Le sette remissioni

Considerazioni sui sette peccati capitali della critica secondo François Truffaut

I «sette peccati capitali della critica» elencati da François Truffaut nel 1955 sono ancora oggi graniticamente saldi? Inscalfiti nella loro pertinenza? La storia del cinema è -come ogni storia- un’incessante metamorfosi, e la critica, parassita[1] del cinema, non può eludere il fluire del tempo e le trasformazioni che esso comporta. Come il cinema, anche la critica ha assistito e assiste a una rilocazione senza soluzione di continuità. Dallo schermo della sala al tablet, dalle pagine dei Cahiers a Youtube. Rispetto ai tempi di Truffaut. è cambiato l’oggetto della critica, sia nella sua estetica che nei suoi sistemi produttivi, distributivi e fruitivi. E, insieme all’oggetto, sono cambiati i soggetti: da una parte gli autori, dall’altra i critici. Se la critica non vuole essere delirante metafisica, è necessario che si adegui al suo oggetto di studio in prima istanza riconoscendone le mutazioni, in seconda mutando essa stessa. In questa prospettiva, qualsiasi dogma è soggetto a corruzione per opera della storia stessa.

Ripercorrendo i sette punti di Truffaut, si ragionerà su quanto i difetti elencati dal regista de I quattrocento colpi siano ancora oggi elevabili al grado di “peccato capitale”. La “critica alla critica” sarà frutto del tentativo di saggiare sia l’attualità (“Quanto detto ieri è ancora oggi valido?”) sia l’atemporalità (“Quanto detto è valido oggi come lo era ieri, come lo sarà sempre?”) delle osservazioni di Truffaut. Inutile dire che, dietro ognuno dei sette punti, si cela un mondo teorico: denunciando polemicamente (e con sagace irriverenza) l’ignoranza dei critici a lui coevi nei confronti della storia e della tecnica del cinema, Truffaut implicitava la necessità di una profonda conoscenza di entrambi gli aspetti per la critica cinematografica tout court. Quella che era una “critica dei critici” era, contemporaneamente, una “teoria della critica”. Quanto segue non puù dunque che essere, contemporaneamente, una “critica alla critica dei critici” e una “critica alla teoria della critica”. E, per riflesso, una “teoria della critica” essa stessa.

I. Ignoranza della storia

1. Il critico si culla nell’ignoranza totale della storia del cinema. È facile rendersene conto grazie al remake. Se il remake è annunciato ufficialmente, il critico (per sembrare edotto) scriverà che il vecchio film è stato «ripreso inquadratura per inquadratura», cosa che non si è mai verificata. Se il remake non è annunciato, il critico non se ne accorgerà. (Esempi: Prigionieri della palude di Negulesco era il remake di L’étang tragique di Jean Renoir; La lancia che uccide di Dmytryck quello di Amaro destino di Mankiewicz). Del resto il critico, prima di scrivere il suo pezzo, consulta spesso le storie del cinema: siccome queste brulicano di errori, lui li riporta. Il mese scorso numerosi colleghi, fra cui Jean Dutourd («Carrefour») e François Nourissier (NNRF) hanno attribuito Vulcano di Dieterle a Roberto Rossellini: avevano semplicemente trovato questa informazione errata nella Storia del cinema di Georges Sadoul. Si intuisce che se il critico ricopia errori materiali, non gli ripugna neanche di spacciare per suoi dei giudizi che non valgono più della documentazione che li accompagna. Sempre Georges Sadoul («Les Lettres Françaises») attribuiva al grande operatore Robert Burks la paternità di Il delitto perfetto.[2]

Primo peccato. È chiaro che l’ignoranza non può che essere, nell’ottica di un’osservazione fondamentalmente scientifica quale è quella critica, una maculazione, un’onta. Per ripulirla bisogna conoscere, e dunque studiare. È impossibile comprendere De Palma senza conoscere Hitchcock. Ma Truffaut esemplifica l’ignoranza del critico medio ricorrendo al fenomeno del remake. La conoscenza non deve incancrenirsi nell’erudizione: conoscere per filo e per segno la genealogia dei rifacimenti cinematografici è utile ai fini della critica? Un film (nell’accezione di “lungometraggio narrativo”)  si dà in primo luogo come organismo autosufficiente: questo è l’inscanlfibile primo livello di lettura, che richiede, più che un approccio filologico e accurato, una capacità di comprensione ad ampio spettro. Prima della storia del cinema, o di qualsivoglia storia, viene il cinema. Prima dell’analisi, condotta in profondità, la semplice lettura.

