In origine era la vibrazione

Luigi Russolo e l’intonarumori - pubblicato per la prima volta ne L’Arte dei rumori di Luigi Russolo (1913).

«L’orecchio, non il cervello, come sede dello spirito».
E. Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni di appunti 1942-1972

Vibratile e malleabile, il rumore è comunemente inteso come perturbazione acustica sgradevole, calamità nefasta del paesaggio sonoro, prodotto di scarto inevitabile della marcia del progresso. Il significato del termine non si limita alla dimensione dell’ascolto; è possibile rintracciare il suo utilizzo anche in altri ambiti per indicare forme di disturbo differenti. Ad esempio, nella teoria dell’informazione, si indica con rumore ogni interferenza che altera la trasmissione di un messaggio e ne riduce il contenuto informativo. In elettronica si chiama genericamente rumore ogni segnale spurio, cioè che non rientra tra quelli che definiscono il normale funzionamento del sistema. In elettroacustica i rumori sono segnali elettrici caotici che per varie cause insorgono e si manifestano come ronzii, fruscii, sibili indesiderati. Il concetto di rumore generalmente tende ad appiattirsi sulla dimensione del fastidio, del disordine; tuttavia esistono anche una accezione ed un’esperienza positiva di questo fenomeno. Dal punto di vista esperienziale il rumore di cui è intriso il paesaggio naturale è qualcosa di gradevole e apprezzabile: lo scroscio di una cascata, il gorgoglio di un ruscello montano, lo sciabordio della risacca sul lungomare della spiaggia, il frusciare dei refoli di vento in un bosco. Dal punto di vista concettuale è possibile formulare una concezione diametralmente opposta a quella ordinaria dal momento che ogni interferenza, a prescindere dalla forma che possiede, cela in sé anche una possibilità ignota, un prezioso contenuto di amplificazione ermeneutica.

L’industrializzazione massiccia e il progressivo irrompere delle macchine nella quotidianità hanno riconfigurato, attraverso una diffusione capillare del rumore, i nostri paesaggi sonori abituandoci ad associare il rumore a qualcosa di fastidioso. Allo stesso tempo però questa diffusione pervasiva è stata stimolo per la messa in discussione del concetto di musica. In tal senso, alcuna musica del Novecento rivaluta il rumore mettendone in luce la dimensione generativa. Il secolo scorso, da un punto di vista di sperimentazione musicale è stato, almeno in parte, il tentativo di piegare il concetto di musica integrandolo gradualmente con una presenza entropica. Si pensi alla musica, intesa come arte dei rumori, nel manifesto del futurista Luigi Rumolo:

Siamo certi dunque che scegliendo, coordinando e dominando tutti i rumori, noi arricchiremo gli uomini di una nuova voluttà insospettata. Benché la caratteristica del rumore sia di richiamarci brutalmente alla vita, l’arte dei rumori non deve limitarsi ad una riproduzione imitativa. Essa attingerà la sua maggiore facoltà di emozione nel godimento acustico in se stesso, che l’ispirazione dell’artista saprà trarre dai rumori combinati (L. Rumolo, L’arte dei rumori. Manifesto futurista).

In questo senso, la musica teorizzata dai futuristi utilizza i suoni prodotti dalle macchine per intonare un’inebriante orchestra di rumori, in cui questi vengano regolati armonicamente e ritmicamente. Entusiasti abitanti e promotori della città, i futuristi vedono nel rumore la possibilità di un rinnovamento per il linguaggio sonoro, il potenziale per un’esperienza acustica integrale. L’arte musicale così si complica nel tentativo di amalgamare in sé segnali sempre più dissonanti, sempre più strani e aspri per l’orecchio. La musica, in questa prospettiva, viene pensata come un’esperienza sonora dalla quale non si deve escludere nulla; convinti che non esista alcuna gerarchia di valore tra gli eventi acustici, i futuristi denunciano la musica precedente come antiquaria testimonianza di intelletti svuotati di ogni forza espressiva.

