Physis, téchne, ars

Che cos’è arte (téchne)? Innanzitutto ciò che non è natura (physis). Sembra così limpido, così evidente. E invece, forse, le cose non stanno proprio così. La formatività assoluta. Per una fisica dell’arte (P.A. Porceddu Cilione per Orthotes, 2018) ci mostra un’altra via del Pensiero. Un cammino sicuramente problematico, ma per ciò stesso affascinante e decisivo. Questo percorso filosofico situa nel produrre, nell’emergere, nel formarsi, il punto d’incontro tra la creazione umana e quella naturale. La tesi è chiara: esiste uno spazio, la formatività assoluta, che riesce a tenere insieme la tensione tra arte e natura. Uno spazio comune, uno spazio dove entrambe le essenze trovano la loro esplicazione prima e ultima. Per capire la physis e la téchne abbiamo bisogno di capire l’ars.

Cerchiamo di ripercorrere il percorso brevemente, consci dell’ampiezza della questione e dei nostri limiti di spazio effettivo.

Innanzitutto bisogna definire il campo di gioco, bisogna definire di cosa stiamo parlando. Che cos’è la natura? Che cos’è l’arte?

Le due essenze, nella lettura aristotelica, si con-costituiscono in aperto dissidio. L’arte è il movimento di trasgressione dell’uomo rispetto alla dimensione originaria della natura. Entrambe però condividono due aspetti fondamentali che le definiscono: il movimento (il processo di formazione) e la forma. Seguendo l’aristotelico esempio, Porceddu Cilione ci fa notare quanta pochezza mostri una fisica della materia, costretta a cedere alla domanda: Qual è la differenza tra una legno e un letto fatto con quel legno? La fisica si costituisce dunque come una teoria dello sviluppo cinetico.

Lo Stagirita traccia allora la distinzione “classica” con cui abbiamo aperto: gli enti possono essere distinti in physei onta e poiumena. I primi posseggono in sé il loro principio generativo, il loro principio processuale, i secondi lo hanno in altro. I primi sono frutto di “necessità” interna, i secondi fanno capo alla tecnica, all’artificio (sono arte-facti). I poiumena sono risultati “esterni” rispetto al loro principio generativo. È importante sottolineare che è solo a partire dall’aspetto che noi inscriviamo un tal oggetto in una o l’altra categoria, ma non c’è nessuna motivazione di diritto che possa consentire la ricostruzione del principio generativo a partire proprio dall’aspetto. Affronteremo poi la questione più nel dettaglio, per ora basti sapere che è la fisica il luogo in cui le sorti della differenza tra arte e natura si decideranno. Proprio parlando di “arte” (forse intendendo già ars) Porceddu Cilione scrive: «L’“arte”, così intesa [come domanda rispetto al pro-durre], deve essere pensata non già nel piccolo contesto di una teoria estetica, ma nel più vasto diametro di una teoria della natura, rispetto alla quale misurare il grado di “artificialità” che l’“arte”, così intesa, elabora» (p.18).

Dopo il primo capitolo dedicato alla questione delle essenze, l’oggetto della ricerca si manifesta nella più totale evidenza: si tratta di capire che alla radice della formazione di tutti gli enti esiste un movimento di produzione, di poiesis (di venuta alla presenza), il quale è essenzialmente lo stesso per i physei onta e i poiumena, per le magnolie e per i vasi di terracotta. L’ente prodotto manu hominis condividerebbe questa dimensione di installazione con l’ente naturale, ne condividerebbe non il principio causale ma il cammino di modellamento. Per esprimere questa essenza, Porceddu Cilione richiama un terzo termine tra i mondi della physis e della téchne: ars. È l’ars, traduzione latina del termine greco téchne, che si costituirebbe come il possibile e auspicabile termine medio tra physis e téchne. Nel termine latino si custodirebbe infatti quella dimensione di artificiosità naturale, di creazione gratuita, che permetterebbe di pensare il transito tra un’opera naturale e un’opera umana.

E in effetti è proprio di luoghi di transito (e contraddizione) che si occupa il secondo capitolo. Lucide analisi si succedono prendendo a tema prima la letteratura poi l’arte. La grotta di approdo di Odisseo, ancora ignaro di essere in terra materna, diventa il pretesto per cercare di affrontare (e affondare) la distinzione tra i physei onta e i poiumena. Oggetti come vasi di pietra levigati che rifiutano la possibilità di essere ascritti ad un demiurgo umano impongono l’irrisolvibile quesito: sono essi frutto delle onde del mare operanti in secoli e secoli o del vasaio cretese che le abbozzò? E di più, se sono il risultato di movimenti marini, cosa sono? È chiaro che per capire l’origine di un prodotto dobbiamo usarne la forma, l’aspetto, l’eidos, ma esso non ci informa con certezza circa la sua arché kineseos, non ci informa riguardo «l’origine e il codice del suo sviluppo metamorfico».

