La bua dei giovani. Note di psicologia I

Francisco Goya, Aves muertas, 1808-1812, olio su tela, 45,5 cm x 62,5 cm, Museo del Prado (Madrid). 

Non so se giovani si nasce o si diventa. So per certo però che non possono esservi giovani di ventisei anni e giovani di sedici e che cioè il medesimo concetto di gioventù non può applicarsi al contempo ai giovani della mia leva e ai nati nel secondo lustro degli anni Duemila. So anche che, mio malgrado, sono guarito – «mio malgrado» perché a un certo punto ho dovuto guarire, e che dunque fare i conti con la mia o non-più-mia gioventù è stato meno una scelta che un dovere. Non che questo «fare i conti» con la mia gioventù non fosse in effetti appannaggio della mia gioventù effettiva, quella consumatasi nei secondi anni Dieci, poiché da bravo individualista che ero ho sempre percepito il passare degli anni come un oltraggio. Anzi, in quei tempi di forti impressioni e rivelazioni, il sentimento della decadenza era in me vivissimo e più di ogni altra cosa normava e orientava la mia azione, tanto che se oggi mi trovo a essere più o meno pago di ciò che è stato, è grazie non certo a un modo di essere spontaneo e fecondo che mi avrebbe caratterizzato allora, quanto piuttosto allo sradicamento praticando il quale pretendevo di agire in autonomia, talvolta con un sentimento di vuoto interiore tale da rendermi simile alla carogna di una gallina sgozzata che ancora scorrazza qua e là per semplice riflesso nervoso. Il concetto della gioventù è dunque men che mai alieno alla gioventù; esso è forse addirittura fondante rispetto alla stessa...

Oggi mi sembra però che il «fare i conti» con la mia gioventù, essendo io guarito, finisca per significare un «fare i conti» con la gioventù in generale, quella che oramai mi esclude, quella degli altri. Non potendo più rifarmi senza riserve all’introspezione e alla bua di allora – la prima volta in cui accarezzai una fica è ormai un ricordo consumato, un fatto – per giungere alla definizione di gioventù, viene a mancarmi ahimè la fonte di ogni scientificità. Un avvenimento di qualche tempo fa però suscitò in me sentimenti scientifici profondi, che intendo qui rappresentare, grazie ai quali ancora una volta mi è fatta la grazia di prescindere da un’antropologia e da una psicologia dell’ultima ora, da una scienza di fatto o di fatti.

Poiché la gioventù esercita su di me grande fascino, il mio interesse scientifico – quello cioè di indagare la gioventù galvanizzandone in me il ricordo (di come poteva essere ad esempio accarezzare una fica diciottenne) – finisce per trascinarmi in situazioni con cui ho poco a che fare. Mi accadde, tempo fa, in certo rave party di sentirmi coinvolto da certo manifesto affisso da puzzoline anarcoidi a mo’ di scenografia, quale recitava all’incirca: I PRESI MALE VERRANNO IMPICCATI. Poiché mi concerneva, in quanto sono raramente felice di essere lì (da zu sein), esso causò in me una certa bua: non ricordavo quest’attitudine conformistica fra i giovani giovani negli anni Dieci, specie negli ambienti più libertari. Ognuno piuttosto pareva portare il suo essere-preso-male-a-modo-suo come un fiore all’occhiello. «Io sono diverso» diceva il giovane della mia leva, giovane negli anni Dieci. Così, tra le sonorità della techno e sollecitato da non so quale sostanza che mi fu gabellata (spacciata) per MDMA, mi accadde di riflettere sul modo tipico di esprimersi dei giovani giovani oggi, che ho imparato a comprendere e mai, fortunatamente, a utilizzare:

Mi pareva che i giovani, anziché malignamente sottilizzare sulle qualità di tale o tal altro compagno non gradito – lodandolo e imbrodandolo o smerdandolo da cima a fondo –, tendessero a tollerare da se stessi e dagli altri una forma di perentorio giudizio categorico e immotivato, giustificato nemmeno da sottintesi: essi dicono bad vibes per chi è sgradito; per chi è gradito good vibes – oh yeah! Questa forma di sensismo esasperato, che sostituisce la pretesa pronunciazione del proprio stato d’animo immediato soggettivo (quasi che i giudizi si potessero piangere o ruttare) all’astuto armamentario giustificativo obiettivo, contrasta però con il terzo principio categorico della comunicazione giovanile: «Io non giudico mai».

