungi dall’essere un’esperienza ineffabile deve ora essere espressamente articolato nel linguaggio della testimonianza. Inoltre, eliminando qualunque parametro di giudizio predefinito da parte della giuria, la passe permette di conservare il criterio di unicità di ciascuna analisi senza assoggettarlo alla figura di un Maestro o di qualche altra personalità gerarchica carismatica. Come vedremo, poiché per Lacan l’analista «si autorizza da sé», la funzione della passe racchiude prima di tutto un valore anti-pedagogico, che cerca di porre in evidenza la conclusione logica – più che clinica - di fine analisi, e che mina dall’interno qualunque tentativo del collettivo di ricorrere ad una chiusura istituzionale o gerarchica. La natura intrinsecamente controversa di questo meccanismo, che negli anni Settanta assume un peso notevole all’interno dell’EFP, finisce al centro di numerosi e accesi dibattiti, così da contribuire ad infiammare l’atmosfera pre-dissoluzione - tanto che per alcuni fu proprio il fallimento della passe stessa a indurre Lacan a sciogliere l’École.
Poco tempo dopo, con gli eventi del maggio 1968, l’insegnamento di Lacan viene considerato dal direttore dell’ENS «anti-universitario», e la sua presenza nelle aule accademiche non più gradita. Anche in questo caso, Lacan sceglie un’uscita di scena solenne. Nella venticinquesima e ultima lezione del Seminario XVI¸ informa l’uditorio di aver ricevuto un biglietto dalla direzione universitaria in cui gli si comunicava che non avrebbe più potuto usufruire della sala Dussane, né di «altre sale dell’École per lo svolgimento del suo corso»31. Lacan commenta questa decisione da parte dell’ENS impegnandosi in una lunga e intransigente critica dell’apparato universitario, in cui anziché parlare di scomunica, preferisce riferirsi ad una «evacuazione», tradendo un maggiore senso di solidarietà con il suo uditorio rispetto al caso del 1963 (non uno, ma «300 evacuati»32):
L’università è molto feudale, funziona ancora così. Nell’università si è ligi come i vassalli. […] Non mi dispiace affatto che venga qui anteposta come ragione la riforma. Capite bene che non sono proprio nato ieri, so bene che a mezzogiorno e mezzo del mercoledì la sala Dussane non è ambita da nessuno. […] Vi dirò che quello che avete appena udito ho trovato che valesse la pena fotocopiarlo in un numero di copie sufficienti, almeno spero, per i miei uditori di oggi. […] Vi prego di prenderne, ciascuno di voi, solo uno. E poi, in futuro, chissà mai cosa sarà. Si tratta di S1, capite. Sarete tutti legati da qualcosa, saprete che siete stati qui il 25 giugno 1969, e che c’è anche una chance che il fatto di trovarvi qui quel giorno testimoni che siete stati qui tutto quell’anno. È un diploma. […] Vi faccio notare che questi biglietti sono firmati […] su 191 copie, la data è di mio pugno, sulle altre 150 è stata scritta dalla mia fedele segretaria, Gloria. […] Scrivere 191 volte 25.6.69, certo, è qualcosa di molto grafico, ma comunque mi sono dato la pena di farlo33.
Grazie all’intercessione di Lévi-Strauss, Lacan può comunque proseguire il Seminario presso la Facoltà di Diritto dell’École Pratique des Hautes Etudes, dove inaugura il Seminario XVII e rimane fino al termine delle sue lezioni, nel 1980. Sul finire del 1968 però si consuma un’altra svolta significativa. In occasione della creazione dell’Università di Vincennes (Paris VIII), Michel Foucault propone a Lacan di divenire responsabile del Dipartimento di Psicoanalisi, proposta che rischiava di rivelarsi a tutti gli effetti “indecente”: in pieno fermento anti-universitario e contro la mercificazione del sapere infatti, Lacan declina l’offerta e la gira a Serge Leclaire, suo stretto e fedele collaboratore, che accetta. Pur non assumendo l’incarico di persona, Lacan si ritroverà ad essere indirettamente coinvolto nel milieu universitario, dovendo conciliare la sua cosiddetta indole anti-istituzionale con il successivo e ambizioso progetto di formalizzare la psicoanalisi e rendere una sua parte, se non strettamente insegnabile, almeno trasmissibile. Difatti, il dipartimento conserva una gestione piuttosto lacaniana, perché pur essendo parte organica dell’università non rilascia diplomi né altri crediti o unità di valore. Nel frattempo, il numero di allievi della Scuola continua ad aumentare rapidamente, di pari passo con la celebrità di Lacan. Tuttavia, questa crescita non fu esente da dissidi: stando a Marini, man mano che l’EFP diventava un impero, cominciano a nascere gruppi che si organizzano autonomamente, «ignorandosi o competendo tra loro»34. Nonostante tutto, Lacan sembra non dare eccessivo credito a questi dissensi, e continua comunque a presenziare ad ogni Congresso.
Col tempo però, i dissapori non tardano a coinvolgere anche Vincennes: già alla fine del 1970, Leclaire rassegna le proprie dimissioni dal Dipartimento, non contento di alcuni proclami politici di Miller (primo fra tutti, sembrerebbe, quello per cui «la psicoanalisi è incompatibile con la rivoluzione»)35. Sino al 1974, è una direzione collegiale a sostituire Leclaire, ma le politiche troppo «lassiste» del dipartimento36 finiscono per rendere necessario l’intervento di Lacan in persona. La sospensione delle attività che ne segue si riversa anche sulle sorti del Seminario del 1974-1975, R.S.I, che inizia con numerose esitazioni solo il 19 novembre 1974. Oltre tutto, la sua prima lezione non appare su Ornicar?, e la sua pubblicazione slitta direttamente al secondo incontro, nel marzo dell’anno successivo, con le sessioni del 10 e del 17 dicembre. Nel 1973, dopo una «svolta salutare»37 che lo risolleva dal suo periodo di decadenza, il dipartimento viene affidato a Miller. Nello stesso anno, Lacan gli consegna anche le redini editoriali dei suoi seminari, incaricandolo di curarne i testi in vista della pubblicazione per Seuil. L’anno della svolta è il 1975: dal dipartimento, i dissensi nei confronti della figura di Miller si propagano diffusamente, e con crescente livore. Le imputazioni contro di lui riguardano principalmente il suo atteggiamento autoritario, ancor più ingiustificato secondo alcuni, in quanto Miller a quel tempo non era ancora nemmeno un analista.
Stando a chi gli era intorno, alla fine del 1976 Lacan era stanco e debilitato dalla vecchia, e questa condizione si sarebbe ripercossa palesemente sul controllo del suo “impero”. Il suo affaticamento appariva chiaro nel corso delle sedute del seminario, costellate di esitazioni e framezzati da interventi dei suoi collaboratori che erano divenuti ormai fin troppo abituali. A partire dal Seminario XXIV, e con crescente occorrenza nei successivi due, le sessioni tenute da Lacan diventano sempre più brevi e a più voci. Nel frattempo, la stessa brevità sembra coinvolgere anche la durata delle sedute analitiche, che secondo Roudinesco si dissolvono a pochi minuti. Parallelamente alla crisi istituzionale, iniziano a vedere la luce opere dissacranti come Un destin si funeste di François Roustang, che denuncia la «dottrina totalitaria» e «l’anti-umanismo teorico» di Lacan, e altri testi fortemente critici nei confronti dello psicoanalista francese38. Le sessioni del Seminario XXVI sono ancor più laconiche, e
la difficoltà di Lacan a ricopiare alla lavagna uno schema preparato [così come] i suoi lunghi silenzi, di cui alcuni occupavano l’intera durata di una lezione, […] sono da imputare a ben altro che problemi dovuti a nuovi tentativi di teorizzazione39.
