La filosofia mitica tra Nietzsche e Otto

In La presenza degli dèi (Orthotes 2019) Francesco Cattaneo apre con una scommessa. La scommessa è sulla filosofia. Filosofia non qui intesa come scienza filosofica, categoria stagna da programma accademico. L’invito è invece quello di intenderla come abito di vita, il quale non può prescindere dalla cornice culturale da cui prende le sue mosse, distanziandosi o avvicinandosi. «Ogni attività filologica – scrive Cattaneo citando Nietzsche – dev’essere racchiusa e circondata da una concezione filosofica del mondo» (p. 37). Innanzitutto, dalla frase ricordata, si può facilmente notare che chi, a mo’ d’esempio, togliesse, da una possibile interpretazione di Platone, un Fidia, un Omero, un Eschilo, non avrebbe capacità alcuna di riuscire a comprendere la totalità del messaggio lì espresso. Siamo cioè pregiudizialmente abituati a pensare la filosofia greca secondo un ottica storicistica, e cioè secondo le diverse sistemazioni scolastiche succedutesi nel tempo. Esse, però, avevano di mira l’organizzazione, la chiarezza e la possibilità che i testi venissero tramandati alle generazioni postere, non di certo la ricerca teoretica. Non solo: il nostro sguardo, lo sguardo indefesso imposto dalle istituzioni educative, dalle accademie di ogni sorta, è specialmente viziato dal susseguirsi delle scuole filosofiche. Così la grecità viene compresa -storicamente- secondo un ottica cristiana (non propria), la cristiana secondo un ottica medioevale e via dicendo.

In secondo luogo le parole riportate ci suggeriscono che, per riuscire a far parlare i greci – e, con loro, naturalmente, i due filosofi ai quali è dedicato il libro: Friedrich Nietzsche e Walter F. Otto – è necessario un connubio tra filosofia e filologia. Si avanza così l’idea, teoreticamente necessaria e felice per la ricerca, dato che ogni filosofia è un prendersi cura del logos – e, parimenti, il contrario; si fa largo, dicevamo, una filosofia filologica ed una filologia filosofica. L’autore fa altresì notare come, i due intellettuali, le quali strade s’incrociarono durante le rispettive vite, seguano, seppur partendo da questo punto comune, due cammini differenti. Se, Nietzsche, come ben si sa, impronta la sua ricerca filosofica – e la sua vita – sul problema del progresso della ragione come décadence, della cultura che essenzialmente si scopre risentimento, insegnandoci come dietro al razionale ci sia sempre l’irrazionale come suo fondamento (l’organico dall’inorganico, la logica dall’illogico, la vita dalla morte, l’essere dal nulla), Otto sceglierà invece percorsi diversi ma, sicuramente, non meno originali. Perciò, per Otto come per Nietzsche, l’unico riscatto dall’occidente e dai suoi idoli è l’atto creativo puro – determinato nondimeno in due maniere eterogenee. Per Nietzsche – il cui ritorno ai greci, mediato da Schopenhauer, è oggetto di un intero capitolo (pp. 41-63) – questa originarietà può essere raggiunta solamente facendosi uomo nella dissonanza dionisiaca. Otto, da parte sua, secondo la sua formazione come storico delle religioni e alla mercé del suo appassionato interesse all’antropologia antica, l’etnologia, i culti delle origini, conclude invece che l’atteggiamento fondamentale dell’uomo greco (ergo dell’uomo) sia quell’esperienza estatica in cui ci perdiamo nella divinità, la teofania. La forma specifica di quest’esperienza è il mito.

