Tecnica, Comunità, Destino. In dialogo con Carlo Sini
Intervista a cura di Giacomo Berengo per Sovrapposizioni.
Giacomo Berengo: La tecnica è l’uomo. Dove c’è uno c’è l’altro e viceversa. In quest’ottica, che pare essere l’unica che guarda ciò chi appare, nei suoi limiti e nelle sue ricchezze, non c’è, di fatto, alcuno spazio per ogni concezione superstiziosa che voglia difendere l’uomo dalla tecnica, vedendo in quest’ultima la radice della “recente” separazione dell’uomo con il mondo cosiddetto della natura. La sfida del sapere è dunque quella di utilizzare a proprio beneficio il supporto che ora ha a disposizione, che ora può supportare tutti i saperi che l’umanità ha, fino a questo momento, raggiunto e conservato. La domanda, che può sembrare ovvia e scontata a prima vista, e che in realtà non lo è affatto è dunque la seguente: come può il sapere filosofico armonizzarsi con il supporto che ora è utile per creare comunità? Quale sapere può emergere, secondo lei, dal supporto che ora abbiamo a disposizione?
Carlo Sini: Distinguere l’uomo dalla tecnica, non vedere che l’essere umano è tale proprio in quanto “tecnico”, cioè in quanto entrato in un orizzonte e in una vicenda di vita che non è più caratterizzata soltanto dalla cosiddetta “nuda natura”, conduce certo a discorsi confusi e problematici. Questo non significa che essi non traggano motivo, però, da qualcosa di reale, da timori e disagi esistenziali che rivestono comunque un senso e quindi una importanza peculiare.
Che una specie vivente possa venir meno dipende dalla modificazione di equilibri ecologici sui quali la specie medesima non ha poteri, oltre a quelli che la natura le ha fornito, secondo il loro limite intrinseco di plasticità. Nel momento in cui l’azione della specie umana si qualifica invece per il ricorso sempre crescente all’uso strumentale, il pericolo, direi, si raddoppia: da un lato, diciamo così, i capricci della natura (le glaciazioni, i terremoti, le eruzioni ecc,); dall’altro i pericoli dello strumento stesso, che ha immesso nella vita naturale della specie “sapiens” (o che sta diventando tale) l’esteriorità al limite indecidibile del mondo cosiddetto esterno: la “materia” della protesi, appunto. C’è ben motivo di temere che lo strumento tecnico sconvolga l’equilibrio necessario dell’ambiente (la cui “regola” è sempre costituita da una complessità di azioni, reazioni e contro-azioni incalcolabile) e addirittura che si rivolga contro la vita dei suoi stessi “utilizzatori”, insegnando all’Homo Sapiens una violenza inedita e infinitamente potenziabile verso di sé. In altre parole, se vedi arrivare un carrarmato non stai tranquillo.
Oltre un certo livello di evoluzione e di pericolosità strumentale, il problema dell’uomo come animale civilizzato diventa la pace. Ricordo in proposito e molto in sintesi una vicenda a suo modo eloquente: l’impero britannico alle prese con popolazioni e tribù “selvagge” dell’estremo Oriente in perenne guerra tra loro. Bisogna educare questi selvaggi. Invio di una squadra di antropologi per studiare la situazione e far cessare l’orribile conflitto. Risultato: le tribù costantemente in guerra provocano due o tre morti l’anno (molti meno di quelli che derivano da incidenti di caccia). Per di più, il divieto ai riti e miti e costumi complicatissimi che accompagnano le attività guerresche nel corso dell’anno, e quindi il divieto della guerra continuativa stessa, produce un decadimento generale della vita collettiva, che risulta, per i “selvaggi”, destituita così di ogni regola, di ogni organizzazione etica, religiosa, economica, familiare, generazionale, sessuale, e quindi destituita di ogni senso e valore. I “selvaggi” non fanno più nulla, non lavorano, si ubriacano, degenerano, diventano aggressivi all’interno della tribù, non riconoscono più autorità alcuna, muoiono come le mosche.
Questa storia insegna che il livello “primitivo” della strumentazione tecnica degli umani non costituisce alcun rischio, come diciamo oggi, per l’ambiente. È anzi una lotta disperata, per migliaia e migliaia d’anni, condotta da una specie molto fragile per riuscire a sopravvivere su questo pianeta.