Porceddu Cilione ci porta infatti a comprendere due fondamentali problematiche: non si ha la possibilità di capire l’origine di un oggetto se non attraverso la forma, e di diritto la forma non può dirci nulla sull’origine che ha presieduto la sua formazione. Sembra irreale ma è evidente. La forma può suggerirci, sulla scorta di una serie di credenze sedimentate in noi umani, che il tal oggetto sia stato architettato da una mente umana. Ma basta fare uno sforzo di conversione dello sguardo per capire che esteticamente (a livello di percezione) una conchiglia può essere frutto indifferentemente di intenzione umana o intenzione naturale. La bellezza e l’ingegnosità di un favo o di una conchiglia non hanno nulla da invidiare alle produzioni per così dire “artistiche”. La distinzione tracciata da Aristotele sembra dunque cedere sotto l’impossibilità di definire il punto da cui è scaturita la forma del “prodotto”.

La forma dunque ha un’altra funzione: ci indica il processo di formazione del manufatto. Questo passaggio è l’altra grande chiave di volta del saggio. È lo sforzo, non umano, umanistico, ma di dispiegamento, di emersione, che si intravede nella cura della forma e a cui la forma fa segno, che ci affascina dell’opera artistica:

Si comprende bene che l’artisticità/tecnicità degli enti non nomina tanto un presunto carattere iconico che apparirebbe nelle opere dell’arte, ma essa nomina piuttosto l’emersione, in ogni ente e in ogni fenomeno osservabile, di un carattere di complessità seducente […] nell’efficacia con cui le tensioni formatrici agiscono da dentro la sua manifestazione (p.153).

Quell’abisso che sembrava separare l’ingegno istintivo della natura dal genio intenzionale dell’uomo scompare nel dominio dell’ars: non è più il principio generativo a cui siamo interessati, ma la gratuità del gesto di emersione, plasmazione e autoplasmazione che ci coinvolge. Il processo morfogenetico porta con sé la dimensione ultima dell’atto creativo, della poiesis.

Ma se l’ars è appunto questo fascino suscitato dal mistero della strutturazione, è ars anche la conchiglia, è ars anche il fiocco di neve. Si legge già nel primo capitolo: «Forse, proprio in forza di questa strana simmetria tra physis e téchne, il segreto dell’essenza dell’arte è custodito dal rapporto che avvince l’intelligenza umana alla forma del cristallo, alla coda del pavone, alla torsione della conchiglia» (p.38).

Ecco che Porceddu Cilione ci ha portato quietamente nel pieno del Pensiero, quello che non traccia linee tra arte e natura, ma che dipinge sfumature. L’autore rimane comunque attento a non cedere ad un pensiero dell’immanenza assoluta (o del “tutto è equipollente”): «In un senso generale, si potrebbe immaginare che i processi genetici e morfologici in opera nel dominio “naturale” come anche in quello “artistico” si articolino in gradi crescenti di complessità e di autoconsapevolezza» (p.141). Il favo costruito dalle api mancherebbe di quella cristallina trasparenza che attraversa invece lo scultore all’apice della sua produzione, nell’incontro tra lo Spirito e lo Spirito, quando l’artista diventa l’opera pur nella sua completa oggettività. Insomma, il testo non ci dice mai che physis e téchne sono la stessa cosa, ma che si strutturano su un fondamento comune il quale contiene la lacerazione, la fa fruttare, ne indica la contraddizione (come nel Diana e Atteone di Tiziano commentato finemente all’interno del capitolo “Antri”). In conclusione potremmo dire che la distinzione tra physis e téchne è in certe forme, ancora presente. Ma non si tratta né di una distinzione che preveda uno scarto, né di una polarità. Esiste una soglia, un’apertura.

Vorrei spendere alcune parole, a margine, su quella fondamentale sezione, l’ultima dell’ultimo capitolo, intitolata tecnologie. È chiaro che il discorso sulla téchne ad oggi debba includere un discorso sulla tecnologia. In primis perché la tecnologia si presenta come una neo-natura e non più come il movimento di trasgressione proprio della téchne che teneva la natura come origine e punto di riferimento per il suo slancio di potenza: «Se l’arte, quindi, rappresentava il superamento umano della natura, ora la tecnologia rappresenta il superamento della natura, dell’arte e dell’uomo in direzione di se stessa, secondo logiche autoreplicanti di crescente efficienza» (pp. 168-169). Il rapporto tra téchne e tecnologia è allora ancora tutto da pensare, perché, forse, la tecnologia risulterebbe concettualmente oscurata da un uso fuorviante della parola téchne. La tecnologia del XXI secolo potrebbe dover essere pensata più attraverso la sua struttura algoritmica che passando per il suo carattere “tecnico”. In secondo luogo perché, ad oggi, sembra che sia proprio questa neo-natura ad esserci più vicina. Proveniamo, viviamo, siamo immersi nella tecnologia. La tecnologia è la nostra origine, ed è la natura che viene conosciuta e vissuta attraverso di essa (pensiamo alle bio-tecnologie). Se Porceddu Cilione ci ha portati nell’antro dove i confini tra physis e téchne sono labili, e ci ha convinto di ciò, le risposte agli interrogativi sulla téchne e sulla tecnologia non possono che essere custodite nell’ars e nella sua dimensione di formatività assoluta.

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige il collettivo e rivista sovrapposizioni. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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