Europa: passato prossimo

Il più grande rimpianto che soffriamo per il crollo dell’Europa è che non vi sia un nuovo Tacito a registrarne l’agonia. L’elemento più patetico, in questi tempi convulsi, è rappresentato dal fatto che, nonostante le numerose prove del destino, gli europei rimangono refrattari all’unica nozione che ha fatto grande il loro “impero”: la nozione di verità. Cablati da una tecnologia leggera e pervasiva, i loro riflessi intellettuali sono ormai sintonizzati sulle epidemiche banalità giornalistiche, sulla coazione del riflesso pubblicitario, sul refrain di ideologie vecchie di secoli, sugli untuosi sdilinquimenti da soap-opera. Le loro lingue, un tempo forgiate da Virgilio e da Shakespeare, da Goethe e da Bossuet, rappresentano ormai un reticolo di ben orchestrati cliché, che impedisce al pensiero di raggiungere il suo locus naturalis, impedisce di innalzarsi. Come sapevano gli antichi, la decadenza del linguaggio è la prova inconfutabile della decadenza delle civiltà, ne è la segreta causa e il deprimente effetto. Una lingua così devastata non riesce più a volgere i suoi segni al sole della verità, attraverso quel mite esercizio di eliotropismo che rappresenta da sempre il compito della filosofia. Qual è questa verità indicibile? Come suona questo arreton obbrobrioso, che non può affiorare sul filo delle labbra? Che cosa non osano dirsi gli europei? Semplicemente, che sono finiti, che sono storicamente e destinalmente defunti. La “loro” civiltà è morta. Se gli europei, in un lampo di lucidità, fossero capaci di confessare a sé stessi questa formula liberatoria, prendendo atto di questa evidenza, saprebbero sopportare in modo meno indecente il loro tramonto.

L’equivoco che mantiene ancora in vita questo corpo ormai abitato da convulsioni e rantoli, è una convinzione grottesca, la fede più surreale in quest’ora più buia, e cioè la fede nel fatto che l’Europa e l’Unione Europea coincidano. Per gli europeisti più appassionati, l’Unione Europea non solo coincide con l’idea di Europa, ma ne costituisce il suo inveramento, la sua realizzazione più perfetta. È pur vero che a questo equivoco dobbiamo la lentezza del tramonto europeo, lentezza che consente di conservare qualche risparmio, o illudersi che non sia già tutto perduto. È venuto il tempo che anche gli europeisti più incalliti si ricredano. Tutte le contraddizioni geopolitiche che attraversano oggi il continente sono fondate su questo equivoco. Da una parte l’Europa, dall’altra l’Unione Europea. Interrogarsi su quando e come sia avvenuta questa fatale frattura non allungherà di un solo giorno l’irreversibile svolgimento della Storia.

Affermiamo per sempre, una volta per tutte, che l’Europa non esiste più. I più zelanti possono cercare l’anno del decesso (1900, 1945, 1989, 2001, 2008, 2015, 2020, 2050? Chi lo sa?), ne possono cercare le cause, ne possono esibire gli attestati, le prove. Giunti a questo punto, non ha molta importanza.

Che cos’era l’Europa? L’Europa era il destino di un luogo e il luogo di un destino. Piccola regione del mondo dalla forma bizzarra e dal contorno frastagliato, essa ha accolto la più sconcertante delle imprese umane: la filosofia. Cos’è la filosofia? È tentare di dare ragione al mondo, di giustificare e conoscere tutto ciò che appare (e che potrebbe apparire) sul teatro dell’essere: i gerani, i monosillabi, i neutrini, i continenti, le norme etiche, i numeri transfiniti e la coscienza dei numeri transfiniti, le lingue, i quartetti, le gemme, i mitocondri, i volti, i gesti, le rocce, il mare, gli dèi, le forme, i rapporti, i segreti, gli eventi, le intenzioni… È pratica “pacificata” e “pacificante”, la filosofia? Per nulla. È disputa incessante, sempiterno agòn. La filosofia – ovvero l’Europa – è il luogo della perpetua stasis tra il volto ancestrale del mythos e il riflessivo dedalo del logos, tra l’affabulazione letteraria e la cogenza del teorema, tra il supplichevole perdono cristiano e le esigenze atletiche dell’Illuminismo, tra la credenza per fama e la meticolosità della filologia, tra la fede e il sapere, tra il disperato pathos tragico e l’incontestata prepotenza della Ragione. L’Europa ha sempre oscillato tra il lago del mezzogiorno mediterraneo e le industriose pianure nordiche, tra il classico e il gotico, tra Zeus e Wotan. Indecisa tra tante sapienze e tante tradizioni, ha costruito la sua tradizione sull’abbandono di ogni tradizione. Al cuore della famiglia europea vi è il ritmico appuntamento con un parricidio.