Contemporaneamente, diviene chiaro come a partire dagli anni Settanta la Scuola si fosse «gonfiata troppo rapidamente»40, tendenza esasperata dai rapporti con il Dipartimento di Vincennes e da una sensazionale apertura mediatica. Come già accennato, i gruppi di lavoro, ormai troppo numerosi e dissociati tra loro, prendono ad agire per lo più per iniziativa personale, e la scarsa supervisione, insieme con l’apprensione per le condizioni di salute di Lacan, ponevano ormai l’ardua questione della successione.
In questo clima di improduttivo liberalismo da un lato, e di preoccupazione circa l’eredità dell’EFP post-Lacan dall’altro, René Major costituisce un gruppo informale, chiamato Confrontations. Pur non avendo un orientamento dottrinale preciso, l’iniziativa si trasforma presto in una sede di confronto politico in cui i disaccordi verso Lacan si affermano sempre più categoricamente. Nel luglio del 1979, l’École è definitivamente compromessa: l’Assemblea Generale convocata per il 30 settembre dello stesso anno e definita da Dorgeuille qualcosa di «imbarazzante, turbolento, confuso», sfocia in un vero e proprio «pretesto» per «denunciare l’autoritarismo [e] la tirannia di Lacan»41, al punto da divenire il momento di maggior tensione nella breve storia dell’EFP. Il 13 dicembre, Miller interviene durante una Conferenza e pronuncia un discorso in cui definisce «tutti lacaniani», il significante vuoto che dovrebbe accomunare i membri dell’École, un falso universale, deputato a schermare la compromissione generale del lacanismo, ormai snaturatosi in una moltitudine inconsistente di seguaci, sostenitori e imitatori.
C’è stato un tempo in cui il vocabolario di Lacan bastava a fare la differenza. Era l’epoca in cui parlavamo di sapere e di verità, laddove altri parlavano di bisogno e di istinto […], della parola, del simbolico, del significante, laddove altri parlavano di affetti e di immagini. Ora, è un fatto che questo vocabolario da solo non fa più la differenza, in quanto oggi è diventato il vocabolario un po’ di tutti. Ed è proprio per questo motivo che non è più un vocabolario42.
Miller non accusa tanto l’EFP di aver tradito la propria singolarità ossificandosi nella figura di Lacan come suo leader carismatico, quanto di essersi identificata all’Ideale del sapere, «a un tipo ideale di razionalità»43 (lo stesso che Lacan aveva attribuito agli psicoanalisti di prima generazione e alla loro disperata difesa della sapienza dell’analista). A differenza del discorso del padrone, ricorda Miller, il discorso dell’analista non si sostiene sull’identificazione con la posizione di agente: l’analista non si prende per un Maestro o per una guida spirituale, ma si identifica al caput mortuum, al resto, al reietto. Così come l’inconscio non costituisce nulla di sostanziale, il discorso analitico, in cui l’analista prende il posto dell’oggetto a, deve essere strutturato a partire da una mancanza, e non dal suo subdolo misconoscimento: «non tappare questa beanza, ma assumerla e elaborarla, ecco l’insegnamento di Lacan»44.
In quello stesso periodo, sul numero 19 di Ornicar? appare la prima lezione del Seminario XXV (1977-78) ma, curiosamente, anziché pubblicare la sessione con il titolo originale del seminario (Il momento di concludere), Miller decide di rimpiazzarla con Une pratique de bavardage (Una pratica del chiacchiericcio). È possibile che questa decisione risponda a due diverse ragioni, non per forza incompatibili tra loro. Da un lato, è verosimile che l’omissione del titolo del seminario servisse a ridimensionare la caricatura mediaticamente efficace di un Lacan sempre più esausto e prossimo al ritiro, differendo così implicitamente la questione della successione dell’EFP. Dall’altro, e in linea con l’invettiva di Miller contro i membri della Scuola, il titolo sostitutivo può ben rappresentare un rincaro nei confronti di chi, identificandosi al sapere e al prestigio dell’Ecole, aveva trasformato l’analisi in una menzogna, una truffa legittimata dal potere dell’istituzione. Entrambe le soluzioni potrebbero costituire un argine alla violenta campagna mediatica innescata contro Lacan da dentro e da fuori l’EFP, tempesta che cesserà, come sottolinea Dorgeuille, subito dopo il boato della Dissoluzione.
Ed infatti, con una lettera firmata 5 gennaio 1980 e recapitata ai membri della Scuola tre giorni dopo, Lacan annuncia la dissoluzione dell’École Freudienne de Paris, ed invita chi volesse seguirlo al di fuori di essa a dargliene notizia entro i dieci giorni successivi. Pur ammutolendo il baccano attorno alla Scuola, la dissoluzione non fu risolutiva e i suoi contenziosi politici e amministrativi trovarono un seguito per tutto il 1980. Sarà solo il 27 settembre che, una volta per tutte, si delibererà che la nascente Cause freudienne dovrà essere la sola e unica associazione legittimata a raccogliere i beni e l’eredità - culturale e non - dell’EFP.
8.3 Contro la necessità di gruppo
Per Lacan, quello tra il gruppo e l’analista è un aut-aut impermeabile a qualunque mediazione possibile, perché in ogni aggregazione «gli esseri reclutati si situano in questo reale in nome di principi del tutto differenti da quelli che prima hanno consentito la costituzione di una classe» 45. Parafrasando, e facendo vagamente eco all’Elvio Fachinelli di Gruppo chiuso o gruppo aperto?, lo scacco del gruppo risiede nel misconoscimento della causa che ha inizialmente portato i suoi membri ad aggregarsi. Il principio negativo che regola i legami sociali fa sì che tale causa, anche la più solidale possibile, ceda prima o poi al peso di una «oscenità immaginaria» che ne muta radicalmente sia la struttura fondamentale sia la natura del discorso.
Il progressivo scadimento dei legami sociali di cui parla Lacan coinvolge anche e soprattutto le istituzioni, che guadagnerebbero la propria stabilità gerarchica tramite una nozione padronale di aggregazione, regolata da «leggi di concorrenza», e dunque di potere - come ben dimostra «la cosiddetta istituzione internazionale»46, l’IPA (International Psychoanalytical Association). In un primo momento, il cinismo di Lacan nei confronti dei gruppi riproduce fedelmente l’atmosfera di Psicologia delle masse e analisi dell’Io di Freud, in cui il padre della psicoanalisi manifesta tutta la propria diffidenza verso i collettivi permanenti come l’Esercito o la Chiesa47. Ciò che renderebbe consistenti queste aggregazioni secolari e monumentali deriverebbe per Freud da un (subdolo) processo di doppia idealizzazione-identificazione: il soldato, ad esempio, assumerebbe i propri superiori come Ideale, identificandosi parimenti con i propri commilitoni quali suoi pari. Questa strategia di integrazione dell’atteggiamento libidico, che consente contemporaneamente sia di mantenere l’ordine del gruppo, sia di dirigerne i membri verso uno specifico interesse, si propagherebbe in misura più sublimata anche a tutti gli altri gruppi. Eppure, un simile modo di pensare il gruppo si rivela insufficiente a spiegare perché quest’ultimo arriverebbe a misconoscere il proprio principio di aggregazione e a sostituirlo con un surrogato meramente ideale. Cos’è che ritorce, per così dire, il gruppo contro se stesso? A quali condizioni i suoi principi sarebbero sfigurati da una così virulenta spinta alla de-realizzazione?
