Mank, di David Fincher – L’ombra di Welles

La Hollywood degli anni ’30 è rivalutata attraverso gli occhi del graffiante critico sociale e sceneggiatore alcolista Herman J. Mankiewicz , mentre si affanna a finire il copione di Quarto potere per Orson Welles.

Mank, diretto da David Fincher, Stati Uniti, 2020, 131’

Welles

Un panegirico in cui il soggetto celebrato si implicita, si accenna con parsimonia, timore reverenziale. Mank è, sostanzialmente, questo. Mettendo in scena la sceneggiatura del padre Jack, David Fincher realizza un film essenzialmente mancante, romantico nel suo alludere a qualcosa di incommensurabile e, dunque, irrappresentabile. A raggiungere tale smisurata grandezza non è nient’altro che Quarto potere (Citizen Kane, 1941) e con esso, transitivamente, l’uomo a cui di tale mastodontica opera si attribuisce per convenzione la paternità assoluta: Orson Welles. Figura mitologica ancor prima che storica, Welles sfugge, continuamente. Non solo a Herman “Mank” Mankiewicz (Gary Oldman), ma allo stesso Mank di Fincher, ossia a quell’opera che del suo primo, fondamentale capolavoro si propone di descrivere la genesi. Welles pare essere ammantato da quella stessa nebbia, fiabesca e impenetrabile, che fungeva da ermetico involucro alla morte di Charles Foster Kane (ovvero Welles, ovvero -trasfigurato da strati finzionali dall’esiguo spessore- William Randolph Hearst) nel prologo del suo primo lungometraggio. Mentre Mankiewicz, convalescente, infonde la sceneggiatura di Quarto potere di quelli che saranno i suoi ultimi e grandi ansiti creativi, Orson (Tom Burke) sembra essere occupato a inesistere. Le sporadiche teofanie telefoniche sono gli unici, insufficienti indizi della sua effettiva sussistenza nel mondo fisico. Dice di essere impegnato. Nello specifico, a pre-produrre quel leggendario adattamento cinematografico di Cuore di Tenebra che non vedrà mai la luce. Un fantasma, atto ad imbastire il nulla. Appare di spalle, poi di scorcio, obnubilato dalle luci di un camerino situato chissà dove.

In un’altra occorrenza, si presenta ad un Mank infortunato e, verosimilmente, imbottito di farmaci. Forse proviene dal futuro, dal momento che indossa gli iconici abiti del falsario di F come Falso (Vérités et mensonges, dir. O. Welles, 1973), film ancora lungi -rispetto al tempo storico in cui Mank è collocato- dall’essere concepito. Quel cappello e quel mantello sono vesti tutt’altro che inerti: la loro carica semantica costringe a mettere in dubbio non tanto (o non solo) quelle poche parole che Welles emette, quanto la loro stessa emissione, il fatto che qualcuno effettivamente le pronunci. Da un lato, perché quegli abiti denotano menzogna, richiamando alla memoria il mondo epurato dal concetto di verità di F come falso; dall’altro, proprio nella misura in cui intessono una strettissima connessione con tale opera, perché fanno della figura che li indossa un oggetto meta-testuale, che mette in dubbio la natura del biopic di Fincher. L’eloquio di Welles è un rimbombo allucinatorio probabilmente frutto della momentanea demenza di Mank più che l’immagine di una sua minimamente veridica percezione. Demenza, però, oracolare.

L’assenza di Welles pone lo spettatore in uno stato di febbricitante attesa, di spasmodica impazienza. Le sue sporadiche apparizioni hanno il carattere di un’epifania. Accadeva lo stesso con il Gregory Arkadin (Orson Welles) di Rapporto confidenziale (Mr. Arkadin, dir. O. Welles, 1955). Nei primi minuti del film, di lui si sentiva parlare così tanto da metterne in dubbio l’esistenza. La differenza è che in questo caso lo sproloquio precede il film, ne costituisce il terreno mitologico fondante, che si dà quindi per scontato. Di Welles si parla poco, perché si è già parlato, infinitamente, troppo.