Prima di essere il terzogenito di un’unica matrice creativa, o nonostante ciò, A Star is Born di Cukor (1964) è un’opera. Come ogni opera, è aperta ad un’infinità di studi genealogici. Possiamo leggerlo come il remake del precedente A Star is Born di Wellman (1937), a sua volta ispirato da What Price Hollywood? (dello stesso Cukor, 1932). Possiamo leggerlo come ennesimo stratificarsi della filmografia di Judy Garland. O come l’ennesima produzione hollywoodiana autoriflessiva: Hollywood che, ancora una volta, parla di Hollywood. Nella sua originaria autosufficienza, un film è dunque un oggetto poliedrico, che si presta a svariati approcci critici. Solo uno degli approcci possibili prevede la comparazione con il film di cui l’opera approcciata è il rifacimento.

È peraltro  necessario considerare che, oggi più che mai, un film (pur conservando un certo grado di “autonomia vitale”) è immerso nel mare della transmedialità. L’universo di Star Wars, nato come saga cinematografica, si è esteso al linguaggio del fumetto, della televisione, del videogioco, etc.  Akira (dir. K. Otomo, 1988) dialogava con l’omonimo manga senza soluzione di continuità. Oltre il primo livello di lettura si nasconde quindi non solo la storia del cinema, ma la vastità del linguaggio transmediale. Una caratteristica oggi più evidente da ieri, ma retrodatabile fino alla nascita del lungometraggio narrativo. The Birth of a Nation (dir. D. W. Griffith, 1915), come ogni film tratto da un’opera letteraria preesistente, dialogava con la sua controparte letteraria, The Klansman. Entrambe le opere sono oltretutto ugualmente incomprensibili senza una conoscenza non della storia del cinema o della letteratura, ma degli Stati Uniti. Ad un approccio intertestuale (prendere in esame i vari episodi di una saga cinematografica) bisogna dunque affiancarne uno transmediale (prendere in esame i libri da qui tale saga è tratta, o che tale saga ha ispirato). Sono stati peraltro proprio i “giovani turchi” dei Cahiers a fornici ricchi ed importanti esempio di “transmedialità applicata”. In primo luogo facendo critica del cinema e cinema, parallelamente. Facendo critica con il cinema (Godard). Realizzando libri che non sono sovrastrutture metafisiche sopra il cinema, ma che penetrano l’oggetto del loro studio, legandovisi indissolubilmente (Il cinema secondo Hitchcock, dello stesso Truffaut). La critica è necessariamente transmediale: nasce come genere letterario che è impossibile recidere dal suo oggetto di studio, il cinema. Due linguaggi differenti, teoricamente opposti, eppure in dialogo costante.

Non si può dunque rimproverare al critico cinematografico l’ignoranza della storia del cinema, non perché non sia importante conoscerla, ma perché il cinema non parla (solo) di cinema. La critica è per vocazione interdisciplinare, così come ogni film è un mondo di linguaggi, e non solo la stratificazione di una filmografia, o di una determinata tradizione cinematografica. O di una minuscola tradizione di rifacimenti.

Nell’impossibilità dell’onniscienza, la critica non può rinunciare a una certa natura “impressionistica”, pur sforzandosi di restituire non un semplice parere, ma un’osservazione interdisciplinare. Non solo nei suoi significati, ma anche nei suoi significanti, vivendo -insieme al cinema- un processo di costante rilocazione. Ogni approccio critico è uno sguardo eminentemente soggettivo, e l’ignoranza concorre a costituirne la particolarità, a delinearne i singolari contorni. 

II. Ignoranza della tecnica

2. Il critico cinematografico ignora non solo la storia della sua arte, ma anche la tecnica. Quanti critici sanno cosa sono un raccordo nello stesso asse o una panoramica veloce? Naturalmente non sono tenuti a saperne molto a riguardo, ma perché fingere di capirci qualcosa? Alcuni esempi:

Georges Charensol («Les Nouvelles littéraires») si stupiva che si proiettasse su uno schermo normale Gli uomini preferiscono le bionde che, secondo lui, era un film in cinemascope. Il mio illustre collega avrebbe dovuto sapere: a) che questo film è stato girato prima del cinemascope, b) che se fosse stato girato in cinemascope, non si potrebbe proiettare diversamente.