Alcune letture di ispirazione foucaultiana suggerirebbero che la ragione di questo scadimento risieda nell’irruenza liquida e onnipervasiva del potere, che corromperebbe la purezza del legame sociale e sostituirebbe alla fiducia tra i membri l’asettica misura dell’interesse. Lacan stesso, del resto, nel suo “ritorno a Freud” pronunciato all’inizio degli anni Cinquanta, non era andato molto lontano: in Funzione e campo criticava duramente la struttura reazionaria dell’IPA, denunciandone soprattutto i criteri di fine analisi (identificazione del paziente all’ego dell’analista) come reazionari e volti al mansueto adattamento dell’individuo all’ambiente sociale. Ma questa lettura spiegherebbe solo una parte della logica lacaniana dei gruppi, perché per Lacan, specialmente dalla seconda metà degli anni Sessanta in poi, non è affatto il potere a produrre la corruzione del legame sociale. La tesi è ben più radicale: il potere non è la causa della settarizzazione, quanto il più attendibile e pervasivo dei suoi effetti. Se il gruppo decade, o si compatta in una fatiscente struttura gerarchica, è perché, in realtà, il gruppo non esiste. Lo scadimento del gruppo è strutturale, e dipende dalla sua incapacità di pensare il proprio disordine, di venire a patti con l’angoscia dell’assenza di legame. Quella che Fachinelli chiamava «settarizzazione», descrivendola come un riflesso ai limiti del biologico, si trasforma in Lacan nell’insostenibilità dell’innominabile, nel bisogno di colmare la frammentazione originaria del gruppo con un’icona o con qualsiasi altro mezzo che faccia da tappo all’assenza di legame. Tuttavia, come nota Badiou definendolo «un pensatore del disordine»48, ciò non vuol dire che in Lacan la co-esistenza del collettivo non esista. Semmai, è vero il contrario: è solo prendendo atto delle contraddizioni e delle insanabili fratture che attraversano ciascun gruppo (e la cosiddetta dimensione del “sociale” tout court) che questa esistenza collettiva si realizza, nel senso che diventa realmente possibile. In altre parole, affinché sia reale, il gruppo non deve avere più «alcuna portata di senso»49. Lacan ha formalizzato questa impasse del legame sociale alla fine degli anni Sessanta, con la logica dei discorsi. Ponendo il discorso del padrone come il discorso fondativo, la premessa stessa dell’esistenza di qualcosa come un discorso, Lacan ribadisce come l’alienazione fondamentale che costituisce il gruppo non debba far desistere l’individuo dall’organizzarsi in collettivi, quanto piuttosto invitarlo, come nell’ideale di fine analisi proposto nel Seminario XI, ad attraversarne il fantasma.
Brevemente, nel legame imposto dal discorso del padrone, la posizione dominante di agente è occupata dal significante padrone (S1), che rappresenta tutti i soggetti (S) per un altro significante (S2), mentre nella posizione di resto c’è l’oggetto piccolo a. In linea con quanto detto sinora, poiché questo discorso si regge esclusivamente sullo scarto di a, ovvero sulla rimozione della presenza dell’oggetto a come surplus irriducibile, esso non potrà che rivelarsi intrinsecamente menzognero, una frode [escroquerie]. Come spiega Massimo Recalcati, «ciò che regge la logica dei discorsi non è la piena esaustione di reale e razionale, la reversibilità logica di soggetto e oggetto, quanto piuttosto una debolezza intrinseca»50. Per stare in piedi, il discorso del padrone ha bisogno di rimuovere costantemente l’impossibilità della sua completa costituzione ma, contemporaneamente, è proprio questo stesso processo che lascia emergere come sia proprio questa impasse a garantire la sua perpetuazione: a è l’ostacolo e al tempo stesso il supporto di qualunque discorso possibile, con il risultato che, paradossalmente, senza tale impossibilità strutturale non potrebbe esserci alcun discorso del padrone. Nel Seminario XVII, Lacan dice espressamente che il discorso del padrone maschera la divisione del soggetto, e oppone a questa (inconsistente) logica gruppale il suo rovescio, il discorso dell’analista. Qui, è l’oggetto piccolo a ad occupare la posizione di agente, il resto indivisibile che rimarca di volta in volta il sibilo insopprimibile del Reale: «niente è tutto»51. Nella pratica analitica, ciò vuol dire che l’analista non deve identificarsi al sapere di una qualche teoria o al nome proprio di un leader ideale (Freud, Jung, Lacan eccetera), né tantomeno reclamare la propria integrità dall’appartenenza simbolica ad una specifica Scuola. Piuttosto, l’analista deve «funziona[re] […] come rappresentante dell’oggetto a»52, porsi come l’oggetto-causa del desiderio dell’analizzante e, al momento opportuno, uscire di scena: sapersi fare ‘resto’, reietto o, come direbbe Lacan, caput mortuum. L’ideale di gruppo che abbiamo descritto sinora è pertanto del tutto incompatibile con la posizione assunta dall’analista, perché mentre il primo si declina a partire dal discorso del padrone ed è dunque frutto di una particolare pratica di dominio, il secondo è esattamente ciò che, sovversivamente, svela l’inconsistenza di questa stessa logica di potere. Dopo aver fondato l’EFP, Lacan ha insistito più volte che, lungi dall’identificarsi con l’istituzione che lo legittima, l’analista deve ribadire «l’impossibile del gruppo analitico»53. Questa rettifica fa un po’ da spina dorsale a tutta la Lettera di Dissoluzione, in cui Lacan punta il dito prima contro i successori di Freud, e poi contro se stesso e la sua Scuola. La sua idea è che, dopo Freud, la psicoanalisi si sia tramutata in una «Chiesa», perché ha permesso «al gruppo psicoanalitico di avere la meglio sul discorso»54. Proprio in apertura del Seminario XI, Lacan aveva paragonato l’IPA ad una «Chiesa», sottolineando la sua base fondamentalmente religiosa: «non sto dicendovi – ma non sarebbe impossibile – che la comunità psicoanalitica è una Chiesa. Tuttavia, incontestabilmente, sorge il problema di sapere che cosa, in essa, può far eco a una pratica religiosa»55.
Ancora una volta, questa accusa non deve essere intesa in senso puramente disfattista: l’insostenibilità del legame sociale non implica la sua improduttività. Piuttosto, è alla ruggine del senso che l’esistenza collettiva deve sottrarsi, se non vuole ritrovarsi ingabbiata in un nuovo significante padrone. Non si tratta di essere anarchici e rigettare in toto l’ipotesi del collettivo dunque, ma di essere militanti, cioè di sottoporre il proprio ideale ad un rinnovamento continuo dell’anti-senso. Come scrive Johnston, «le organizzazioni ossificano il senso […] persino delle rivoluzioni più radicali», dimostrando che «senza ricorrere ad un rinnovamento perpetuo, la psicoanalisi morirà» 56. E se la Scuola rischia di degenerare in Chiesa, è perché quest’ultima costituisce l’incarnazione del più potente e dirompente dispensatore di senso che ci sia, la religione. Ed è proprio questa complicità tra il senso e l’istituzione da una parte e la psicoanalisi e la discordia dell’oggetto a dall’altra che attanaglia Lacan poco prima della Dissoluzione:
La questione consiste nel sapere come abbia effettivamente funzionato finora la società analitica di cui Freud ha tracciato i primi lineamenti e che ha assunto in seguito una forma sempre più precisa. Queste società sono rimase troppo prudenti, in quanto funzionano secondo le solite leggi del gruppo, per cui è sempre e assolutamente necessario che si manifesti il padrone, e ritengo di aver ben potuto dirlo in mezzo al subbuglio del Maggio ’6857.