Poi gli strumenti tecnici si fanno progressivamente molto pericolosi in mano alla bellicosità degli umani e la guerra comincia a diventare, nel corso del tempo, una catastrofe inarrestabile: altro che due o tre morti. Il roussoviano buon selvaggio diviene un barbaro sterminatore. Perché?
Dico anche qui in estrema sintesi. Quando ci riferiamo allo strumento tecnico dimentichiamo regolarmente quello più importante. Esso infatti si nasconde ai nostri occhi e alle nostre orecchie proprio dietro l’uso che costantemente ne facciamo (anche qui). Parlo del discorso o, come per lo più si ama dire (in modo caratteristicamente “superstizioso”), del linguaggio.
L’ufficio del discorso (procedo con gli stivali delle sette leghe) non è affatto quello che siamo soliti credere: dire le cose, dare loro un nome (come se le cose fossero costituite da suoni della voce o tratti di inchiostro sulla carta); il suo ufficio originario o primario è invece quello di chiamare i membri del gruppo vivente (agli inizi, pare, non più di una ventina o trentina di individui in marcia nella savana) a collaborare nell’esercizio delle azioni comuni tramite l’ufficio di gesti vocali che ne scandiscono e analizzano le funzioni operative: non dire le cose come sarebbero “in sé” (questa superstizione illusionistica del linguaggio è solo una conseguenza), ma in quanto poli di interesse per l’uso collettivo. In parole povere, non i sostantivi (diremmo oggi), ma i verbi (come per esempio è illustrato dagli ideogrammi della antica scrittura cinese).
Nato dalla articolazione dell’azione comune, il discorso diviene così anche il luogo dell’auto-riconoscimento dei membri del gruppo: esso veicola e trasferisce all’interno di ognuno la funzione e il ruolo; quindi la coscienza e autocoscienza sociale dei membri del gruppo; quindi la loro intersoggettività vivente e operante; quindi la costituzione di una “storia” mitologica, magica, ritualistica, sacrificale della comunità in cammino: gli spiriti e gli Dei che ne garantirebbero le sorti, la sopravvivenza, il prestigio e la prosperità crescenti; quindi la sua bellicosità verso le altre comunità, che ne minacciano l’esistenza. Platone ha descritto perfettamente tutto ciò nella Repubblica (nel passaggio dalla società frugale delle origini alla società “infiammata” dal lusso, dal possesso, dal consumo, dalle disuguaglianze sociali tra ricchi e poveri e infine dalla necessità di mantenere un esercito per difendere il “proprio” dalla avidità degli “stranieri” e possibilmente impadronirsi dell’“altrui”: una storia che non è più finita).
Dalle Leggi di Platone a Per una pace perpetua di Kant (1795) uno dei compiti principali della filosofia è stato pertanto quello di promuovere la pace, liberando le comunità umane dalla stasis (dalla terribile guerra intestina), quindi dai distruttivi conflitti esterni, e poi per liberare ognuno dalla violenza anzitutto dentro il sé, per proiettarla poi fuori di sé (Freud aveva letto Platone).
Già Platone intuiva che non può esserci pace in una comunità se non vi è pace tra gli Stati; per Kant questo fatto è chiarissimo e lo strumento è quello (come del resto già nelle Leggi) di una nuova educazione degli esseri umani: compito precipuo della filosofia (in Occidente). Non della religione, perché l’origine delle religioni fu quello di consolidare e giustificare ogni singola comunità garantendole i propri protettori celesti, conseguentemente nel suo conflitto con gli Dei delle altre comunità. Si tratterebbe allora di immaginare una sorta di religione universale, ma questo traguardo comporterebbe o la sottomissione di tutte le credenze a una sola; o l’abolizione di ogni credenza religiosa e quindi della religione medesima. Di questo paradosso si faccia carico l’uomo religioso; io non lo sono.
Dopo questa lunghissima introduzione, e poco urbani passi da gigante, quindi con molti legittimi problemi di comprensione, penso nondimeno di essermi aperto la via per arrivare alla domanda: quale sapere (filosofico) può oggi fare uso di supporti, di quali strumenti può giovarsi per creare comunità (e quale comunità)?
