Il destino di una lettera

Quando quattro miliardi di persone si ritrovano improvvisamente chiuse nelle loro case, possiamo volgere la nostra attenzione alle strade vuote, alle piazze deserte, alle città immobili, alla natura che si riprende dei piccoli spazi o al sistema in cui viviamo, alla dannosità della nostra civiltà, alla piccolezza del genere umano e a tante altre cose. Ma possiamo al tempo stesso, nello spirito di Perec, rivolgerci verso i condomini, che forse mai come oggi sono pesanti, rigonfi, strabordanti di gesti, parole, pratiche: possiamo immaginare la vita rocambolesca che si apre alla luce di una finestra di fronte alla nostra o la noia che umidifica le pareti dell’appartamento sotto di noi. Il racconto che segue si rivolge solo ed esclusivamente a degli appartamenti, delle case, dei condomini e dei palazzi e non consiste in niente di più che in un tentativo di seguire le tracce di un movimento tra questi immobili: il percorso di una lettera, di una maledizione e di un destino. Nella saga degli Atridi, a cui qui si fa riferimento, vi è nelle sue molteplici declinazioni, una protagonista nascosta: la casa. I muri delle dimore regali e dei palazzi dei re in cui avvengono le vicende, già sanno, già hanno visto e fagocitano i loro inquilini in drappi e tendaggi insanguinati, parlando a chi sa, tacendo a chi non sa: «E la casa stessa, se prendesse voce, molto chiaramente parlerebbe: io, a chi sa, parlo volentieri; a chi non sa, taccio».

Si ringraziano Anna Brazzaroli

Aprì gli occhi, ad un certo punto, nella notte. Provò a richiuderli ma durò il tempo di un batter d’occhio e rimase lì ad ascoltare il rumore, qua e là, ogni tanto, sfalsato, delle tubature: in un condominio, di notte, le tubature hanno un suono metallico, sfacciato e profondo, leggermente disturbante, come è disturbante la rete di condòmini a cui ti rimandano facendoti sentire parte di un unico blocco pesante, ma con un certo particolare distacco. Il tempo di un batter d’occhio è un tempo molto strano, scandisce la vista nella frazione d’istante in cui la impedisce, con un ritmo frequente e schizofrenico. Di notte, però, il tempo di un batter d’occhio è un tempo eterno e assente: fuori tempo e fuori luogo. Oreste guardava nel buio, pensando all’inutilità che si celava dietro (sopra? sotto?) ad uno sguardo lanciato al fondo del nero, eppure non aveva alternativa: lui e il buio, che non vuole dir nient’altro che: lui, sé stesso, e un qualcosa in più. Allora per darsi l’apparenza di star facendo qualcosa, allungò il braccio sul comodino e dopo una serie di tentativi, per mezzo di quell’incredibile arte che solo un corpo possiede, ovvero la capacità di riconquistare uno spazio noto a luce spenta, riuscì a prendere una sigaretta. L’accese. In quel momento la stanza fu invasa dal rumore di combustione lanciato verso il soffitto dal primo, liberatorio sbuffo. Circa cinquanta centimetri più in là, verso destra, il verso in cui non ha mai allungato il braccio, aldilà della parete, c'è la città e circa quindici metri più in basso la strada. A pensarci è solo una questione di misure che lo separa dal mondo o se si vuole, di spaziature. Eppure, nel buio, di spazio sembra essercene sempre troppo. Le sigarette si trovavano all'interno di un pacchetto morbido, un po' stropicciato, con la carta argentata strappata in malo modo vista l'irregolarità dei bordi, di colore bianco, con al centro un bollino rosso bordato di nero in cui si poteva leggere in caratteri bianchi lucky strike. Il pacchetto non poggiava direttamente sul comodino ma a fare da tramite tra i due vi era un libro, che probabilmente aveva accompagnato Oreste nel tentativo di addormentarsi. La copertina non presentava alcuna immagine particolare, era bianca, un bianco stanco che tendeva a scurirsi intorno agli angoli delle rilegature, i bordi erano in alcuni punti sfilacciati e in altri mangiati dal tempo, qualche macchia qua e là attirava l'occhio dell'osservatore. Tutto ciò faceva pensare ad un’edizione non certo recente, ipotesi confermata dalla scritta stampata accuratamente in maiuscolo sulla copertina stessa: ATREO E TIESTE TRAGEDIA DI CREBILLION TRADUZIONE DEL CONTE GIUSEPPE URBANO PAGANI CESA VENEZIA MCCXCVI DALLA TIPOGRAFIA PEPOLIANA PRESSO ANTONIO CURTI q. GIACOMO.

