Sadomasolingua AKA Maggie Simpson vs Ferdinand de Saussure

Il segno saussuriano fonda la sua esistenza su di una violenza inenarrabile. Tra significante e significato vige una relazione di interdipendenza, e non di equivalenza. E tra le due vi è una differenza sostanziale. Il significante dipende dal significato, e viceversa. L’uno sarebbe nulla senza l’altro, e dunque solo convergendo nel segno (la loro unione, più o meno felice, ma come un matrimonio convenzionalmente riconosciuta) sono qualcosa. Di per sé stessi, non valgono nulla. Sono, nella loro informità, aperti l’uno ad accogliere l’altro. Ma la loro apertura è analoga alla segmentazione del pezzo di un puzzle: non accettano che la loro controparte, designata da un atto arbitrario. Tanto immotivato quanto meccanicamente preciso. Più che “aperti”, sono incompleti, spasimanti la sfera dell’unicum alla quale accederanno sintetizzandosi nel segno. È d’altronde dal segno che la loro esistenza dipende. Non conosciamo che segni, e l’arbitrio che reputiamo essere garante di una connessione tra significante e significato è di natura non dissimile dall’arbitrarietà per cui individuiamo nel segno una chimera composita.

Se dovessimo ipostatizzare il pensiero saussuriano in forme geometriche, non vedremmo altro che una sfilata di croci, di lance sincroniche conficcate nell’orizzontalità infinita della diacronia. Perpendicolarmente. Una parvenza di verticalità sussiste anche nel rapporto che tra significante e significato intercorre: essa è riscontrabile solo a posteriori, e cioè quando il segno viene scomposto e ricondotto alla sua natura binaria.  Una volta eseguita tale scarnificazione dell’oggetto analizzato, non può che subentrare un sentore di verticalità, come se il significante, nella sua matericità, stesse sotto ed il significato, in qualche modo, sopra. Magari aleggiando leggermente, o permeando la sua controparte come una nebbia. Il significante ingloba il significato, accogliendo nella sfera del sonoro o del grafico[1] ciò che è concettuale ed astratto; il significato, parallelamente, infonde nel significato una particolare psiche (“respiro, soffio”). Volendo liberarci dall’immagine di un’infusione di respiro vitale, che farebbe del significato un’anima (e del significante un animato), potremmo figurarci il suo operato come un rivestimento fumoso, un ammantamento parassitario atto alla recisione. Il significante, segmentato ed estraniato dal suo stadio originario, in cui non era tutt’al più che una macchia irriconoscibile, ascende alla sfera dell’intellegibilità. La sua nascita coincide con un atto di recisione dell’incommensurabile. Viceversa i concetti, immessi nella sensorialità e dunque strappati al mentale puro, passano dall’intelligibilità autoriflessiva del soggetto pensante a quella della relazione, della comunicazione. È proprio perché tale passaggio sia possibile che la lingua nasce. La visceralità dell’atto di fagocitazione del primo rimanda a una sfera bassa, mentre la vestizione operata dal secondo ha un che di etereo, leggero.

Due sistemi carcerari in lotta, un poliziotto che tenta di ammanettare un poliziotto che tenta di ammanettarlo. L’interdipendenza che soggiace al segno è un palindromico sadomasochismo. Un oroboro la cui coda termina in un’ulteriore bocca di serpente. Metamorfosi necessaria affinché le due bocche si mordano a vicenda. Mordersi semplicemente la coda farebbe del sadomasochismo palindromico una semplice violenza infinita. La bocca che al contempo morde ed è morsa, che gode simultaneamente sia della violenza perpetrata che di quella subita. Questo è il sigillo della significazione. Ad obliterare con il suo splendore questo endocidio, questa tensione costante, il segno.

In quanto fatto relazionale, la lingua non può che, volgendosi all’utile, non trovare il suo senso in sé stessa. E, analogamente, non hanno senso in loro stessi neanche significante e significato. Proprio perché tasselli dell’utile. La violenta frizione che frustra il rapporto tra significante e significato è la stessa che caratterizza i rapporti tra individui. Ogni relazione è un ciclicio. La lingua non è che metonimia della società alla quale presta i suoi servigi, violenza-particella di una violenza cosmogonica.

L’arte, invece, è inutile. Non serve a nulla, a nessuno. Un’opera d’arte non è un sigillo volto a estetizzare la sua soggiacente natura endocida. Essere ed apparire coincidono in ciò che è pura significanza. Un accostamento audiovisivo non implica tra i due termini che lo compongono la violenza interdipendente dell’oroboro bicefalo. Due sfere sensoriali che convergono nell’inutilità della significanza non devono reciprocamente fagocitarsi nel meccanismo del sadomasochismo. L’inutilità è pace.


Homer S.

Homer Simpson è un padre amorevole. Comprende la violenza non solo insita nella lingua stessa, internamente, ma l’atto di violenza che l’utilizzo della lingua comporta. “Parlare” vuol dire farsi carnefici, emissari metonimici di un sistema il cui obbiettivo è recidere il legame originario del Tutto per instaurarne di infiniti nuovi tra i tasselli creati tramite significazione. Per i suoi figli non vuole certo questo.

Bart viene strangolato, ripetutamente, cosicchè non si azzardi a parlare. Qui per deprivare suo figlio del sistema linguistico Homer ricorre alla forza bruta e ad un piano tanto primitivo quanto funzionale: logorare l’apparato di fonazione fino a renderlo inutilizzabile, accanendosi nello specifico su trachea e laringe.

A Lisa viene invece fornita una protesi che invalidi, almeno momentaneamente, la sua fin troppo sopraffina capacità oratoria: il sassofono. Il sassofono trasforma la fonazione linguistica in afflato rumoristico.

Maggie viene invece sigillata con un ciuccio, più che protesi vero e proprio “tappo” che fa di un umanoide un oggetto incomunicante e tutt’al più capace di iterazioni tanto comprensibili e iconiche (l’iper riconoscibile “ciucciare” della bambina) quanto inutili a veicolare messaggi compiuti.

Nella speranza che, almeno Maggie, non parli mai la lingua degli uomini.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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Quella lingua a Nord del futuro

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