Per come personalmente vedo l’esercizio filosofico, la prima cosa che mi sembra importante dire è che bisogna anzitutto liberarsi dalla superstizione dei discorsi (senza peraltro abbandonare i discorsi, evidentemente, se si tratta di “dire”). Quindi bisogna apprendere a non domandare così come si è ricordato sopra. Bisogna imparare a veder chiaro che non si tratta del sapere, non si tratta della filosofia, non si tratta della comunità, perché queste “cose” non esistono: sono da sempre l’effetto illusionistico della pratica e della funzione del discorso, questo straordinario strumento della “socialità”.
Parlando in modo metaforico, potremmo osservare che la continuità delle forme viventi (quelle che per esempio chiamiamo “specie”) esiste solo nella sua ripetizione e trasmissione attraverso la indispensabile strozzatura dei corpi viventi e attraverso le loro azioni particolari e specifiche, attive e passive (ricordo la preziosa distinzione husserliana tra Leib – corpo vivente – e Körper - corpo-cosa). Ora, il medesimo accade con la protesi esosomatica della voce, della parola e del discorso: esso transita attraverso i corpi e non si trova altrove. La sua azione però ha di mira la coordinazione in una azione comune (potemmo dire l’accomunamento: letteralmente ciò che Peirce nominava come “ciò che si è pronti a fare in comune”, Hegel: “il fare di tutti e di ciascuno”, cioè letteralmente lo spirito hegeliano, “l’abito” condiviso di comune risposta: se grido ‘corri’ tu corri!) e per ottenere questa coordinazione l’azione del discorso produce e promuove segni universali, parole-concetto (dirà la filosofia) e, conseguentemente, l’universale credenza nelle “cose” corrispondenti: tratto strutturalmente superstizioso del logos.
La fine del sapere metafisico, la conseguente fine delle illusioni “ontologico-naturalistiche” del senso comune e del senso comune scientifico, suggeriscono una differente “postura” entro i comuni problemi e saperi. Ognuno di noi, in quanto membro di un intreccio sterminato e inestricabile di eredità e di relazioni sistemiche, collocato in una nicchia di nicchie ereditate dall’oltreumano e dalla cultura (che ha modificato anche i corpi cosiddetti naturali), può immaginare di prendere efficacemente la parola solo all’interno della raggiunta consapevolezza di questa sua collocazione, che accade a lui, in modi molto definiti, come accade anche in tutti, nei modi loro. In questo potenziale dialogo con sé e con gli altri, e solo in esso, si possono definire gli strumenti e i supporti, uno per uno e volta per volta disponibili o immaginabili, misurandone l’efficacia, l’opportunità e la destinazione, sino a prova contraria.
Proviamo a prenderne uno e lavoriamo con buona volontà. Qui, direi, ho in sostanza suggerito di lavorare sullo strumento discorso, a partire da come io stesso penso di trovarmene fornito; cerchiamo di mettere in luce perché e a partire da che… esercizio che per tradizione e per molte altre ragioni chiamo “filosofico”. Vediamo le ragioni (le mie per me, le tue per te, ecc.): dopo tutto veniamo da Socrate. Cioè? Ecc. ecc. (Mi sono spiegato?).
GB: La “comunità mondiale” non é né comunità né mondiale. È semplicemente una locuzione composta di belle parole. Parole fondamentali. Ma in ogni caso parole organizzate foneticamente, un discorso, se vogliamo. Ma il discorso, appunto perché alfabetico, è un costrutto storicamente e territorialmente determinato: esso nasce in occidente, nell’antica Grecia solo grazie ad un certo sapere (quello filosofico appunto) ecc. Perciò unire il mondo nell’alfabetizzazione sembrerebbe non solo un enorme imposizione culturale che segnerebbe la supremazia di una cultura contro altre; ma addirittura una violenza, che vorrebbe si parli di cultura – nella sua accezione territoriale, antica, ctonia – solo nel caso della occidentale, solo per quanto riguarda la filosofia e le sue derivazioni e modificazioni. Se questo è vero: come si potrebbe allora concepire una comunità globale? Se bisogna evitare l’errore della comunicazione unicamente dialogica, quali altre strade possono condurci ad una reale comunità universale? Come creare una comunità che non sia un sopruso del discorso su tutti gli altri tratti distintivi delle altre comunità non-occidentali – che sono appunto le lingue? È immaginabile - e auspicabile - una organizzazione di questo genere?