Dopo di loro, altre forme di sperimentazioni hanno utilizzato rumori di diversa natura in senso musicale. Nel 1948 Pierre Schaeffer registra su nastro magnetico suoni e rumori ambientali e li utilizza come materia grezza da raffinare. Questo materiale infatti subisce una rielaborazione da parte del compositore che, come un montatore cinematografico di fronte alla sua moviola, taglia e riassembla il nastro, lo fa scorrere a velocità variabile, crea ripetizioni e inversioni di frammenti. La musica concreta, corrente che viene così inaugurata, è un ulteriore tentativo d’integrazione di presenze altre e straniere all’interno di un’arte dei suoni pensata a lungo a partire dai rapporti matematici. L’effetto collaterale maggiore, relativo a queste operazioni, è la torsione del concetto di musica: da una serie strutturata di suoni verso la loro mera apparizione e presenza. L’attività frenetica dei musicisti del Novecento rende ogni tentativo di definizione più preciso impossibile: musica è potenzialmente qualsiasi suono che viene udito. Secoli e secoli passati a discernere e sezionare la materia musicale, a costruire strutture, a redigere canoni e poi ecco che l’informe, fantasma di un passato primordiale, torna a bussare alla porta. Che fare? Limitarsi a guardare dallo spioncino o aprirgli per accoglierlo in casa, consapevoli del fatto che metterà tutto sottosopra?

Parte del rinnovamento della musica nel Novecento passa quindi dalla riflessione sul ruolo e sull’essenza del rumore. In questo senso l’arte ineffabile per eccellenza acquista potenzialmente uno spessore materico, ma lo fa in modo paradossale, complicandosi e rendendosi più concettuale. L’operazione di amalgamare in miscugli eterogenei eventi acustici dissonanti conduce verso una differente educazione dell’orecchio che impara ad apprezzare una nuova tipologia di sonorità. Se il rumore ottiene vagamente delle qualità musicali, come ritmo o intonazione, è innanzitutto grazie al lavoro dell’intelletto perché dal punto di vista fisico è una vibrazione continuamente variabile, intermittente, aleatoria e quindi priva di vere e proprie qualità musicali. Le varie sperimentazioni e teorizzazioni a cui si è fin qui accennato hanno rotto, nel corso della storia, l’abituale ricerca dell’armonia e della melodia della cultura musicale permettendo, attraverso l’integrazione di presenze liminali, di modificare i criteri valutativi della musica.

Si potrebbe quindi essere portati a pensare che il secolo scorso sia stato il momento sorgivo della relazione tra rumore e musica, è davvero così? No, il rumore è già da sempre virtualmente musica, la contiene in sé come il limo di un fiume contiene pepite d’oro visibili solo una volta setacciato. Ciò che rompe il silenzio del tempo, ciò che esiste prima del canto, è innanzitutto rumore indistinto; la musica diviene arte vera e propria nel momento in cui cerca di ordinare quel magma indifferenziato attraverso delle semplici strutture fondate sulla ripetizione. Se si pensa alle prime espressioni proto-musicali, la mente è trasportata verso momenti ritualistici arcaici, estremamente idealizzati e connotati dall’immaginario collettivo: pensiamo ad un fuoco, alcune voci, delle percussioni e una qualche forma di danza. Che l’immagine sia corretta o meno, non importa: a questo livello voci e percussioni sono rumori, materia ancora informe da cui scaturiranno il canto, la poesia e la musica. In che senso le percussioni siano rumore è presto detto. Da un punto di vista fisico il percuotere una superficie genera un fenomeno il cui spettro armonico contiene molte componenti di rumore rendendo difficile la sua descrizione con una singola frequenza fondamentale, permettendoci di iscrivere questo fenomeno sotto la macro categoria di rumore. La voce, da intendere come grido e fonazione, ha valore in quanto evento acustico. Si cerca di pensare qui la vocalizzazione nel suo essere rumore dell’apparato vocale, produzione di mero suono biologico. La capacità fonatoria umana articola, in maggior parte, componenti di rumore a fronte di poche e limitate componenti sonore – a livello alfabetico, in tutte le lingue del mondo, le vocali sono solo alcune unità mentre i rumori consonantici sono decine e decine. In questa prospettiva, ad esercitare per primo il suo influsso sull’essere umano e sul formarsi della sua cultura fu il suono (il rumore) e non l’organizzazione del medesimo (la musica), che è frutto di un’elaborazione successiva.