«Essa costituisce il “fenomeno originario”, la realtà più reale: tutto ciò che riguarda l’esistenza dell’uomo e il suo rapporto con il mondo discende dalla manifestazione della divinità, dalla rivelazione» (p. 101). Il mito infatti colma la natura di divinità. E, giustamente, viene perciò ricordato che, per un uomo greco, sia assolutamente impossibile uno studio della physis “sdivinizzata”, come invece succede nei nostri tempi. La ragione eccede sempre, per sua natura, il razionalistico e, come lo spirito di Hegel, vorrebbe appropriarsi di tutto ciò che le capita sotto le mani: così nascono concetti, idee, principi, sillogismi ecc. La scommessa riposta in questo libro vuole appunto liberarci da questo pregiudizio originario: che la ragione sia sempre la medesima. Che l’unico modo della conoscenza sia questo (logico) dar forma alla materia. La conoscenza, invece, tutt’altro che eterna e permanete, ha bisogno di un’intreccio di pratiche (artistiche, mitiche, teologiche) per essere compresa nella sua unità. Ed è per questo che la ragione dev’essere messa alla prova del mito. Lo schema storiografico succitato immagina, al contrario, che la filosofia prenda le sue mosse come superamento del mito. La risposta del mito, considerata dalla ragione filosofica insufficiente, favolistica, “letteraria”, anziché dar ragione del thauma da cui entrambi i mondo semantici originano, esso viene accusato di accrescerlo, non riuscendo a darne una giustificazione. Com’è ricordato nell’introduzione i poeti dicono mole bugie: su questo convergono sia Aristotele che Platone[1]. La filosofia, infatti, riuscirebbe a rispondere alla meraviglia attraverso il lógos, specificamente alla maniera del lógon didónai, della giustificazione. Qui viene segnato, indebitamente, come solo la storia sa fare, un salto: dal pathos della meraviglia al freddo rigore di un episteme apatica. La narrazione deve, secondo questa ricostruzione, essere dunque intesa come passaggio dalla narrazione alla ragione, dal mythos al lógos. Ma, se anche a noi convince poco, quest’artificioso superamento e questa netta separazione vengono avvertiti manchevoli dallo stesso Platone. È, infatti, reminiscenza di ognuno che si sia seduto al banco di scuola, ascoltando le prime lezioni di filosofia, che, in Platone, filosofia e mito collaborino a favore di un’unità filosofica e spirituale mai raggiunta in seguito. Quando il filosofo ateniese ha da dire ciò che il linguaggio, il concetto, la ragione non possono in ogni caso determinare -è accusata per la prima volta (e l’unica nella storia dell’occidente, fatte pochissime eccezioni) la deficienza dello strumento.

I percorsi dei due pensatori qui presi in considerazione, come ricordato, differiscono nel loro cammino e nelle loro finalità. Per entrambi il processo creativo è il fulcro attorno al quale ruota la coscienza umana; ma, se per Nietzsche essa è desostanzializzata, figurativa, simbolica, dionisiaca, per Otto, il processo creativo originario è la teofania, il manifestarsi originario da parte dell’assoluto. In questa visione Otto non vuol trattare la religione (ed in particolare modo il mito) alla stregua di una qualsiasi “attività dello spirito”, circoscritta entro certi limiti scientifici, la considera bensì come il terreno d’appoggio della civiltà umana intera, ivi compresa la ragione e la scienza. In un tal modo, in relazione soprattutto alla metafisica heideggeriana, il processo della religione è ontologicamente fondamentale.

Nella filologia-filosofia di Otto, in ogni caso, non v’è alcuna traccia di sciocchi romanticismi nostalgici. Al contrario egli attraversa e ripensa il romanticismo. Nessun reimbellettamento dell’antico, nessuna volontà estetica di ritorno all’Uno originario il quale era invece molto agognato nel primo Nietzsche. La realtà degli dei non si fa certo sedurre dalla nostalgia. La presenza degli dei è, in ogni momento, il ritorno e la riscoperta di ciò che diviene – non è –  umano. La supremazia del concetto nella sua piena funzionalità ed autocoscienza ci svia dalla potenzialità reale della quale il mondo è intriso. La rammemorazione delle origini, dunque, non vuole presentarsi come un’esercizio d’erudizione – esso si afferma invece come riscoperta del ceppo comune al quale tutti si appartiene. Una filosofia di tal fatta, anziché aver il volto ritorto all’indietro (come quello dello storico) deduce, giudica e comprende le radici della civiltà per poterle attivamente proiettare verso il futuro. In conclusione: non si è qui trattato, come viene amabilmente ricordato nell’introduzione del volume, attraverso una citazione nicciana da Il crepuscolo degli Idoli, di “ricondurre l’umanità ad una misura anteriore di virtù, dare un giro di vite all’indietro” – folle mania di preti, moralisti e romantici. “La morale è sempre stata un letto di procuste” continua la citazione “ma nessuno ha la libertà di essere gambero. Non giova a nulla: si deve andare avanti, voglio dire un passo dopo l’altro più in la nella décadence” (pg. 16). La scommessa resta aperta.

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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