In termini politici, questa ossificazione gerarchica delle società di psicoanalisi si riflette nell’invettiva del Seminario XXVII. Qui Lacan ribadisce come le gerarchie sociali, in particolare quelle che regolamentano il cursus honorum all’interno delle Scuole e l’analisi didattica, costituiscano un sostegno al tempo stesso illusorio e reazionario, notando con dissapore come il «panico per la dissoluzione» provato da alcuni membri dell’EFP riveli retroattivamente che tale «sentimento istituzionale» era attivo anche nella sua stessa Scuola. Se «la gerarchia si sostiene per il fatto di gestire il senso», è solo una politica contro-gerarchica che può preservare la psicoanalisi dalla tentazione di divenire una Chiesa: «per questo motivo» dice descrivendo la struttura del suo successivo progetto, «non metto nessun responsabile in sella alla Causa freudiana»; essa non dovrà costituire «nessun grande insieme», ma sostenersi sulla assoluta contingenza del «vortice»58. Nella lezione dell’11 marzo 1980, significativamente intitolata D’Écolage (presumibile gioco di parole tra Scuola [École] e colla [colle]), Lacan annuncia che la Causa non sarà una Scuola, ma «un Campo»59, e che essa dovrà trarre la propria unità esclusivamente dall’affinità per la formalizzazione, un tipo di discorso drenato quanto più possibile dai raggiri del senso. I suoi membri dovranno costituirsi come cartello, cioè in un’aggregazione di quattro persone «più uno», e «per prevenire l’effetto di collante, si dovrà compiere una permutazione ogni anno, o ogni due al massimo»60. Questa soluzione era stata già proposta da Lacan alla fine degli anni Sessanta, con il dispositivo della passe, un modo nuovo e contro-istituzionale di gestire (o forse sarebbe meglio dire “far scoppiare”) il concetto di analisi didattica. Non basandosi su maestri o padroni, l’unico genere di collettivo concepibile dalla passe è appunto quello del cartello, che prevede due condizioni minime ma imprescindibili: da un lato, il numero dei suoi componenti deve essere rigorosamente esiguo (nell’EFP, Lacan ne richiedeva sei o sette al massimo, nella Causa il numero scenderà a quattro più uno), dall’altro, occorre che esso sia gestito orizzontalmente, con la rotazione incessante degli incarichi. In un suo saggio sulla questione della formazione degli analisti, Moustapha Saofouan spiega molto eloquentemente la funzione del cartello in psicoanalisi, e della sua spinta anti-gruppale:
in un gruppo che soddisfa condizioni numeriche abbastanza precise, voglio dire che si componga di almeno quattro persone, e di sei al massimo, c’è sempre una persona che si isola come eco del gruppo, ma questa volta nel senso che essa assume la funzione della presa di parola in quanto è nell’ascoltatore che questa parola trova la risposta che quella include; e al contrario del capo, la presa del quale salta agli occhi, la “più una persona” si isola, di modo che il più delle volte passa inosservata. […] Lacan è stato il più uno, senza che al momento nessuno lo notasse. Metteva in atto ciò che diceva mentre lo diceva. Lacan era proprio l’uomo di questo genere di ‘artificio’. Che Lacan dica che è dovere degli analisti essere attenti a questo più uno la cui presenza passa generalmente inosservata, ciò equivale a dire che il cartel rappresentava ai suoi occhi l’unità di combattimento contro la psicologia di gruppo, avida di leadership. Questa battaglia è stata persa61.
A posteriori, appare chiaro come il meccanismo della passe e delle sue logiche gruppali non abbiano retto, al punto che è stato proprio questo dispositivo – che avrebbe dovuto prevenire la massificazione – a sancire la perdita di controllo del progetto e ad innescare la crisi della Scuola. Alcuni anni prima di pronunciare la dissoluzione, nell’aprile del 1975, Lacan dedica una fugace ma significativa analisi ai rapporti tra il gruppo e la religione proprio al termine delle Journées des Cartel. Appena terminato di parlare della costituzione del cartello, egli riconduce polemicamente la numerosità dei grandi gruppi proprio all’anonimato dei seguaci religiosi.
È un’esperienza evidente l’esistenza di comunità chiamate, non a caso, religiose, le quali non hanno mai conosciuta, e addirittura mai vista senza reticenza, una limitazione del numero dei propri componenti. Sembra che non ci sia alcun limite al numero di persone che una comunità religiosa possa raggruppare. […] Per esempio, il fatto che è l’anonimato a reggere la comunità religiosa deve già farvi intuire che nel cartello vi è un legame tra il numero ristretto e il fatto che ciascuno porta, in quel piccolo gruppo, il proprio nome62.
Si tratta di un passaggio molto importante, perché cinque anni dopo, a dissoluzione già avvenuta, Lacan menzionerà queste stesse ragioni per giustificare lo scioglimento della Scuola, suggerendo non troppo implicitamente che la constatazione del fallimento dell’EFP sia indissociabile da quella della passe. Nata inizialmente come «qualcosa che non è assolutamente dell’ordine del discorso del padrone, e tanto meno del maestro»63, non solo quest’ultima ha finito per funzionare «al contrario di ciò per cui era stata fondata»64, ma ha anche fatto «meno Scuola […] che colla», accelerando – anziché prevenire – gli effetti di settarizzazione del gruppo.
Tutto ciò dimostra come nel Seminario XXVII la religione occupi un posto decisamente centrale: non tanto perché, come Lacan ha più volte ripetuto, «la stabilità della religione deriva dal fatto che il senso è sempre religioso»65 ma perché, diversamente dai seminari precedenti (intrisi di un più rassegnato pessimismo e accomunati da un severo questionamento della psicoanalisi), qui la prospettiva della dissoluzione come atto radicale dell’analista dimostra che la psicoanalisi può ancora controbattere in qualche modo all’inesorabilità del senso e della religione. È come se, dopo aver sciolto l’École, Lacan riacquistasse speranza nei confronti della psicoanalisi, riposizionandola ancora una volta al di sopra degli altri discorsi e riconferendole le sue originarie doti sovversive. La complessiva ripresa di tono di questo seminario mi sembra evidente anche nell’atteggiamento di Lacan, come ad esempio quando, sul punto di annunciare la partenza per Caracas, dice «tornerò perché la mia pratica è qui – e questo seminario non è parte della mia pratica, ma la integra», ribadendo che «esso non è sul punto di finire»66 (sardonico, se si pensa che, dopo anni di esitazione circa la continuazione del seminario, Lacan si pronunci a favore di un «seminario perpetuo» proprio quando il suo insegnamento non troverà ulteriore seguito). Anche Alain Lemosof ha notato che in questo seminario l’interdipendenza tra significante e religione su cui Lacan ha sempre insistito sembra acquistare una diversa accezione, che si discosta dalle sue occorrenze usuali67. Ma mentre secondo Lemosof questa differenza starebbe nel fatto che anche il significante (e non solo il senso) possa rivelarsi complice della religione, trasformandosi in una cieca e incondizionata adorazione della teoria psicoanalitica, io credo che una simile incongruenza indichi l’esatto contrario: laddove nei precedenti seminari, soprattutto nel XXIV e nel XXV, Lacan accusava la psicoanalisi di essere un «delirio», una «truffa» o una «pratica del chiacchiericcio», qui la distinzione tra una psicoanalisi snaturata dal senso ed una psicoanalisi orientata al reale diviene decisamente più nitida. Mentre fino ad alcuni anni prima sembrava che non vi fosse una soluzione certa ed affidabile per evitare che la psicoanalisi degenerasse in delirio, ora Lacan non ha dubbi al riguardo: la psicoanalisi non è una religione, ma «vi tende, irresistibilmente», e questo «non appena ci si immagina che l’interpretazione operi col senso»68. Eppure, aggiunge subito dopo, «io insegno che la sua molla è altrove […] nel significante in quanto tale»69.