In ogni cosmogonia, indipendentemente da cultura e area geografica, la genesi originaria scaturisce da una vibrazione primigenia che nel propagarsi e nell’evolversi si organizza e diventa suono. In principio era la vibrazione, la vibrazione proveniva da Dio, la vibrazione era Dio (se traducessimo propriamente l’aramaico di Gv 1,1-18). Un medesimo riferimento si riscontra nella mitologia indù, ad esempio, dove il dio Shiva è spesso rappresentato con un tamburo chiamato "damru". Lo scuotimento di questo tamburo e le vibrazioni da esso prodotte sono associate alla creazione dell' "Om", la parola universale che è considerata la fonte di tutti i suoni e veicolo della creazione stessa. Nell'antica tradizione druidica, invece, si crede che il suono generato dal movimento del Drago ancestrale abbia dato origine al cosmo. Secondo alcune versioni della cosmogonia egizia, il dio Thot emette un urlo il cui suono crea e organizza il mondo. Nei miti cosmogonici, il suono è visto come un'energia creatrice e comunicativa, una manifestazione universale del divino, uno strumento primario della coscienza. Le culture primitive mostrano come l’atteggiamento dell’uomo si configura, innanzitutto, come percezione della sua soggezione rispetto alle forze della natura. Le tecniche e le pratiche che elabora, perciò, non mirano tanto a costruire o a manipolare mondi, violentando il silenzio, quanto piuttosto ad addentrarsi in quel silenzio per sondarne il segreto. Il rumore che cercava di produrre era strumento, mezzo per mettersi in contatto con i suoi simili e con l’invisibile, con il mistero. In questo senso il rumore è il primissimo materiale espressivo e va dunque collocato in un quadro paradossale dove l’origine della musica, il suo ampliamento e la sua alterazione, si fondono e denunciano il contemporaneo come una trasfigurazione del primordiale. Così il reale apporto del Novecento è quello di integrare coscientemente l’origine dimenticata nell’arte musicale.

Il rumore nel suo nucleo più essenziale non è allora solo imitazione ma generazione, e ci pone in prossimità di quel suono primordiale, evento aleatorio e caotico, rimosso dalla musica formalizzata – una volta sviluppata come unità geometricamente ordinata di teoria e prassi. L’introduzione del rumore in ambito musicale non trasporta l’orecchio su una dimensione inedita, piuttosto lo riporta, in un modo rinnovato, al cospetto della sua origine dimenticata. Nessun reale progresso in questo, abbiamo semplicemente fatto il giro del cerchio e nel nostro camminare è passato del tempo: procediamo percorrendo un tempo elicoidale e ricorsivo. Così quell’origine lontana, impossibile da narrare, oggi ritorna attraverso la potenza generativa del rumore, prodotto attraverso le protesi (macchine) che abbiamo costruito. Una massa sonora potente e terribile sgorga dai freddi meccanismi della macchina: l’origine torna attraverso la sua trasfigurazione; alla terra si è sostituito l’asfalto, alla carne il metallo. La seconda natura si sostituisce alla prima.

Riccardo Lazzarato

Nato a Torino, si laurea in filosofia con una tesi sul concetto di immagine. La sua ricerca esplora le connessioni tra filosofia, tecnologia e cultura audiovisiva nel panorama dell’estetica contemporanea.

Indietro
Indietro

La volontà di scandalizzare. Note di psicologia II

Avanti
Avanti

L’Art brut e il movimento della vera arte