Il film di Hitchcock Nodo alla gola (Cocktail per un cadavere) comporta in tutto cinque inquadrature; Delitto perfetto dello stesso Hitchcock ne comporta circa quattrocento, cosa che non ha impedito a Louis Chauvet («Figaro») di scrivere: «Delitto perfetto è un’opera poliziesca filmata come Nodo alla gola, tutta d’un fiato o quasi». Ho mostrato a parecchi colleghi quest’altra recente frase i Louis Chauvet; poiché nessuno è riuscito a darle un significato, la offro alla perspicacia dei lettori: «Aggiungo che un regista desideroso di fare del cinema puro (?) avrebbe sicuramente preparato e poi sfruttato in modo più energico gli episodi angoscianti, con un’altra disposizione delle luci (?) e senza nuocere all’autenticità».

Louis Chauvet confonde forse il regista con l’elettricista?[3]

Nuovamente nel girone degli ignoranti, ma qui si parla di tecnica cinematografica e non di storia.  L’ignoranza in ambito storico e/o tecnico è accettabile, in un certo grado, come ingrediente di quello sguardo peculiare che è proprio del critico. Della sua soggettività. Si può pensare ad un analista esperto di cinema nordamericano, ma  totalmente ignaro della produzione bollywoodiana; esperto di cinema “live action” ma totalmente ignorante sulle tecniche del cinema d’animazione: queste caratteristiche concorrono alla configurazione di uno sguardo unico ed insostituibile. Il problema emerge quando ad una altrimenti sana ignoranza, in una infelice commistione, si aggiunge un certo grado di arroganza. È questo ad accomunare i critici ignoranti descritti da Truffaut. Che Charensol non conosca i dettagli del cinemascope, poco importa. Ma che Chauvet paragoni Delitto perfetto a Nodo alla gola è inaccettabile, nella misura in cui il paragone verte proprio su una componente tecnica: la maniera in cui è filmato. Paragone peraltro pressappochista, con quel «o quasi» finale, a ribadire l’impreparazione e svelare la natura traballante del discorso. Il paragone tra i film poteva vertere sul reiterarsi dei moduli narrativi hitchcockiani, sulla poetica dell’autore dei film, che li avrebbe dunque accomunati: Chauver sceglie invece un campo dello scibile sul quale di dimostra, platealmente, impreparato. Pecca dunque di arroganza, inoltrandosi nello sconosciuto e pretendendo di uscirne indenne. Perchè fingere di capirci qualcosa?

Così anche Dutourd e Nourissier, che non si scomodano a vedere Vulcano e ricorrono a Sadoul, senza verificare la veridicità delle informazioni ch’egli propugna con la sua Storia del cinema.

Ma, anche in questo caso, la conoscenza non deve trasformarsi in erudizione. Che Nodo alla gola sia composto, fattualmente, da cinque inquadrature, poco importa: viene percepito -e fruito- come un unico piano sequenza. E proprio questo era l’intento registico: Hitchcock ha nascosto i tagli di montaggio, e riconoscerli attraverso una scrupolosa osservazione è un’operazione piuttosto sterile. Oggi alle «panoramiche veloci» e ai «raccordi sull’asse» si aggiungono una serie di tecniche la cui quantità e complessità è inimmaginabile per un neofita. Se era possibile contare le inquadrature di Nodo alla gola, è impossibile anche solo pensare di poter contare le inquadrature che tecnicamente compongono Birdman (A. G. Iñárritu), o 1917 (dir. S. Mendes, 2019). In questi due esempi i tagli di montaggio non sono nascosti (unicamente) sfruttando dei momenti di “nero”, come avveniva con gli invisible cuts di Hitchcock in maniera al contempo primitiva e geniale, Qui il riconoscimento dei procedimenti tecnologici impiegati è possibile tutt’al più per chi è del mestiere. Nel cinema contemporaneo “live action” e “animazione” sono ormai un’unica chimera, e non ha più senso pensare all’inquadratura come restituzione di uno spazio-tempo fattuale. Questo non vale solo per i kolossal cartooneschi dell’MCU, ma anche per un film come The Irishman (dir. M. Scorsese, 2019).