Contrariamente a quanto afferma Lemosof pertanto, non è la religione che, in qualche modo, avrebbe finito per contaminare il significante e gettare l’intera pratica analitica in un brodo di pura futilità. Con una clamorosa ripresa rispetto allo sconforto precedente, Lacan riabilita il significante come unico scibboleth della psicoanalisi e indica, ancora una volta, il matema come il solo argine possibile contro il virulento intralcio del senso.
8.4 Per un seminario perpetuo
Come abbiamo visto sinora, e a differenza delle letture doxastiche dell’ultimo Lacan, sembrerebbe che Dissolution possa e meriti di essere letto come un seminario a tutti gli effetti. Questa mia posizione non dipende unicamente dall’evidenza che sia Lacan stesso a riferirsi all’insieme di queste ultime sedute come ad un vero e proprio seminario, ma anche dal fatto che in esso sia possibile isolare alcuni importanti nuclei argomentativi tipicamente lacaniani, che ribadiscono oppure ritrattano posizioni precedenti. In altre parole, Dissolution non ruota esclusivamente attorno al discorso – comunque centrale – dello scioglimento dell’EFP e della costituzione della Cause freudienne, ma si concentra anche su questioni strettamente teoriche. In questo paragrafo mi occuperò brevemente del modo in cui Lacan tratta tale materiale nel corso delle sei lezioni di Dissolution.
Al di là di un esteso ma dopotutto lineare riferimento alla sessualità femminile e al godimento fallico (che, come «soddisfazione autentica» e ostacolo al rapporto sessuale, conserva la sua ordinaria bifidità), uno dei punti forti che ricorre nel Seminario XXVII è la questione della debilità mentale, che occupa una posizione essenziale nell’ultimo Lacan. Si tratta di un argomento sviluppato ampiamente a partire dall’adozione della topologia, e che lo psicoanalista francese utilizza per radicalizzare le sue prime tesi sull’antropologia filosofica e sulla supplenza immaginaria che colma il dis-adattamento strutturale dell’animale parlante. Dopo aver decretato che la debilità mentale è qualcosa di essenzialmente immaginario (perché indissociabile dal modo in cui l’uomo percepisce lo spazio a partire dalla ri-proiezione bidimensionale della propria immagine corporea), nel Seminario XXIV Lacan riconcepisce la debilità mentale come intrinsecamente simbolica e, con non poche oscillazioni, la identifica ora con il linguaggio e il mentale (e cioè con il pensiero per come esso viene inteso nelle discipline psy e umanistiche), ora semplicemente con l’inconscio.
Tuttavia, con il progredire della critica all’inconscio freudiano e la ritrattazione della formula “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”, la faccenda si semplifica notevolmente: squalificando l’istanza dell’inconscio ed abbassandola ad un fenomeno in continuità topologica con la coscienza, Lacan fa equivalere l’inconscio della metapsicologia ad un’elucubrazione mentale, e quindi, per continuità, al mentale tout court. Ma poiché, a meno di non voler ricadere in uno sconvenente sostanzialismo, il mentale è inconcepibile se separato dagli effetti di linguaggio («il mentale è intessuto di parole» dice Lacan nella lezione del 10 maggio 1977), nel Seminario XXVII la debilità mentale si riduce alla semplice ma eloquente evidenza che la parola non si accorda con il pensiero: non solo l’animale parlante non dice quello che pensa perché «misconosce» la parola, ma ciò accade anche perché quest’ultima, retroattivamente, «ingarbuglia» il suo modo di pensare70. Se il linguaggio è un «bubbone»71, la parola è un intoppo, l’impasse del mentale, ed è per questo motivo che l’uomo «pensa debile»72. A livello epistemologico, questo scacco della parola si ripercuote sull’esigenza del soggetto di pensare l’universo come ciclico, circolare, ovvero di «introdurre l’Uno nel reale» in modo che esso risulti «inglobante rispetto a quel corpo che lo abita»73. Il bisogno di pensare il «mito»74 dell’universo come Uno è puramente inconscio, e «ci dimostra […] che la parola è oscurantista»75, perché permette di far esistere ciò a cui essa si riferisce pur non arrivando a toccare il reale. Non troppo diversamente, nel Seminario XX, Lacan dice che «il significante è stupido»76, in quanto «gli effetti di significato hanno l’aria di non avere niente a che fare con ciò che li causa. Questo vuol dire che le referenze, le cose che il significante serve ad approcciare, restano appunto approssimative»77. Non solo non esiste alcuna realtà pre-discorsiva, perché ciascuna realtà si produce a partire da un «effetto di discorso»78, ma questa stessa fondazione della realtà per mezzo del linguaggio è esattamente ciò che ci preclude l’accesso alla bruta oggettività del reale.
Proprio perché è il linguaggio a definire la realtà, questo oscurantismo viene raddoppiato dal suo inevitabile rimando alla Rivelazione, al divino «sia fatta la luce». È esattamente in questo modo che deve essere letta l’affermazione di Lacan per cui «fino a quando si dirà qualcosa, ci sarà l’ipotesi Dio»79: Dio è inconscio perché è presupposto in qualunque effetto del significante. O meglio, Dio è l’entropia del significante in quanto tale, una volta che essa trapassa nel mentale. La novità del Seminario XXVII sta nel fatto che, in un certo senso, l’ipotesi Dio viene esplicitamente estesa alla filantropia, che «triplica» l’oscurantismo della parola, e al progressismo, che la «quadruplica». In particolare, specifica Lacan, con il progressismo è «notte fonda […] Quando le stelle si spengono, ecco cosa abbiamo: «il desiderio degli uomini è di aiutarsi gli uni con gli altri per stare meglio».
È probabile che questo colpo basso nei confronti del Comunismo à la page non faccia solo parte della conclamata critica dell’ideologia che percorre trasversalmente tutto l’insegnamento di Lacan, ma si riversi in un più intenzionale corpo a corpo con Marx, il marxismo e la filosofia. Effettivamente, nel corso di Dissolution, il nome del filosofo tedesco appare in più di un’occasione, fatto non trascurabile se si considerano le poche e brevi lezioni del seminario. Nella Lettera di Dissoluzione, ribadendo come la stabilità della religione e delle istituzioni derivino dal senso, Lacan dice che «è la Chiesa […] che sostiene il marxismo ricevendone sangue nuovo»80. Questo riferimento di passaggio può sembrare particolarmente equivoco, specie se si pensa che Lacan esalta Marx come il vero inventore del sintomo (qui inteso come ciò che mina la falsa universalità prodotta dal senso). Inoltre, non è chiaro se Lacan si stia riferendo direttamente al Marx filosofo nella sua persona o al Marx quale Ideale della linea politica marxista.
Tuttavia, il dubbio può essere presto chiarito facendo riferimento alla lezione del 18 marzo, in cui il messaggio è invece inequivocabile:
Ho reso omaggio a Marx come all’inventore del sintomo. Questo Marx, tuttavia, è il restauratore dell’ordine, per il semplice fatto che egli ha re-insufflato nel proletariato la dir-mensione del senso. [Per questo] la Chiesa lo ha preso a modello81.