CS: Come concepire una comunità globale che non sia un sopruso del discorso occidentale su tutte le comunità non-occidentali? Come realizzare una reale comunità universale? La lunga risposta precedente mi aiuta a rispondere ora molto più rapidamente. Anche qui è opportuna una riflessione preliminare sulla domanda. Procedo per notazioni molto sintetiche.
Così posto il problema è ovviamente irresolubile. Un discorso evidentemente occidentale chiede, in modi interamente occidentali (e come altrimenti potrebbe mai chiedere), come non essere occidentale; cioè “universale” (che è poi proprio la sua “specialità” storica, la sua nicchia non universale; ma anche il merito – diciamo da Nietzsche? - di averlo compreso in coloro che lo hanno compreso).
Il cammino verso una comunità globale non si è mosso solo per l’influenza “ideologica” dei discorsi (per esempio mitici, religiosi, filosofici, retorici, scientifici, politici); si è mosso per l’intreccio dei discorsi con la natura “oggettivante” dell’azione strumentale. Il martello si usa così e così: tratto pedagogico e tratto operativo universale. Per di più il martello mostra a tutti coloro che hanno imparato a usarlo che l’ambiente nel quale viviamo e lavoriamo (in una parola il mondo) è fatto così e così; ovvero risponde in questi modi oggettivamente universali al lavoro sociale dei martellatori: la conoscenza è in cammino. Quella della scienza moderna ne è la propaggine e la specializzazione (per ora) suprema.
Ovunque le comunità umane, differenziatesi e distanziatesi nei tempi della conquista del pianeta, si siano trovate a reincontrarsi poi (con la rivoluzione oceanica del ‘400 ecc.), si è verificata la tesi di Peirce: che gli esseri umani non possono evitare di influenzarsi reciprocamente; che gli abiti della tenacia e dell’autorità alla lunga inevitabilmente si dissolvono di fronte alla potenza degli strumenti esosomatici che promuovono la conoscenza; quindi che la verità è “pubblica”. Sono questi fatti e processi che innescano l’attuale globalizzazione, non siamo noi a promuoverla per nostra decisione. Diciamo che la forza delle pratiche di vita, delle cose e di ciò che io chiamo potere invisibile delle cose medesime e delle pratiche del lavoro sociale, promuovono noi, le nostre azioni e le nostre decisioni, per quel poco o tanto che possono influenzare l’insieme.
Il problema allora è, mi pare, quello di esibire e produrre (anzitutto a noi stessi) la visibilità e la comprensibilità del nostro modo di essere e di essere stati, come sostanziale contributo alla relazione con gli altri. Si va dalla relazione tra noi qui (è in corso, direi), alla relazione, per esempio, con uno scienziato, con un essere umano di tutt’altra lingua e cultura dalle nostre ecc. Non è il caso di studiarsi di abbandonare i nostri discorsi e le nostre verità (proposito tanto insensato quanto impossibile, anche se la sera facciamo yoga); si tratta anzitutto di ascoltare e ascoltarci e lavorare insieme a creare uno spazio di collaborazioni più ampio di quello disponibile inizialmente per ognuno. (Per esempio alcuni famosi gruppi teatrali già da tempo lo fanno.) Quella collaborazione si tratta di metterla in opera e in esercizio ai fini della cosiddetta comunità globale o universale. Non si tratta di “pensarla” in astratto ma di farla lievitare dalla messa in comune dell’esercizio (a Mechrí parliamo, problematicamente, di “laboratorio”), sapendo che resterà comunque diversificata al suo interno, costantemente bisognosa di restaurazione e reinvenzione, soggetta a metamorfosi perenne, anche per gli effetti della sua stessa azione. Si tratta infine di vedere in questa “morte” continua dei nostri abiti e delle nostre credenze il più potente motore di vita e di verità. (È morta la filosofia, viva la filosofia.)
GB: Allora, come ultima domanda, la vogliamo interrogare sul tema del destino. Esso è trattato nei suoi scritti con assoluta concretezza e in un modo che non può non riguardarci tutti, e, nelle nostra domanda, cercheremo di non essere da meno. Domandarsi del destino è in primo luogo domandarsi dei giovani. Domandarsi sulle prospettive di avvenire di coloro i quali, volenti o nolenti (escludiamo il suicidio per non aumentare la complessità), dovranno farsi carico della società attuale e, come dire, esserne differenza e ripetizione. Ma con la mancanza quasi totale di prospettive, di etiche comuni, di sentita collettività, come pensa che dovrebbero muoversi i nuovi arrivati?