Quello che bisogna rilevare, come critici, è la funzionalità del linguaggio impiegato. Non possiamo non comprendere, come Chauver, che ci troviamo davanti a un piano sequenza unico. Ma, riconosciuta la forma attraverso la quale il film si dispiega alla visione (dello spettatore e del critico, che è spettatore), quello che è necessario comprendere non è il procedimento tecnico attraverso il quale a quella forma si è pervenuti. La critica diverrebbe una descrizione della tecnica -distanziandosi da chi della critica fruisce perdendosi nei rivoli del tecnicismo. E, oltretutto, consentirebbe il suo stesso esercizio a quei pochissimi critici in grado di decodificare con precisione un procedimento tecnico.

Quello che è necessario comprendere è invece se la forma impiegata è funzionale. Non solo al contenuto, ma a se stessa. Il film ci appare come un organismo esteticamente coerente? Il piano sequenza di Birdman e 1917 rappresenta la forma privilegiata rispetto alle altre possibili in cui i film avrebbero potuto incarnarsi?

Bazin non enumerava le inquadrature costituenti Nodo alla gola. Ma faceva notare come il film in questione avrebbe potuto ugualmente ricorrere ad un découpage classico. Per un artista, la forma è il contenuto, e il contenuto la forma. In un’opera riuscita, la loro interconnessione e tale da non mostrare crepe, da non rivelare le proprie sapienti giunture. Da porsi non come artificio tecnico, ma come linguaggio.

Il cinema è un fenomeno transmediale. Una struttura complessa. Per costruire un lungometraggio narrativo, nella sua forma più convenzionale, non bastano elettricisti e operatori di camera, ma drammaturghi, attori, costumisti, etc. Dovrebbe dunque il critico conoscere a fondo le problematiche di ogni maestranza coinvolta prima di poter esprimere le proprie osservazioni?

Il tour del girone si conclude dunque con una rivendicazione del diritto all’Ignoranza.

Un’ignoranza che non è semplice sprovvedutezza, ma che è propria di uno sguardo che, presa coscienza dell’impossibilità di un’onniscienza (di un onni-sguardo), rivendica la sua incompletezza. La sua unicità. 

III. Immaginazione

3. Il critico si definisce per la sua totale assenza di immaginazione, altrimenti farebbe film invece di discuterli. Di qui il disprezzo che professa per l’immaginazione degli altri. Quante volte ci si accorge che ha scritto «A parte una breve scena di pesca al tonno, niente di interessante in questo film», oppure: «L’autore avrebbe dovuto rinunciare al suo intrigo a favore di un documentario sulle farfalle».[4] 

Peccare di immaginazione: apparentemente paradossale. «Il critico si definisce per la sua totale assenza di immaginazione, altrimenti farebbe film invece di discuterli. Di qui il disprezzo che professa per l’immaginazione degli altri». L’attacco di Truffaut è qui mosso all’intera categoria. La sua eziologia della figura professionale in questione è alquanto discutibile, e non tenta neanche di celare un disprezzo forse anche superiore a quello che lui attribuisce agli stessi critici. Il critico è qui descritto come il classico “cineasta fallito”.

Ancora una volta, sono gli stessi “giovani turchi” a smentire il preconcetto. Godard e Truffaut (giusto per citare i più iconici) hanno iniziato con la critica. Godard ha descritto il suo passaggio alla regia come un processo naturale e indolore, uno shift linguistico. Bisogna pensare alla critica come ad un’arte. Un’arte metatestuale, parassitaria (ancora una volta, il termine non è caricato negativamente), ma un’arte. Perchè crea osservando, fa di un unico significante una sorgente di  molteplici significati. E, fintantoché l’osservazione viene esercitata, tale sorgente è inesauribile. Lo spirito critico è uno spirito creativo, e non si può certo peccare di immaginazione per vedere in un film ciò che poteva essere oltre a ciò che definitivamente è.

Solo il capolavoro non ammette opzioni alternative: si staglia davanti allo spettatore come unica fioritura possibile della matrice da cui ha attinto le sua linfa vitale. È tautologico, non chiede che di essere letto. Un’opera imperfetta è al contrario tanto più vitale quanto più istiga a valutare percorsi alternativi a quelli già tracciati. Oppure a percorrere quelli alla cui esistenza si è solo accennato. Il potenziale dell’opera, ancora latente, è incanalato verso nuovi orizzonti proprio da una critica creativa.