Quando finalmente Mank e Orson si fronteggiano in quel definitivo incontro-scontro che occupa le battute finali del film, le azioni dell’enfant prodige sono per Mank oggetto di contemplazione estetica e frutto di ispirazione più che di una mondana percezione. Sono come svuotate, castrate rispetto ad un’attesa prolungata che rimarrà, pertanto, definitivamente insoddisfatta. Eludono la stretta fisicità, volgendosi altrove: divengono fonte rigogliosa di nuovo materiale letterario per Mankiewicz. L’empito rabbioso del regista non ha nulla di spaventoso: è un oggetto interessantissimo, suscettibile di trasfigurazione artistica. Lo sceneggiatore ne subodora istantaneamente il potenziale. Quando Welles scaraventa la sua cassa di narcotici contro la parete, distruggendola in un colpo solo, egli non si scompone. Al contrario, prende appunti:

«That’s what we need when Susan [Alexander Kane (Dorothy Comingore)] leaves Kane. An act of purging violence.»

L’ira di Welles sarà (e per noi spettatori, già è) quella di Kane. In quel gesto, bestiale, si compie un cortocircuito semiotico. Fincher dirige il movimento di Tom Burke memore dell’interpretazione e della regia di Welles in Quarto potere, pur situando il suo Mank in un tempo antecedente la sua effettiva realizzazione. Compie un furto dal futuro, come già accaduto per i costumi di F come Falso. Quello del Welles fincheriano è un corpo, oltre che polisemico nella sua meta-testualità, meta-storico. Ecco che il biopic, con un’operazione sottile e devastante a un tempo, viene epurato totalmente di qualsivoglia attendibilità storica. Non perché la storia venga drammaturgicamente rimodellata, quanto perché i corpi dei suoi protagonisti si mostrano, sottocute, memori dei suoi sviluppi futuri. Il Mankievicz di Gary Oldman vede nell’Orson Welles di Tom Burke l’Orson Welles che sarà: si appropria dei suoi gesti e della sua rabbia, così da iniettarli in Kane, il doppio di Hearst che sarà Welles stesso a interpretare. Azione che, suggestivamente, suggerisce una compresenza tanto di Hearst quanto di Welles nel personaggio costruito da Mank, ossia Charles Foster Kane. Il W. R. Hearst di Mank (Charles Dance), estremamente controllato e paziente, d’altronde, mai arriverà a fornire all’immaginazione traduttrice di Mankievicz gesti di tale violenza, costringendolo a cercare altrove.

Se Fincher relega Welles fuori campo è certo per correggere l’obliterazione perpetrata ai danni di Herman J. Mankiewicz: dedicandosi esclusivamente alla sua figura ne riconosce, finalmente, la centralità nell’edificazione di quel magnifico labirinto che è Quarto potere. Ma l’esclusione di Welles è necessaria anche per la sua ingestibile complessità semantica. In lui si annidano miti, leggende, personaggi, vicissitudini e aneddoti inenarrabili in maniera esaustiva. La sua potenza farebbe tabula rasa di qualsiasi altro elemento narrativo, ogni personaggio verrebbe ridotto a mero figurante. Bisogna impiegarlo con parsimonia, non nominarlo invano. La sua abissalità viene suggerita, depotenziata quanto basta per essere fruibile. Come lo stesso Mank afferma: «You cannot capture a man’s entire life in two hours. All you can hope is to leave the impression of one». Questo vale tanto per Kane, che per Welles.

Ombra, convalescenza

Dell’ombra di Welles/Kane è però, nonostante il tentativo di diradamento attuato, impossibile disfarsi. Essa connota ogni cosa, senza lasciare scampo. La potenzialità irrisolta dell’ombra assume un valore semiologico superiore a quello di un’eventuale rappresentazione chiarificatrice, che formalizzerebbe esteticamente ciò che rimane invece illimitato, libero e sfuggente da ogni costrizione. Welles, nel buio dell’assenza, preserva intatti i suoi misteri più fecondi. Così per Quarto potere, che trova rifugio in un futuro ancora da avverarsi. Il film viene nominato solo trasversalmente, per accidente. Sulle pagine dello script di Mank figura il titolo prototipico di «American».

Ma questo non basta ad esautorare in maniera risolutiva gli assenti.