CS: La più difficile, la più dolorosa, la più inutile. Che ha da dire un vecchio ai giovani, quanto alla loro vita e al loro destino? Posso sforzarmi di dire come io sono arrivato sin qui (aggiungerci “perché” sarebbe già troppo presuntuoso, se vale ciò che ho detto sopra); ma che cosa è “qui” per me è enormemente in difetto rispetto a quello che è “qui” per voi, salvo sotto il profilo personale della memoria.
Questo indiscutibile fatto ha in sé la sua fortuna e la sua sventura. La fortuna è presto detta: che ogni giovane oggi vede, sente, intuisce, comprende, immagina, suppone cose per me assolutamente fuori portata e a dir poco inesistenti. Dissi una volta a lezione alla Statale: non crediate che Porta Romana sia la stessa cosa per me e per voi; al più può essere un riferimento comune per darci un appuntamento.
Le cose sono infinitamente complesse, mutano di continuo, ed è impossibile che non forniscano qualche occasione per chi sta attento, non si sgomenta e sa che non è irragionevole attendersi ogni tanto una occasione. Quale? Questo, credo, è deciso in ognuno dalle sue reali passioni (“reali”, ho detto, il che si scopre col tempo). Un vecchio ti racconta delle sue, dei suoi errori e di ciò che crede di avere imparato. Per esempio ti ricorda questo detto (che mi è sempre piaciuto): una vita felice è quella che realizza nella maturità e nella vecchiaia il sogno della giovinezza.
Già ma il problema (voi in sostanza dite) è come averli, oggi, questi sogni. E qui la vecchiaia non rende però ciechi alla visione dell’aspetto terribile, sventurato dicevo sopra, della vita odierna, sia per coloro che muoiono sotto le bombe o nelle onde del mare, sia per coloro che vivono nel limbo, abbastanza repellente, della nostra società tryfosa, diceva Platone: infiammata dalla produzione e dal consumo di massa, dai messaggi massificati, dal benessere pagato col senso della vita e così via (è davvero inutile che continui, ma non è realistico pensare che in passato qui da noi fossero tutte rose e fiori).
Questa nostra società (ormai proiettata in dimensione globale) è estremamente accogliente: la scuola per tutti, l’università per tutti, uno straccio di lavoro precario per tutti, tutti insieme felicemente nei luoghi della movida (fuga dalle campagne, dai borghi, dai paesi, per stabilirsi in città, perché là non c’è più vita, non c’è più niente, e qui c’è tutto e anche di tutto). Eppure, comunque la si giri, saranno i giovani oggi, come voi infatti dite, che dovranno farsi carico della società in cammino. Però non ci sono formule vincenti, o almeno io non ne ho. Quello che so è che per me è stato importante portare con me l’immagine di coloro che avevo adottato come padri e maestri spirituali: in certi momenti difficili mi è stato di aiuto. Naturalmente la cosa vera (ho appreso col tempo) non era principalmente la virtù “magistrale” di quelle persone e di quegli incontri (che pure so che furono di grande valore di per sé). Importante fu soprattutto la mia capacità di assumerli come maestri, come modelli: questo ha reso possibile il sogno della mia giovinezza.
Dove sono però i maestri? Anche di questi c’è “penuria”, direbbe Sartre; ma attenzione: per il fine che dico, non è affatto necessario che siano viventi e oggi possediamo strumenti straordinari, mai posseduti prima, per incontrarli sul filo dei segni della memoria e delle opere; per costruire con essi la nostra comunità immaginaria e possibile. Fu per esempio così che, da adolescente, mi innamorai di Bix Beiderbecke (poi ce ne furono altri). Buona fortuna, giovani amici.
Milano, 28 Aprile 2020
Carlo Sini ha insegnato per oltre trent’anni Filosofia teoretica all’università degli studi di Milano. Accademico dei Licei, ha tenuto conferenze e seminari negli Stati Uniti, in Canada, in America latina e in vari paesi europei. Tra le sue ultime pubblicazioni ricordiamo: L’uomo, la macchina, l’automa (Bollati-Boringhieri, Torino 2009); Il sapere dei segni (ivi, 2012); Dante: il suono dell’invisibile (Orthotes, 2013). L’editoriale Jaca Book sta pubblicando le Opere complete a cura di Florinda Cambria.