Orione: immagini della creazione

Frame 01 de Orione. Dialogo sulla creazione tra serial silence-killers, Italia, 2023, HD, 7’, b/n e col.

Esplorando l’inconscio della creazione e la nascita dell’espressione, la conversazione tra Riccardo Lazzarato e Niccolò Buttigliero affronta le riflessioni presenti in Orione. Dialogo sulla creazione tra serial silence-killers (2023). Il film si fa pretesto per un’interrogazione sulla delicata posizione della forma: tra violenza e silenzio, un minimo di desiderio.

Riccardo Lazzarato: Ciao Niccolò. Colpiti dalla tua ultima fatica, abbiamo sentito l'esigenza di intavolare una chiacchierata con te. Qui la prima provocazione che lanciamo:

Buio. Silenzio. Il primo emergere di qualcosa sembra frutto di un atto di mutilazione - la creazione innanzitutto come atto di distruzione almeno parziale: "prova a strapparti le orecchie" e di qui il suono. E poi la parola a riempire il silenzio, il gesto a rischiarare il buio.
Non si fa l'assoluto con un colpo di pistola strillava Hegel ai suoi ormai ex compari di studio, Schelling e Holderlin. Il tuo "Orione. Dialogo sulla creazione tra serial silence-killers" pare rispondere all'avvertimento hegeliano con una cosmogonia fatta a suon di pistolettate, dove la creazione passa dalle pallottole implose di due demiurghi antropomorfi. Ci racconti un po' della genesi di questa tua ultima fatica?

Niccolò Buttigliero: Ciao Riccardo, mi fa molto piacere questo scambio.

Cominciamo.

Dire, mostrare qualcosa - qualsiasi cosa - è un atto di violenza. Nei confronti del silenzio e del buio, come nei confronti di tutte quelle compossibilità che convivono al livello di potenziale inespresso, e che, una volta attualizzatasi l'espressione, vengono uccise, scartate. Sotto le mentite spoglie di un atto creazionistico, Orione vorrebbe descrivere le pulsioni alla base di ogni atto creativo: da una parte il rispetto sacrale verso l'immacolato nulla, dall'altra il desiderio delittuoso di sporcare la pagina bianca, di imporre su di essa la propria voce individuale. Il personaggio interpretato da Letizia (Alaide Russo) "buca" l'infinità del cielo notturno con un colpo di pistola, creando stelle. Zone pulsanti di luce, punti di interesse che guidano lo sguardo, lo costringono a un percorso univoco che nega la libertà di vagabondaggio garantita da un buio privo di strettoie e percorsi. Tutti uccidiamo quotidianamente il silenzio. Un artista dovrebbe forse però introiettare nella sua violenza espressiva il rispetto per il nulla di fatto. Allora si potrebbe parlare di "silence-killers" professionisti, con tanto di ritualistica o laica deontologia.

Frame 02

RL: In ogni atto di creazione sembrano nascondersi due pulsioni uguali e contrarie: espressione e oblio, necessità di far vivere e morte che pervade la produzione. Ma l’opera, allora, non diventa un semplice resto, il residuo di questa contraddizione; la traccia o il segno di quell'atto autolesionistico da cui si origina? 

NB: Penso che un'opera nasca effettivamente dal rapporto dialettico tra queste pulsioni, e allo stesso tempo quasi sempre si emancipi dal divenirne mera traccia. L'opera sicuramente testimonia di quell'atto autolesionistico da cui ha origine, essendone filiazione, ma rarissimamente si esaurisce in questo. Non è residuo, scoria, quanto prodotto. È una ferita generativa.

È però indubbiamente di grande interesse osservare quelle opere che formalizzano, indagano - più o meno consapevolmente - il rapporto tra silenzio e parola (in senso extra-linguistico), e che finiscono quindi per rappresentare proprio la dialettica fondativa dell'espressione. Penso ad esempio alla pittura "one corner", in cui le (poche) forme tracciate trascendono la loro funzione referenziale per far palpitare il vuoto; penso al cinema di Antonioni (e a Zabriskie Point su tutto).