Biblioteche, università, castelli, partiture, foreste, quadri, cattedrali, porti, strade, metropoli tecnologiche e borghi sonnolenti, vette imbiancate di nevi perenni e baie assolate dal bordo dorato. L’Europa è stata la biblioteca del mondo, l’aleph sul cui vetro convesso il globo si specchiava. Nel suo zelo di conquistatrice, ha rotto equilibri, imponendo i nomi a tutti i luoghi. Ha voluto conoscersi per conoscere, e conoscere per conoscersi. L’Europa aveva fame di totalità: voleva tutto. Conoscere tutto, sapere tutto, tradurre tutto, calcolare tutto, scoprire tutto, produrre tutto. “Meléte to pan”: “abbiate cura della totalità”. Così suonava una delle più antiche sapienze filosofiche dell’Europa. Quando c’è Europa? C’è Europa quando c’è la più disturbante delle verità: quando si preferisce scomporre l’atomo che sfamare il fratello. Edipo e Faust presiedevano ai meandri dell’anima europea. L’Europa voleva conoscere, e così facendo ha innalzato ai vertici della frenesia la passione per il sapere. Ha voluto sapere per quale motivo voleva sapere. Ha voluto sapere perché voleva sapere. Il Dio dell’Europa era un Dio che si compiaceva della sua onniscienza. Luogo nel quale le rette di Gerusalemme, Roma e Atene si incontrano, è anche il luogo dove la ragione trascina in tribunale ogni fede, e la fede trascina in tribunale ogni pretesa della ragione. L’Europa era il luogo dove si forgiava il senso del mondo.

Righe appassionate? Certo, di un europeista arrabbiato e disilluso. Esiste ancora l’Europa? Questa Europa? Certo che no. Non solo l’Europa si è suicidata molti anni fa, ma tutti ci accaniamo sul suo cadavere con uno zelo a dir poco satanico. Che cos’è l’Unione Europea, misurata con l’unico metro con il quale è possibile giudicarla – ovvero con il metro dello spirito europeo? Dispiace dirlo, ma essa è il tumore dell’Europa, la sua pestilenziale escrescenza. Perché? Perché nulla, nulla, nulla di quell’Europa è passato nei diametri dell’Unione. L’Unione Europea è il nome di un organismo tecno-politico che prospera sulle rovine dell’Europa, che trae la sua ragione d’essere dalla sparizione dell’Europa. Dispiace ammetterlo, ma l’Unione Europea rappresenta una civiltà senza senso, un dominio politico senza contenuto, un progetto politico delirante per la sua stessa inconsistenza.

È giunto il momento di comprendere un fatto, che suonerà come una ovvietà all’orecchio degli storici a venire. In questo inizio di XXI secolo, sulle terre che un tempo erano europee, è già nata una nuova civiltà. E questa nuova civiltà non ha nulla a che fare con l’Europa, ne usurpa il titolo, il destino, il luogo, la gloria. Questa nuova civiltà, per la quale non vi è ancora un nome, prospera in forza della sparizione dell’Europa. Nulla di più grottesco, fuorviante e ridicolo di chiamare “Europa” questa nuova civiltà. Questa civiltà è “male”? Per niente. È la nostra civiltà. La civiltà delle reti e delle connessioni, della straordinaria potenza tecnologica e della ricchezza computerizzata, dello scontro tra imperi e grandi spazi, della microbiologia e della radioastronomia, della sparizione del cristianesimo e dell’onnipotenza dell’informazione, del declino irreversibile dell’umanismo e del prospero avvenire delle tecnologie. Gratissimi per questi “esiti” straordinari: il nome di “contemporaneo” va propriamente a questa civiltà. Il “contemporaneo” è il verbo di questo nuovo evo geopolitico e geofilosofico. Ma è penoso pensare che questa nuova civiltà abbia a che fare con l’idea di Europa. Certo, queste istanze conoscitive sono scaturite dal progetto di conoscenza inscritto ab origine nel logos filosofico, ma prova della sparizione di Europa/Filosofia è l’impossibilità di pensare filosoficamente il senso di questa metamorfosi. Un sapere tecno-scientifico dimentico della filosofia tradisce il fatto che esso non ha più nulla a che vedere con l’Europa. Nella sua odierna potenza, il sapere tecno-scientifico sa di non aver nessun bisogno della filosofia. L’Europa e la filosofia cadono insieme.