Tra le due alternative proposte poc’anzi, la scelta migliore dovrebbe allora essere quella di non sceglierne nessuna in particolare, ovvero di conservarle entrambe: Lacan si rivolge tanto al Marx filosofo, inventore del sintomo quale entità perturbatrice che smentisce l’universale di cui è parte, tanto al Marx prosopopea del marxismo, perché questa “doppia personalità” incarna l’esempio perfetto di come anche il più radicale e destabilizzante degli atti rischi di ossificarsi in una squallida operazione di senso. La politica identitaria del proletariato marxiano in questo caso, inizialmente nata come impareggiabile agente di destabilizzazione, rappresenterebbe ormai la più riuscita delle religioni moderne, una narrazione inzuppata di senso che, anziché minacciare l’integrità del sistema, ne è la principale molla reazionaria, il più efficiente dei dispositivi di restaurazione.
Questo riposizionamento rispetto al marxismo è a sua volta significativamente allacciato con l’ultima parola di Lacan sulla filosofia in generale. Come ha notato Johnston, per il tardo - ma non per l’ultimo Lacan -, il senso agisce da spartiacque per dividere, da un lato, la filosofia e la religione e, dall’altro, la psicoanalisi e la scienza galileiana. Mentre le prime due si ascriverebbero ad un ambito idealistico ed eccessivamente compromesso dalla vischiosità del senso, la psicoanalisi e le scienze formalizzabili riuscirebbero a fornire un confronto materialistico con il nocciolo insensato del reale. La postura cosiddetta “antifilosofica” di Lacan, dopo una conclamata ed impegnativa ambivalenza nei confronti della filosofia, si era consolidata con la riorganizzazione del Dipartimento di psicoanalisi di Vincennes, nel 1975. La dottrina del matema e l’ideale di formalizzazione scientifica perseguiti in quegli anni entravano in un rapporto di mutua e inesorabile esclusione con il sapere filosofico. Mentre infatti quest’ultimo, sempre più snaturato dalle maglie del mercato del sapere e reso ottuso dall’Università, cadeva dal lato del discorso del padrone e del senso, la psicoanalisi funzionava proprio come operatore di non-senso, perpetuando la demistificazione radicale delle elucubrazioni ideologiche. Al contrario, prosegue Johnston, negli ultimi seminari (XXIV-XXV) si assiste ad una drastica riconfigurazione della «tetrade» psicoanalisi, filosofia, religione e scienza, dettata dall’irriducibilità del senso nell’esperienza umana82. A mio parere, anziché confermare la tesi di Johnston, Dissolution mescola nuovamente le carte: nel dattiloscritto Monsieur A., in cui viene pronunciato il celebre adagio dell’antifilosofia («insorgo, se così posso dire, contro la filosofia»83), Lacan chiude i conti sui presunti rapporti tra psicoanalisi e filosofia sentenziando non solo che la psicoanalisi non ha bisogno della filosofia per far comprendere cos’è un soggetto, ma anche che quest’ultima ormai «è una cosa finita»84. Potremmo dire che dopo il triennio pessimista del 1976-1979 (Seminari XXIV-XXVI), Lacan torni a schierarsi apertamente tanto contro la filosofia, quanto contro la religione. Se infatti, come sostiene Jean-Claude Milner, «antifilosofia è solamente un altro nome del matema», nel senso che «vi è mutua esclusione tra la filosofia e il matema della psicoanalisi»85, allora l’insurrezione finale di Lacan contro la filosofia avvenuta dopo il dissolvimento della EFP è da attribuire non tanto ad un definitivo e inguaribile nichilismo, quanto piuttosto ad un invito a fare attivamente ritorno alla formalizzazione e al matema. Anzi, potremmo persino spingerci a dire che con il suo «non mi vanto di produrre senso […] giacché il reale è ciò che vi si oppone»86 non solo Lacan riabiliti la separazione tra psicoanalisi da una parte e religione e filosofia dall’altra, ma finisca per ridurre la filosofia ad un surrogato della religione, come afferma sprezzantemente quando, riferendosi a Marx, dice che «la Chiesa lo ha preso a modello»87. Certo, egli non intende dire che la filosofia sia sempre stata un’ancella della religione, ma che quest’ultima, in piena e irrefrenabile espansione, sia riuscita a prevaricare definitivamente sulla filosofia, aumentando notevolmente le proprie chance di successo: «sappiate che il senso religioso farà un boom di cui non avete nessuna specie di idea»88. La psicoanalisi dunque, pur essendole tanto prossima da «tender[vi] irresistibilmente»89, è l’ultimo baluardo contro il trionfo della religione.
8.5 Le malentendu: l’inconscio minimale
Nella lezione del seminario che precede la partenza per Caracas, Lacan chiude il cerchio anti-riduttivista mettendo in relazione la pervasività della religione con la debilità mentale. Come abbiamo detto, il senso è una componente irriducibile ed essenziale della vita di ogni soggetto: il fatto stesso che si parli, inevitabilmente, presuppone l’ipotesi Dio, e la religione lavorerebbe proprio da industria del senso, una macchina inarrestabile che mette il soggetto al riparo dalla desolante indifferenza del reale. A livello gnostico, l’interdipendenza tra debilità e religione, tra linguaggio e senso, si articola nella falsa credenza che «tutto possa essere rivelato», quando invece c’è sempre «una parte che non si rivelerà mai»90. L’errore dell’animale parlante allora, la sua debilità mentale, sta nel credere che il linguaggio possa schiudergli un sapere assoluto, ovvero condurlo, come nel Faust, ad uno svelamento totale del sapere. Tutt’al contrario, egli è nel pieno del «malinteso [malentendu]», perché il linguaggio è, per usare ancora un termine del Seminario XXI, un puro troumatisme (gioco di parole tra trou (buco) e traumatisme (trauma)), un’invenzione che subentra proprio per supplire all’incompletezza del reale. Il fatto che si parli è la prova lampante che siamo inchiodati al non-tutto, a “pezzi” di reale. La psicoanalisi ribadisce questa verità d’incompletezza ogni giorno, perché lavorare sull’inconscio implica a monte l’assunto che ciascun parlessere possieda una verità essenzialmente particolare: in altri termini, se non c’è tutto è perché «non c’è impasse comune»91.
Questa promessa di rivelazione è invece proprio ciò di cui la religione «va fiera», il suo marchio di fabbrica. Per non divenire anch’essa una religione, che nega la verità di incompletezza e la rimpiazza con una elucubrazione di senso onnisciente, un tutto-sapere, la psicoanalisi è chiamata a dissacrare il fantasma della rivelazione e, come dice Lacan, «sfrutta[re] il malinteso»92 (con un gioco di parole, potremmo ribaltare questa massima e dire che essa deve fare del malinteso la sua rivelazione).
L’importanza di quest’ultima parola non deve essere in alcun modo trascurata, perché è fondamentale per cogliere l’orientamento finale di Lacan nei confronti dell’inconscio: per Alain Lemosof, in Dissolution Lacan sembra essere sul punto di sostituire il termine “malentendu” a quello di «inconscio»93, proposta che costituisce il cuore dell’ultima lezione che stiamo analizzando, titolata proprio Le malentendu. Non ho obiezioni alla proposta di Lemosof, perché questa intuizione di Lacan sembra effettivamente trovare sufficiente riscontro in diversi punti della lezione. Ad esempio, quando afferma che «io non dico che il verbo sia creatore. Io dico tutt’altra cosa perché la mia pratica lo comporta: io dico che il verbo è inconscio – e cioè malinteso»94. Un passaggio simile ricorre anche poco più avanti: «ciò che voi sostenete a titolo dell’inconscio, cioè di malinteso, è lì che si radica»95. Inoltre, questa equiparazione trova ulteriore supporto nel tentativo, già avviato nel Seminario XXIV, di fornire una nozione alternativa e minimale di inconscio, che venga alleggerita degli ingombri concettuali e sostanzialistici dell’istanza presentata nella seconda topica freudiana. Come è noto, Lacan ha sempre serbato una manifesta reticenza nei confronti della riconfigurazione strutturale dell’inconscio presentata da Freud ne L’Io e l’Es, tanto che potremmo definire questo disaccordo come lo scoglio definitivo che, nonostante tutto, continua a tenere Lacan separato da Freud anche dopo Dissolution.