Ancora una volta, la durezza di Truffaut nei confronti degli “illustri colleghi” è giustificata da una malsana componente di arroganza nelle loro dichiarazioni, da quell’elemento corruttore che trasforma la creatività in giudizio prevaricatore e assertivo. Qui l’arroganza diviene vera e propria tracotanza, hybris. Ma come il critico non deve permettersi di proclami apodittici, l’artista non deve (e non può, anche qualora lo volesse) fare della sua opera un oggetto in sé conchiuso, ma un organismo pronto ad accogliere ogni parassita che rinnovi il processo creativo, che lo rilanci verso direzioni impreviste. Un’opera aperta, nucleo corrusco di cui il critico alimenta la fiamma. 

IV. Sciovinismo 

Non si «fa» una carriera di critico senza incontrare prima o poi Delannoy, Decoin, Cayatte o Le Chanois, mente Mankiewicz, Hitchcock, Preminger o Hawks sono a migliaia di chilometri. Ne consegue una sorta di sciovinismo più o meno consapevole.

André Lang («France Soir»), come critico non è il migliore, è in compenso e di gran lunga il più «patriottico»; leggendo regolarmente, ci si accorge che niente di ciò che è francese gli è indifferente.[5]

Sullo sciovinismo di certa critica non c’è nulla da aggiungere. Oggi, forse ancora più di ieri, bisogna guardare al cinema tout court, senza smarrirsi nelle filmografie nazionali coltivando un feticismo che, invece di arricchire lo sguardo di una qualche peculiarità, ne inibisce le zone d’indagine, ne restringe il campo visivo.

Lo sciovinismo à la Lang è tanto più malsano nella misura in cui deriva non da un “sentire” come più calde e familiari le produzioni francesi, ma dall’effettiva vicinanza agli autori di tali produzioni. Dall’impossibilità di imbattersi in Hawks e Hitchcock.

V. Insolenza, saccenza / Dissidio politico 

5. Il critico è insolente e saccente. Roger Régent, dopo aver visto Rififii, voleva consigliare a Dassin di tagliare un quarto d’ora della rapina scientifica. E cosa resterebbe di La carrozza d’oro se ognuno di questi signori avesse potuto tagliare questa o quella scena che lo disturbava, o quell’inquadratura che gli sembrava noiosa?

[…]

La critica funziona secondo la «legge dell’alternanza»; secondo Giraudoux: «Non ci sono opere, ci sono solo autori»; per il critico cinematografico è esattamente il contrario: non ci sono autori, e i film sono come la maionese, o riesce o non riesce. È qui che interviene la legge dell’alternanza.

Alla critica piace sistematicamente un film di Jean Renoir su due.[6]

(Prendiamo qui in esame la seconda parte del paragrafo, quella riferita alla «legge dell’alternanza». Per quanto riguarda il critico «insolente e saccente», e alla creatività intrinseca all’atto critico, si rinvia il lettore alle riflessioni sull’arroganza dei paragrafi precedenti, in particolare al paragrafo III)

Questo è un peccato particolare. Vale a dire che non è di natura morale, bensì politica. La citazione di Giraudoux e il riferimento a Renoir non possono che evocare la famigerata “Politique des Auteurs”[7]: il “peccato capitale” consiste qui in un vero e proprio dissidio politico. È per Truffaut inaccettabile che alla critica piaccia «un film di Jean Renoir su due». Quella degli “Auteurs” non è una politica solo per modo di dire. Si tratta di un vero e proprio dogmatismo. Attraverso la “Politique” la critica si irrigidisce, diviene ideologica. Il film di un “Auteur” (quale è Renoir) è aprioristicamente collocato nell’Olimpo del cinema, poiché va ad inscriversi nella meravigliosa costellazione della sua filmografia.

Un dogmatismo -come qualsiasi dogmatismo- del genere nega la possibilità di un’osservazione creativa quale si è cercato di dimostrare essere quella critica. Andrebbe rigettato sia vedendo il film oggetto della critica come  oggetto autonomo sia come subordinato ed inglobato in una rete complessiva.

Si prenda il film ponendolo come singolarità. Un film-organismo, con la sua autonomia vitale, è sottoponibile alla «legge dell’alternanza» proprio nella misura in cui appare completo in sé e per sé, senza bisogno di essere ricondotto ad una specifica tradizione filmografica (quale è la produzione di un Auteur). A Star is Born di Cukor non necessita, per essere compreso, apprezzato o dispregiato, della conoscenza dell’operato pregresso del regista (pur ammettendo che tale conoscenza arricchisce l’osservazione critica fornendogli dei preliminari punti di riferimento).