Quella di Atreo e Tieste è la storia di due fratelli, di una violenza consanguinea, di una genealogia maledetta, che in rapida successione è andata più o meno così: Atreo e Tieste uccidono il fratellastro Crisippo e su di loro cade la maledizione del padre Pelope e già qui, all'inizio, che viene sempre dopo un fratricidio, abbiamo il punto di svolta che determinerà tutte le vicende successive: Atreo uccide i figli di Tieste e glieli offre come pietanze in un banchetto che doveva essere di riconciliazione ma che tanto riconciliante non fu, Tieste ha un rapporto incestuoso con la figlia Pelopia da cui nasce Egisto, il quale uccide Atreo. I figli di Atreo sono Agamennone e Menelao, sposati, il primo con Clitemestra e il secondo con Elena: tutti sanno quello che combina quest’ultima, se per sua colpa o meno è un dibattito ancora aperto, generando la guerra di Troia, che causerà non pochi problemi a Menelao, Odisseo, Enea e tutta una schiera di omuncoli catapultati dove non volevano certo essere, ad eccezione fatta del Re di Itaca; non da meno però sono le conseguenze per Agamennone che si trova costretto prima della partenza a dover sacrificare la figlia Ifigenia, azione per la quale, al suo ritorno, verrà ucciso dalla moglie Clitemestra e il suo amante Egisto (il figlio di Tieste). A conclusione di questo capolavoro famigliare troviamo proprio Oreste, figlio di Agamennone e di Clitemestra, che vendica il padre uccidendo la madre.

Atreo, Tieste, Agamennone, Oreste, tutti e quattro seduti ad un trono, quattro re che sorseggiano da una coppa traboccante del sangue di famiglia: eredi di sangue. La maledizione corre implacabile sulla scacchiera degli Atridi, la mossa di uno è necessaria all’altro per fare scacco matto, non importa se in sacrificio sarà chiesta la regina o il padre o il figlio o il fratello: la catena della maledizione non si deve fermare. Eppure, la successione non è lineare, né patrilineare né matrilineare ma, potremmo chiamarla, abissale: una successione mise en abyme, che scivola e si perde nelle inquadrature del mito. La saga degli Atridi è un grande, immenso quadro di famiglia, che raffigura altri quadri famigliari, che a loro volta raffigurano quadretti di famiglia, in cui sono incorniciate delle foto di famiglia; abbiamo qui a che fare, come sempre, con delle cornici inquadrate una dentro l’altra senza che se ne riesca a vedere la fine: le partite a scacchi sono molteplici e le scacchiere non hanno un fondo perché i quattro re non sono mai soltanto quattro, si sdoppiano, si intrecciano, si duplicano nella fratellanza e si mescolano nell’incesto. Anche la cornice più grande è a sua volta incorniciata e dunque anche la maledizione all’inizio è già un riinizio, un rilancio di una maledizione precedente: anche Pelope, che maledice i suoi figli, anche lui stesso, il primo re, è già maledetto. Prima che egli si apprestasse ad uccidere Mirtilo, l’auriga del re Enomao, questi proferì le sue ultime parole, il suo ultimo messaggio, la sua ultima lettera di licenza, che conteneva una maledizione per il suo carnefice e per tutta la sua discendenza. Mirtilo era figlio di Ermes, il messaggero degli dei, il loro postino, il facteur e questo non è un dettaglio indifferente, ma, si vedrà, è tutto il nostro discorso. La stirpe di Pelope però, e questo appunto inabissa definitivamente i quadri, non si riduce ad Atreo, Tieste e il fratellastro che essi uccidono, Crisippo, ma si compone di altri diciassette figli ed è Omero stesso a lasciarci testimonianza delle voci che corrono sul suo conto: si dice infatti che col nome di Pelope ci si riferisca al progenitore di tutti gli Achei. Il popolo maledetto. Chissà quanti ne ha colpiti la maledizione, quali strade ha percorso, su quali navi si è imbarcata, quanti re ha fatto cadere e quanti ne ha messi sul trono, ma d’altra parte chissà anche quanti non ne ha colpiti, a quanti bivi ha dovuto scegliere, su quante navi è naufragata e quanti re ha lasciato al loro potere. O colpiti e affondati o colpi fortunati, lucky strike. Seguendo il filo nel labirinto non riusciamo a trovare l’uscita, più ci muoviamo e più la trama si infittisce, il mito si sdoppia ulteriormente e, in particolare, si frantuma: Pelope venne anche egli fatto a pezzi dal padre Tantalo e offerto come cibo agli dei, i quali, resisi conto del macabro spettacolo dopo aver mangiato una spalla del ragazzo, dannarono Tantalo e ricomposero Pelope, donandogli una seconda vita e una spalla nuova. Chi fu dunque maledetto? Il primo Pelope? Quello in frantumi? O il secondo con una spalla d’acciaio? La narrazione stessa del mito presenta una pressoché infinita quantità di varianti, che si perdono nelle biblioteche del mondo e nei racconti dei pastori. Un punto solo, ancora. Si venne a sapere successivamente che al momento di essere sacrificata dal padre, Ifigenia venne sostituita con una cerva dalla dea Artemide, che la rapì e ne fece una sua sacerdotessa. Questo colpo di scena rimasto dietro le quinte può dirci soltanto una cosa: Agamennone non uccise mai sua figlia e la maledizione non toccò mai la ragazza, si interruppe, fuori copione.