Di tutti i punti ritrattati da Lacan nel suo tardo e severo criticismo contro Freud infatti, la seconda topica rimane indubbiamente una macchia, un resto immutato ed esente da revisioni di sorta, che non trova soddisfazione neanche nella riconciliazione di Caracas, dove Lacan si definisce comunque freudiano. Anzi, è esattamente in questa sessione che Lacan, commentando lo schema di Freud in cui si ripartiscono Io, Es e Super-Io, ribadisce che essa «non è quanto Freud abbia fatto di meglio»96. Il tentativo più drastico di andare oltre il “secondo tipo” di inconscio freudiano, poi presumibilmente ritrattato nei seminari successivi, è stato senza alcun dubbio l’une-bévue (gioco di parole tra il francese une bévue (una svista) e il tedesco Unbewusst (inconscio)) del Seminario XXIV: sottraendo all’inconscio la sua connotazione di istanza, è possibile sfuggire tanto all’idea contraddittoria delle rappresentazioni inconsce, tanto all’ipotesi vitalista dell’Es di Groddeck e, soprattutto, si può risolvere la problematica continuità dell’inconscio con la coscienza ristabilita dalla seconda topica. Quel che rimane una volta depurato l’inconscio da ogni elucubrazione è una svista, un taglio evenemenziale che, attraverso l’incursione del lapsus, del sintomo o del motto di spirito, produce una smagliatura nella falsa consistenza della coscienza. Eppure, ammonisce Lacan nella celebre Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI (1976), «basta prestarvi attenzione/i che se ne esce»97: non appena cerchiamo di afferrare questo inconscio minimo nel concetto (Begriff), subito lo sporchiamo con il senso, e finiamo per parlare di tutt’altra cosa.
Pur rivelandosi meno sovversivo dell’inconscio une-bévue, l’inconscio come malinteso conserva del primo due caratteristiche essenziali: le proprietà minimali dell’inconscio linguistico e sincronico (una specie di variante dell’inconscio-pulsazione del Seminario XI, privata però del rimando alle formazioni dell’inconscio) e le implicazioni etico-politiche di una pratica analitica orientata al reale. Quest’ultimo punto è particolarmente importante, perché si allinea perfettamente con l’andamento generale del seminario: se gli psicoanalisti non vogliono trasformarsi in accoliti della religione, essi devono assumere e sostenere questo malinteso alla stregua di un’ipotesi necessaria, ma devono anche ricordare che esso non può in alcun modo essere dissipato: che non esiste insomma nessuna interpretazione in grado di prosciugare l’inconscio. Questo carattere al tempo stesso onnipresente ma mai del tutto afferrabile del malinteso è per l’animale umano il «trauma della nascita», dice Lacan richiamandosi a Otto Rank, al punto che «non esiste altro trauma della nascita che quello di essere stati desiderati»98. Più che essere endemico, il malinteso si direbbe allora specie-specifico, in quanto si tratta di qualcosa che «viene trasmesso quando si «dona la vita», che è «già lì»99, da sempre, come una sorta di filo che lega tra loro più generazioni. La trasmissibilità intergenerazionale del malinteso ripropone e in parte risponde al quesito posto da Lacan nel Seminario XXV: perché gli analizzanti parlano inesorabilmente dei loro parenti?
Per rispondere, occorre sottolineare che per l’ultimo Lacan il linguaggio perde ogni funzione intersoggettiva, fino a diventare qualcosa di completamente estraneo alla comunicazione. I parlesseri, gli animali parlanti, sono delle monadi che non si capiscono tra loro e che passano tutto il tempo a parlarsi addosso. Se arrivano a capirsi, dice Lacan, ciò avviene per una imprevista compatibilità tra i loro fantasmi, ovvero, ancora una volta, accidentalmente, a causa di un malinteso. In quest’ottica, il malinteso verrebbe paradossalmente a porsi come ciò che crea il rapporto nel non-rapporto, una sorta di supplenza che ristabilisce una fragile e ineluttabile forma di legame tra le generazioni, e alla cui intelaiatura il primo Freud, quello alle prese con i romanzi familiari delle isteriche, avrebbe dato il nome di Edipo.
Concludendo, potremmo affermare che la formula che ci permette di inquadrare al meglio il contesto di Dissolution sia il «Je père-sévère» che troviamo a metà della Lettera di Dissoluzione, che gioca sull’omofonia tra “padre severo” [père sévère] e “persevero” [persévère], e che mi sembra possa essere letta in almeno tre modi: al passato, cioè in riferimento alla decisione incontrovertibile della dissoluzione dell’EFP; al presente, nel senso che, nonostante l’atto della dissoluzione, il seminario continua ad aver luogo (più o meno) regolarmente; e, infine, al futuro, dove la perseverazione richiama il già auspicato desiderio di Lacan di «non dormire»:
Ho ben il diritto, come Freud, di rendervi partecipi dei miei sogni che, contrariamente a quelli di Freud, non sono però ispirati dal desiderio di dormire; è invece il desiderio di risveglio che mi agita100.
1 Si veda C. Dorgeuille, La second mort de Jacques Lacan. Histoire d’une crise. Octobre 1980 – Juin 1981, Actualité Freudienne, Paris 2000.
2 Si veda J. Dӧr, Thésaurus Lacan. Volume 2: Nouvelle bibliographie des travaux de Jacques Lacan, Epel, Paris 1994.
3 Si veda P.-L. Assoun, Lacan, Que sais je, Paris 2019.
4 É. Roudinesco, Jacques Lacan. Profilo di una vita, storia di un Sistema di pensiero, tr. it. di F. Polidori, Cortina, Milano 1995, pp. 554-555.
5 Si veda C. Dorgeuille, La second mort de Jacques Lacan, cit., p. 18.
6 Si veda A. Johnston, Lacan’s Endgame: Philosophy, Science, and Religion in the Final Seminars, in Crisis & Critique, vol. 6, issue 1 (2019), p. 157.
7 J.-A. Miller, L’Uno-tutto-solo. L’orientamento lacaniano, tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2018, pp. 7-8.
8 Si veda N. Jaudel, La leggenda nera di Jacques Lacan. Élisabeth Roudinesco e il suo metodo storiografico, Rosenberg & Sellier, Torino 2019, pp. 133-146.
9 N. Francion, Le mysteres de l’École, in Aa.V.v., Almanach de la dissolution, Navarin, Paris 1986, p. 5.
10 Ibidem.
11 A. Lemosof, Dissolution, in M. Safouan (cur.), Lacaniana. Le séminaires de Jacques Lacan (1964-1979), Fayard, Paris 2005, p. 442.
12 J. Lacan, Le Séminaire. Livre XXVII. Dissolution (1980), inedito, lezione V.
13 Ibidem.
14 Ibidem.
15 M. Marini, Jacques Lacan. The French Context, tr. ing. di A. Tomiche, Rutgers, New Brunswick 1992, p. 1.
16 Ivi, p. 136.
17 Ibidem.
18 Si veda J.-C. Milner, L’Opera chiara. Lacan, la scienza, la filosofia, tr. it. di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli-Salerno 2019, pp. 13-14.