Se invece il film è considerato come epifenomeno, la cui inscrizione in una rete di fenomeni più complessa è preventivamente necessaria perché l’osservazione critica abbia luogo, non bisogna dimenticare che un film è un prisma poliedrico inscrivibile in una vasta gamma di reti metatestuali e/o transmediali (questo quanto si è tentato di rilevare nel paragrafo I). La filmografia di un particolare “Auteur” è solo una delle reti possibili. A Star is Born è indubbiamente leggibile come una delle opere di Cukor (ammettendo che in George Cukor sia riconoscibile un “Auteur”) . Ma è altresì leggibile come uno dei tasselli della carriera di Judy Garland: un tipo di approccio che porterebbe l’analista ad affacciarsi sul mondo della transmedialità, avendo la Garland “prodotto” anche in ambito televisivo. Le reti possibili sono idealmente infinite. L’inscrizione di un film nella rete di una filmografia autoriale è dunque solo uno degli approcci strutturali possibili. Ed autori come Hawks, così variegati nel loro operato registico, farebbero di tale approccio un qualcosa di metafisico e arbitrario nel suo tentativo si sussumere Bringing up baby (1938) e Land of the Pharaohs (1955) sotto un unico ed identico principio catalogante. Per di più viziato dalla tendenziosità di uno sguardo che vuole farsi “politico”, ma che si irrigidisce nel “partitico”.

Scevra dal dogmatismo, l’inscrizione di un film nella linea di continuità dell’opus autoriale è ovviamente legittima. È indubbio che i lungometraggi di Alfred Hitchcock, pur nella loro autonomia, concorrano a configurare un medesimo corpus, coerente ed armonico. Ma questo non è l’unico approccio possibile.

VI. Superficialità

6. Il critico, che ignora la storia del cinema e la sua tecnica, che non sa nulla sulla costruzione di una sceneggiatura, può giudicare soltanto sulle apparenze, segni esteriori dei desideri del regista.

I critici giudicano i film dalle «intenzioni» dei loro autori. La loro ignoranza della storia e della tecnica cinematografica, come anche delle condizioni di scrittura del film e della loro esecuzione, fa sì che essi (i critici) siano incapaci di risalire alle intenzioni, a meno che queste non siano evidenti, annunciate sul cartellone, all’ingresso della sala cinematografica. Incompetenza e pregiudizio formano una bella coppia. Si tratta quindi di giudicare sulle intenzioni di film di cui non si riesce a ritrovare le intenzioni![8]

La critica (e lo spesso conseguente giudizio) alle intenzioni denota una superficialità che vorrebbe farsi profondità. Postulate quelle che si suppongono essere le intenzioni autoriali, si valuta il film non per ciò che comunica o esprime, ma per ciò che (si suppone) avrebbe dovuto comunicare od esprimere. La durezza di Truffaut è più che legittima.

Una volta compiuta, nel momento a cui si dà al mondo, l’opera estromette l’autore. Lo rende uno spettro accessorio. È il testo a rimanere, epurato dalle scorie intenzionali. Un film non è la forma vicariale di un significato che gli preesiste, ma un significante che diviene sorgente di significati.

Ma proprio perché non ci si trova in presenza di un vicario, ma di un organismo autonomo che ha ormai reciso il suo legame con la matrice intenzionale, la critica è attuabile proprio nell’ignoranza di quelle che, fattualmente, erano le intenzioni dietro al film. Che non vanno supposte retroattivamente, ma trascurate, poiché è l’opera cinematografica stessa ad obliterarle.

VII. Impotenza, conformismo

7. Il cinema -come del resto tutte le arti- diventa troppo complicato per dei cervelli che hanno dato il meglio di sé nel 1925.

Non ci sarebbe da stupirsi se assistessimo tra poco alla fine della critica

[…]

In realtà, quando il critico cinematografico esce da un cinema, non sa cosa pensare di ciò che ha appena visto; elemosina un parere dai colleghi: il primo che parla ha ragione, quello che sa trovare una bella «formula» trionfa.[9]

Quello descritto da Truffaut in chiusura è uno scenario apocalittico. Non perché profetizza una fantomatica «fine della critica». Ma perché né descrive la totale decadenza. Il conformismo assoluto nasce in seno all’impotenza. L’impotenza intellettuale, il venir meno della capacità di intelligere.