Gli europei sono vittime di due illusioni simmetriche. Accecati dal loro zelo, gli europeisti cadono nell’errore di pensare che l’Europa esista ancora. Non riuscendo a guardare la fatale inimicizia tra Europa e Unione Europea, continuano a raccontare agli altri e a loro stessi che “più Unione Europea” significhi “più Europa”. Non vedono che la sparizione dell’Europa non solo è un fatto, ma è la condizione necessaria affinché l’Unione Europea possa prosperare. L’Europa è “cosa” del Novecento, e gli europeisti esultano per la fine di quel secolo odioso. Gli europeisti spensierati non comprendono che molti europei protestano silenziosamente contro l’Unione Europea per un di più di europeismo. Finché non capiranno questo, continueranno a portare ragioni agli anti-europeisti. Ma gli anti-europeisti cadono anch’essi nella trappola di una fatale illusione. Le forze sovraniste intellettualmente più evolute pensano di entrare in polemica con l’Unione Europea ergendosi a paladini della “vecchia” Europa, la quale poteva sì esibire qualche patente di nobiltà, ma essa è semplicemente scomparsa. Se gli europeisti convinti non si accorgono che sostenere il consolidamento dell’Unione Europea non significa affatto avere a cuore l’idea di Europa, gli anti-europeisti cadono nel simmetrico errore di pensare che, restaurando un’idea “reattiva” di Europa, si possa riorientare la vita dell’Unione. Le forze “progressiste” cadono nell’errore di pensare che, implementando la forza dell’Unione, venga rafforzata l’idea di Europa. Le forze “sovraniste” pensano, in modo illusorio, di restaurare un’idea di nazionalismo e di patriottismo vecchia di due secoli. Ma a ben guardare, pur nell’apparente opposizione, i due antagonisti rappresentano un blocco compatto di illusioni equivalenti. In un atto di accecamento suicida, entrambi gli schieramenti cadono nell’errore di pensare che esista ancora l’Europa. È questa la loro grande illusione.

Non serve uno sguardo particolarmente acuto per notare che l’Europa non esiste più, che tutti noi “europei” viviamo già oggi all’interno di uno spazio geopolitico e geofilosofico dalle caratteristiche del tutto inedite, totalmente inconfrontabili con quelle che hanno forgiato l’Europa. Il “luogo” dell’Europa è oggi occupato da forze che hanno storicamente e vittoriosamente superato l’Europa. Oggi, chi parla ancora di Europa mente: non si avvede del fatto che l’Europa, semplicemente, non c’è più.

Le analogie con il crollo dell’impero romano d’occidente si sprecano. Chiunque abbia un qualche riflesso storico nel suo cuore affaticato, sa bene che non viviamo nel XXI secolo, ma nel V. Un contagioso infiacchimento dei desideri, le ombre di un futuro minaccioso, le invasioni di popoli stranieri, le recenti pestilenze, il crollo della natalità, l’impoverimento generale, il declino del linguaggio, i sincretismi spensierati, lo sgretolarsi della fiducia nella ragione: perfette corrispondenze. È un peccato che non abbiamo il coraggio di allungare la mano e risfogliare, con la certezza di una diagnosi, le opere di Gibbon e di Ammiano Marcellino. È bene che gli europei capiscano che la battaglia di Adrianopoli è già avvenuta, ed è stata persa. È tutto perduto? Per nulla. Chi aderisce, con passione e convinzione, a quella nuova civiltà nata dalla scomparsa dell’Europa, si sentirà un compiaciuto cittadino di una nuova avventura della Storia. Il progressismo demente e il ripiegamento reazionario sono due malattie quasi incurabili, ma è proprio dell’anima forte guardarsi da queste due eterne tentazioni dell’Europa. I nuovi cittadini di questa civiltà potranno tuttalpiù sapere di essersi congedati dall’Europa, di ricordarla, di custodirla segretamente come un vuoto nel petto, come una ferita inconfessabile, come il ricordo di una casa che abbiamo abbandonato per sempre.

Per quanto possa suonare paradossale, la “salvezza” dell’Europa viene dal comprendere che l’Europa non esiste più.

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Europa: futuro anteriore presente (una risposta a Pier Alberto Porceddu Cilione)

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Ritratto della giovane in fiamme - Volgersi orfico