Per interpretare Mankievicz, Fincher sceglie Gary Oldman. Attore in cui la predisposizione al trasformismo è -come per interpreti quali Christian Bale o Jared Leto- centrale: Sid Vicious in Sid & Nancy (dir. A. Cox, 1985); Dracula in Dracula di Bram Stoker (Bram Stoker's Dracula, dir. F. F. Coppola, 1992); Sirius Black nella saga cinematografica di Harry Potter; il commissario Gordon nella trilogia del cavaliere oscuro di Christopher Nolan; Winsont Churchil ne L’ora più buia (Darkest Hour, dir. J. Wright, 2017). Quello di Oldman è un corpo divistico la cui particolarità consiste nella sua apertura, in quella disponibilità alla contaminazione e al continuo rimodellamento di sé. Incurante di preservare una singolarità conformazionale che -al contrario- sfugge, cedendo la sua posizione egemonica in favore della pura capacità interpretativa. Un corpo evanescente, plasmabile. In Mank il rimodellamento corporale cui Oldman è sottoposto consiste in un abbruttimento martoriante, e nella castrazione delle possibilità di movimento dell’attore. Mank è un alcolista, degradato dalla sua dipendenza, costretto a letto. Dimostra più anni di quelli che ha, ogni suo gesto annuncia l’imminenza del trapasso.

Come quello di Oldman, anche il corpo attoriale di Welles è un terreno di continue sovrascritture e mascheramenti. Abbiamo già citato Arkadin e il falsario. Ricordiamo ancora, per ampliare l’esemplificazione, il Falstaff protagonista dell’omonimo film (Falstaff, or. Campanadas a medianoche, dir. O. Welles, 1965). Con il Mank di Oldman il Kane di Welles condivide però qualcosa di ulteriore rispetto al mero mascheramento: la propensione all’auto-martoriamento corporale, all’invecchiamento, alla degradazione masochistica.

La scarnificazione non è però pura violenza autoriflessiva, nella misura in cui introduce una dimensione meta-corporale, sacrificale. Della carne viene sottolineata l’evanescenza, l’insufficienza in quanto mero supporto significante.

Sia Mank che Quarto potere si aprono mostrando i loro protagonisti esangui, e, quel che è più interessante, esiliati. Mankievicz è confinato nel ranch di Victorville; Kane nella sua gargantuesca e barocca Xanadu. Il mondo è posto in un altrove inenarrabile: il suo racconto può essere unicamente frutto di reminiscenza, mai di esperienza diretta. Scaturigine di quell’irrisolvibile labirinto in cui Quarto potere si configura non è che una parola, un ricordo infantile sussurrato durante lo stato ipnagogico definitivo, quando la carne viene meno una volta per tutte, nel momento del trapasso:

«Rosebud...»

Quell’attimo di pura oralità, rimasto irrisolto (tanto nei fatti narrati dal film, quanto nell’esegesi che il film ha succeduto), si rivela un momento di assoluta potenza mitopoietica. Più che racchiudere un mondo, sintetizzandolo icasticamente, lo partorisce, ne suggerisce l’insolubile mistero.

In questo, più che in ogni altra cosa, Kane e Mank si assomigliano. Sono esseri bidimensionali, in esilio da un mondo che tentano invano di correggere con l’attività artistica, la quale coincide con uno stato di baudelairiana convalescenza. Kane, incapace di modellare l’esistente a sua immagine e somiglianza, ne forgia uno tutto suo, ex novo, in cui rinchiudersi ermeticamente delirando un tempo irrecuperabile: tale è Xanadu. Mank è invece costretto all’esilio a Victorville, ma è proprio tale condizione, più o meno coatta, a istigarlo a creare, per l’ultima volta, qualcosa di grande. Un’opera che tenti di modificare il mondo circostante, di scalzare William Randolph Hearst dalla sua posizione di intoccabilità. Tutto il contrario di quanto propugnato da un Louis B. Mayer (Arliss Howard) che declama fermamente «Ars gratia artis».

Il martirio della carne conduce ad uno spazio ulteriore, metafisico, quello della creazione artistica. Il biascichio esiziale di Kane è, indiscutibilmente, un puro atto creativo. Aprendoci a problematiche infinite, potremmo dunque suggerire l’ipotesi per cui è Hearst stesso a essere un artista. La sua materia prima, come per Kane, è il mondo stesso, che viene riconfigurato mediaticamente a proprio favore. Il limite tra mondo reale, finzionale e finzionalizzato è totalmente ambiguo.

Con Mank Fincher amplia la costruzione labirintica di Quarto potere, mostrando il momento in cui le sue fondamenta sono venute edificandosi, su un terreno che non è mai, semplicisticamente, storia. Ma che si nutre del futuro, presagendolo, modificandone il possibile corso.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

Indietro
Indietro

Cold Meridian, di Peter Strickland

Avanti
Avanti

"Comme si". Interview with Olivier de Sagazan