Nelle fasi finali della loro carriera, i «cervelli che hanno dato il meglio di sé nel 1925» mettono a nudo tutta la loro inadeguatezza a ricoprire un ruolo creativo quale è quello del critico. Dalla loro incompetenza traspare tutta la loro insincerità. Un film non va capito a tutti i costi. Va esperito, esteticamente ancor prima che criticamente. O, quantomeno, se l’intellezione critica sopprime l’esperienza estetica, lo iato tra il critico e lo spettatore tout court assume i caratteri di una ferita insanabile. Esperienza (estetica) e interpretazione (critica) proseguono parallelamente.

Ma può anche accadere -legittimamente- che l’atto interpretativo non giunga a compimento. Che, nel flusso luminoso della rappresentazione, qualcosa sfugga, che si venga travolti. Se si è poc’anzi rivendicato il diritto all’ignoranza, qui si rivendica il diritto all’imbecillità, alla non-lettura. Se non si capisce, non bisogna fingere di aver capito -rifugiandosi vigliaccamente nel più becero dei conformismi: fingere di aver pensato. I «colleghi» di cui Truffaut ci restituisce la testimonianza sfornano un parere prefabbricato, funzionale e fungibile dalla mente altrui. Non un pensiero, ma una «bella “formula”», un’etichetta adesiva da applicare non solo sul film, ma sulla propria testa e su chi della critica è fruitore. Un bollino certificante, che garantisce il Q.I. minimo a chi scrive e a chi legge. Per sfuggire al giogo dell’industria culturale è necessario di tanto in tanto ammettere la propria imbecillità, il fatto di non aver compreso. Salvo svalutare l’osservazione critica in prodotto, insieme all’opera che si costringe nel cappio della classificazione nonostante tutto.

Conclusione

Si è cercato di restituire all’opera cinematografica la sua complessità, e la sua ontologica apertura a  infiniti sistemi strutturali. Il film si lega a quanto lo circonda da sinapsi non unicamente intertestuali, ma transmediali. Suturare la potenzialità di un oggetto del genere significa castrare sia ciò che si osserva sia chi lo osserva. Significa indossare dei paraocchi, cadere nel dogmatismo. Consapevoli della complessità, non ci si deve sentire oppressi da un macigno la cui grandezza è improponibile, ma anzi esaltare la particolarità del proprio sguardo (il cui campo visivo è delimitato dall’ignoranza), senza la pretesa di comprendere sempre e comunque (di qui la rivendicazione dell’imbecillità), ma esperendo il linguaggio cinematografico nella sua ricchezza, a volte abbacinante.

La hybris consiste proprio nel propugnare come definitivo quello che è uno sguardo parziale. Nello spiegare ad ogni costo, nel reificare il pensiero facendone un prodotto, frutto sempre acerbo dell’industrializzazione culturale.

La durezza di Truffaut nei confronti dei suoi colleghi è figlia di un periodo storico in cui si poteva ancora pensare di abbracciare la storia del cinema nella sua totalità. Di conoscerne le tecniche. Oggi che il cinema è continuamente rilocato, come le scienze che tentano di studiarlo, tutto è più sfuggente. Non nella sua evanescenza, ma in una presenza massiccia e inquantificabile, oltreché non catalogabile in un linguaggio unico. Cambiano le modalità produttive, distributive e fruitive. Ci si chiede nuovamente, come faceva Bazin, cosa sia il cinema.

Oggi più che mai va combattuta l’arroganza, ma va al contempo riconosciuta l’impossibilità di uno sguardo soggettivo, consapevole delle sue mancanze, ma anche della sua singolarità. Che è ricchezza.

[1]Il termine “parassita” non vuole in nessun modo connotare negativamente la critica, o dispregiarla, ma solo denotarne la natura sovrastrutturale: la critica cinematografica è impensabile senza il cinema.

[2]F. Truffaut, Les sept pechés capitaux de la critique, «Arts», n.523, 1955

[3]Ivi.

[4]Ivi.

[5]Ivi.

[6]Ivi.

[7]Enunciata programmaticamente dallo stesso Truffaut in Ali Baba et la “Politique des Auteurs” («Cahiers du cinéma», n. 44,‎ 1955)

[8]F. Truffaut, Les sept pechés capitaux de la critique

[9]Ivi.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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