Hanno sempre un certo fascino le edizioni stampate a Venezia e non sono mai riuscito a spiegarmene la ragione. Sarà che Venezia è l’intreccio di una trama scritta sull’acqua molto tempo fa. Sarà che Venezia è un testo, che si stampa ogni giorno con carta d’Oriente. Questa copia in particolare presentava un’unica annotazione del lettore: a pagina 89, sul margine superiore, attirata verso l’angolo destro, era riportata tra virgolette, con una grafia appena leggermente marcata che sfuggiva via velocemente all’inchiostro, questa frase: “il reo progetto è degno di Tieste, se non d’Atreo”. Circa quattro metri sopra il comodino, su cui erano appoggiate la tragedia di Crebillion e le sigarette, lungo la direttiva verticale su cui si dirigevano le danze del fumo, al quarto piano si apriva, verso sinistra, un piccolo corridoio piastrellato con mattonelle di pasta mista che nelle loro disomogeneità conferivano all’ambiente un’omogenea tonalità scura. Il punto di fuga della scena cadeva sulla schiena di una ragazza, nuda, con capelli corti che sfioravano le spalle lasciando intravedere un collo minuto, in perfetta sintonia col resto del corpo, splendidamente bilanciato da un sedere niente male. Con un passo spensierato e leggero, attenta a non imprimere troppo la pianta del piede sul freddo del pavimento, si dirigeva verso il bagno, da cui proveniva l’unica luce della scena, debole e calda, tenendo nella mano sinistra La lettera rubata di Edgar Allan Poe e in quella destra una lettera trovata, raccolta la sera stessa davanti al portone del condominio, prima che venisse rubata da un leggero colpo di vento. Il bagno era tipicamente anni sessanta, con un mobilio molto semplice, funzionale, da boom economico, con colori tenui che andavano dall’azzurro al bianco panna dei sanitari, del lavandino e della vasca da bagno, che nel frattempo si stava riempiendo d’acqua calda. Appoggiata la lettera su una piccola mensola che si trovava tra il lavandino e lo specchio ovale, col vetro oramai quasi totalmente appannato, si immerse facendo attenzione a non bagnare il libro e i capelli, con la superficie dell’acqua che lasciava scoperte le spalle e tagliava trasversalmente il seno e aprì il racconto al punto in cui la lettura si era interrotta la sera precedente. Sull’ultima pagina era riportata tra virgolette questa frase: “Un dessein si funeste/ S’il n’est digne d’Atrée, est digne de Thyeste”. Con tutta probabilità sarebbe arrivata a leggere questa citazione la sera stessa e con una stessa probabilità si sarebbe soffermata a pensare su di essa il tempo di una sigaretta, con un sorriso beffardo tagliato sul viso, esattamente quel sorriso che l’autore aveva previsto che dovesse imprimersi sul volto del lettore: sarà pur vero che uno scrittore scrive anche le espressioni di chi legge, ma chi le sussurra all’autore? Scrittura e lettura si intrecciano, si compenetrano, ma non sempre si sovrappongono. Forse infatti, con altrettanta probabilità, non si sarebbe soffermata sulla frase che il tempo di un secondo, senza nessun’espressione in volto, avrebbe chiuso il libro facendolo cadere sul pavimento, se ne sarebbe immediatamente dimenticata e si sarebbe immersa nel torpore dei fatti suoi: un esame da preparare, un fatto politico passato alla radio e gli occhi di un ragazzo incrociati nel metrò, che avrebbero forse fatto scivolare una mano sott’acqua, spingendo la scena su tinte leggermente erotiche. Ma poi tutto questo Oreste non lo saprà mai, è una questione di spaziature. La lettera sulla mensola, che presentava un timbro circolare color cremisi, ben marcato sul lato destro e più sfumato fino a sparire su quello sinistro, raffigurante dei calzari alati che avevano fin da subito colpito l’attenzione della ragazza, studente in lettere classiche, era già stata aperta pur sapendo che non era lei la destinataria, o forse, proprio per questo. Vi erano scritte le testuali parole: “Corri da nostra madre e dille che la fortuna mi ha assistito. Sorti così funeste non sono degne di Clitemestra né di Oreste. Firmato, Ifigenia”. Il vapore impediva di vedere oltre, avendo avvolto, ormai, tutto l’ambiente.

Rimane tuttora affascinante, credo, pensare, con Derrida, alla possibilità, sempre insita in una lettera, che essa possa non arrivare mai a destinazione. E un destino? E una maledizione?

PS: l'unica cosa che appartiene all'intervento dell'autore è questo stesso post-scriptum finale, il resto è già forse scritto da quel qualcosa in più nel buio: la finzione.

Luca Rocco

Luca Rocco ha studiato Filosofia prima a Bologna e poi a Verona, dove è nato e abita attualmente. I suoi interessi vertono sulla Filosofia teoretica, in particolare quella francese del ‘900, e sulla letteratura. Insegna Storia e filosofia al Liceo.

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