19 J. Lacan, Lettera di Dissoluzione, in Id., Altri scritti, tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2013, p. 314.
20 Id., Il seminario di Caracas, in La Psicoanalisi, n. 28, Astrolabio, Roma 2000, p. 10.
21 Si veda ibidem.
22 C. Dorgeuille, La second mort de Jacques Lacan, cit., p. 9.
23 Ivi, p. 11.
24 Ibidem.
25 Nel 1967, Lacan commenta così la scissione del 1953: «Per quanto riguarda il mio posto, bisogna risalire all’anno 1953. Per la psicoanalisi in Francia è un momento, diciamo così, di crisi»; per poi aggiungere, poco dopo, che «in questa baraonda, io mi sono ritrovato su una zattera insieme con un certo numero di persone. Diciamo che per dieci anni abbiamo vissuto con i nostri mezzi. In quelle circostanze è successo che quanto avevo da dire sulla psicoanalisi abbia assunto una certa portata» (J. Lacan, Posto, origine e fine del mio insegnamento, in Id., Il mio insegnamento e Io parlo ai muri, tr. it. di A. Di Ciaccia, Astrolabio, Roma 2014, p. 15).
26 Id., Il Seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2003, p. 5, corsivi miei.
27 Si veda A. Badiou, É. Roudinesco, Jacques Lacan, Passato Presente. Un dialogo, tr. it. di D. Napoli, Mimesis, Milano 2019, p. 31.
28 C’è un interessante aneddoto che riguarda l’uscita degli Scritti e l’alone di notorietà che si stava addensando attorno a Lacan in quel periodo: pare che in un’intervista a l’Are di qualche mese prima dell’uscita del volume, Sartre avrebbe dichiarato che ormai Lacan «non occupa[va] più una posizione centrale» nel panorama intellettuale francese, e che la sua non eccezionale fama era sulla via del tramonto. Lacan risponde dicendo che questo suo calo di popolarità non era dovuto, come pensava Sartre, al concomitante inabissamento dello strutturalismo, ma al fatto che – fino a quel momento – i suoi testi erano sparpagliati in «foglietti»… Pochi mesi dopo, la previsione di Sartre si rivelò del tutto inaccurata: il fragoroso exploit editoriale degli Scritti era secondo solo a Le parole e le cose di Michel Foucault, con Le nouvel observateur che titolava «Satisfaction au Seuil!» (si veda D. Arnaux - É. Berrebi - M. Boudet - J. Germond, Lacan 66: Rèception des Écrits, Epel, Toulouse 2006, p. 6).
29 F. Roustang, The Lacanian Delusion, tr. ing. di G. Sims, Oxford University Press, Oxford 1990, p. 6.
30 Ibidem.
31 J. Lacan, Il Seminario. Libro XVI. Da un Altro all’altro (1968-1969), tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2019, p. 400.
32 Ivi, p. 402.
33 Ivi, pp. 401, 402-403. Come ha specificato Lorenzo Chiesa, il divorzio tra Lacan e l’ENS non terminerà con il Seminario XVI, ma si prolungherà sino al mese di Novembre, attraverso una battaglia mediatica che avverrà tra le colonne di Le Monde (si veda l’ultimo paragrafo di L. Chiesa, Il castello troiano: sapere, godimento e grande Altro in Lacan e Kafka, disponibile in http://www.journal-psychoanalysis.eu/il-castello-troiano-sapere-godimento-e-grande-altro-in-lacan-e-kafkai/).
34 Si veda M. Marini, Jacques Lacan, cit., p. 137.
35 Si veda ibidem e C. Dorgeuille, La second mort de Jacques Lacan, p. 15.
36 Ivi, p. 16.
37 Ivi, p. 17.
38 Ivi, p. 413. Si veda anche F. Roustang, Un destin si funeste, Payot, Paris 2009.
39 C. Dorgeuille, La second mort de Jacques Lacan, cit., p. 18.
40 Ibidem.
41 Ivi, p. 21.
42 J.-A. Miller, Tout lacaniens!, in Almanach de la dissolution, cit., p. 36.
43 Ivi, p. 40.
44 Ivi, p. 42.
45 J. Lacan, Intorno all’esperienza della passe, in Ornicar? Bollettino Periodico del Campo freudiano, n. 4, Marsilio, Venezia 1979, p. 61.
46 Ivi, p. 63.
47 Si veda S. Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io, in Opere. Vol. 9. L’Io e l’Es e altri scritti. 1917-1923, a cura di C. Musatti, Boringhieri, Torino 2000.
48 A. Badiou, É. Roudinesco, Jacques Lacan, Passato Presente, cit., p. 101.
49 J. Lacan, Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, in Altri scritti, cit., p. 563.
50 M. Recalcati, Per una introduzione alla logica dei discorsi, in La Psicoanalisi, n. 18, Astrolabio, Roma 1995, p. 37.
51 J. Lacan, Il Seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), tr. it. a cura di A. Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2001, p. 234.
52 Ibidem.
53 J. Lacan, Lettera di Dissoluzione, cit., p. 314.
54 Ibidem.
55 Id., I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 6.
56 A. Johnston, Lacan’s Endgame, cit., p. 183.
57 J. Lacan, Intorno all’esperienza della passe, cit., p. 62.
58 Id., Dissolution, lezione IV.
59 Ivi, lezione III.
60 Ibidem.
61 M. Safouan, Jacques Lacan e la formazione degli analisti, tr. it. M. Brauer, P. Salvi, Astrolabio, Roma 1984, pp. 50-51.
62 J. Lacan, A proposito delle religioni e del reale, in La Psicoanalisi, n. 58, Astrolabio, Roma 2015, p. 9.
63 Id., Intorno all’esperienza della passe, cit., p. 65.
64 Id., I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 313.
65 Ivi, p. 314.
66 Id., Dissolution, cit., lezione V.
67 A. Lemosof, Dissolution, cit., p. 442.
68 J. Lacan, Dissolution, cit., lezione IV.
69 Ibidem.
70 Id., I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, p. 313.
71 Id., Il sintomo, in La Psicoanalisi, n. 2, Astrolabio, Roma 1987, p. 22.
72 Ibidem.
73 Id., A proposito delle religioni e del reale, cit., p. 12.
74 Ivi, p. 10.
75 Id., Dissolution, cit.., lezione V.
76 Id., Il Seminario. Libro XX. Ancora (1972-1973), Einaudi, Torino 2011, p. 20.
77 Ibidem.
78 Ivi, p. 30.
79 Ivi, p. 43.
80 Id., I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi, cit., p. 314.
81 Id., Dissolution, cit., lezione III, corsivo mio.
82 A. Johnston, Lacan’s Endgame, cit., p. 172.
83 J. Lacan, Dissolution, cit., lezione IV.
84 Ibidem.
85 J.-C. Milner, L’Opera Chiara, cit., p. 151.
86 J. Lacan, Dissolution, cit., lezione IV.
87 Ibidem.
88 Ibidem.
89 Ibidem.
90 Ivi, lezione V.
91 Ivi, lezione I.
92 Ivi, lezione V.
93 Si veda A. Lemosof, Dissolution, p. 443.
94 Ibidem.
95 Ibidem.
96 J. Lacan, Il seminario di Caracas, cit., p. 11.
97 Id., Prefazione all’edizione inglese del Seminario XI, in Altri scritti, cit., p. 563.
98 Id., Dissolution, cit., lezione V.
99 Ibidem.
100 Ibidem.