Ecco dunque che quando non propriamente di giudizio, almeno di condanna (a impiccagione) pare trattarsi, poiché è evidente che colui che «giudica» può essere solo il preso male. Good or bad pretendono qui di riferirsi a mere impressioni o fantasmi, mentre il giudizio vero e proprio non può sottrarsi dall’espressione. Ma se il giudizio di valore intimo inizia a cospirare contro il giudizio di valore manifesto, come può salvarsi il valore di cui si dovrebbe giudicare? Va da sé che le «malevole e cospiranti» elucubrazioni scientifiche, i giudizi non-di-valore, finiranno sempre, loro malgrado, a implicare un giudizio di valore. Ma se il giudizio di valore schietto, amorfo, privo di decisione, finisse per intendere se stesso non più (soltanto) come un giudizio di valore, ma, contro ogni forma di arbitrio, addirittura come giudizio non-di-valore, come giudizio obiettivo?

Questo non-giudizio si differenzia dal giudizio tribale (che è scientifico) in quanto è muto: proibendosi il giudizio di che cosa sia causa di good o bad vibes, e di perché lo sia, perché i perché equivarrebbero a «giudicare», i giovani fanno le veci di un conformismo opprimente, che portano come una museruola. Questa forma di ingenuo empirismo avvelena, diserba la facoltà di scelta e impedisce ai giovani di dare forma alla propria persona, poiché dando forma alla propria persona si unirebbero ai presi male che giudicano. Così essi sviluppano la «bua», entrano in bua.

Non è un caso che lo sviluppo di questo conformismo stringente coincida con l’insorgenza dei più sfigati moti collettivi di rivendicazione del cazzo, che sottintendono sempre dove il bene stia e cioè dalla loro parte, che dicono: «Come on, preso-male, come on…» – ma «venir via» verso dove? La rivoluzione infatti è la sostanza dell’individualità, quando quest’ultima viene definitivamente tabuizzata, ne risultano i «microsocialismi» del cazzo. I microsocialismi (del cazzo) possono dunque essere definiti come moti associativi di presi bene, il cui compito primario sarà quello di portare i presi male sulla buona strada (verso la forca) e questo senza esserne in alcun modo titolati. In quanto è evidente come i sentimenti sperimentati svaniscano al cospetto di quelli rappresentati, il sensismo di cui sopra non è altro che un losco espediente per lenire la bua: come può il nostro buon gusto infatti tollerare le fossette uncinate, la gentilezza appiccicosa, il mieloso e fumante letame che i presi bene per partito preso, ossia la moltitudine (di giovani) con la bua, ci riversano addosso come metro di convivenza pacifica! Se lo tolleriamo è perché appunto dobbiamo farlo, perché siamo stati contagiati dalla bua.

Così mi ritrovo ad aggregarmi fra puzzoline anarcoidi in limacciosi angoli di foresta su musica da africani e tamburi bonghi tam-tam perché la mia solitudine non mi basta più, e per non sentire la bua a rammemorare e ruminare memorie di gioventù quando già un tempo non mi pareva che essere lì fosse il mio ruolo e men che meno il mio posto. Eppure allora non me lo sognavo nemmeno di mentire. Se fin qui mi si è capito, si ammetterà che per abbandonare questa benedetta gioventù, per guarire, occorre accettare che l’unica forma di convivenza pacifica è quella fra presi male. Avrò raggiunto il mio scopo se poi qualcuno dovesse dalla lettura di questo mio pensiero essersi sentito ringiovanito.

Alessandro Chiappini

Nato e cresciuto a Locarno, si laurea a Friburgo (CH) in filosofia e musicologia. Con un trascorso conservatoriale, è pianista e supplente di musica a tempo perso. Realizza cortometraggi con Metadone Produzioni. Dopo una fase di attività poetica, si dedica ora appassionatamente alla prosa.

Indietro
Indietro

L’Art brut e il movimento della vera arte

Avanti
Avanti

Meglio morire di vodka che di tedio