Si può paradossalmente scegliere di esprimersi proprio con la finalità di ripristinare il silenzio, data la nostra impossibilità a farne esperienza se non concettualmente - laddove formalizzare equivale a concettualizzare. Amo i momenti in cui un film si auto-cancella proponendo "anti-immagini". Il buio de Il cavallo di Torino di Béla Tarr, il bianco accecato di certo cinema di Carmelo Bene (Salomé, Un Amleto di meno). In Orione ho ricercato proprio questo: si passa dal buio alla luce bruciante. Un'oscillazione tra entropia e ridondanza, durante la quale si esaurisce lo spazio vitale dell'espressione.

Ma Yuan, Pescatore solitario sul fiume in inverno, 1195, particolare di cartiglio verticale, inchiostro su seta, 141 × 36  cm, Museo Nazionale di Tokyo

RL: A questo punto diventa interessante approfondire un plesso del discorso che sembra fare da ritornello al tuo modo di intendere l'opera d'arte e il ruolo dell'artista.

In che modo l'artista potrebbe mai portare rispetto al nulla se, di fatto, ogni sua parola lo vìola e ogni suo gesto squarcia la tenebra? Come si articola questa deontologia dell'artista? Cosa significa “rispettare” il silenzio a cui lo sparo di Letizia è indirizzato? Provocatoriamente ti chiedo se questa deontologia non rischi di limitare l'arte ad un espressione in cui il venire alla luce è sempre e solo un rimando al buio che essa ha squarciato, in cui ogni parola vuole millantare il silenzio in cui ha risuonato? Rispettare il silenzio significherebbe anelare continuamente ad un suo ripristino?

NB: Penso sia inevitabile innestare la nostra conversazione in una consapevolezza radicale, che connota di un certo pessimismo ogni sua battuta: il silenzio è inesperibile. Ogni nostro atto è il proseguimento della sua infinita violazione, ogni nostro pensiero la testimonianza della sua impensabilità. Non è che il buio abbia un qualche valore sacrale, virgineo, legato alla sua purezza. Forse anche questo, sì, è quello che perdiamo ad ogni fiat lux. Ma ciò che veramente si dissipa è la potenza della compossibilità, il pre-individuale. L'aurtaudiana "Parola di prima delle parole", quello «stato intensivo in cui l’energia, non ancora rappresa in forme, pulsa nel suo battito primo», «al di là [e al di qua] dei codici della rappresentazione» (M. Grande, in C. Bene, Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, p. 111).

Oltre la violenza quotidiana della dissipazione semplice, disorganizzata, immagino l'espressione artistica come una violenza sacrificale, che - conscia della sua inevitabilità - formalizza il suo rapporto con ciò che non può che uccidere. Non necessariamente mirando a un impossibile ripristino del silenzio, ma pesando ogni suo gesto espressivo come una coltellata, ogni suo esito come una ferita profonda. All'interno della compossibilità si esplica una lotta tra potenze espressive, da cui emerge l'individualità. Forma insanguinata, tagliente.

Non vedo il rapporto tra silenzio e parola come un equilibrio armonico, ma come uno scontro. Se da un lato il rischio è l'effusione indiscriminata della ridondanza, il proliferare di una violenza formale indiscriminata, dall'altro c'è la voragine di un idealizzato silenzio, che assorbe sul nascere o svaluta ogni impulso espressivo. È lo stato problematico, sterile, che giustamente descrivi nella tua domanda. Un nichilismo della forma, che nega la lotta, nella venerazione metafisica dell'anti-esperienziale.

Tentare di rappresentare il silenzio inteso come compossibilità energetica, potenza pre-rappresentativa è però diverso da venerare il buio. Avvicinarsi all'informe può paradossalmente risolversi in un testing dei limiti della forma, della sua potenza al confine con la sua dissoluzione.

Non penso ci sia una risoluzione ultima a questo scontro. Esisterebbe altrimenti il capolavoro definitivo, che risolve e chiarisce il rapporto tra parole e Parola di prima delle parole. Orione, che tenta di rappresentare la tensione di cui discutiamo, descrive un loop: dal buio emerge la forma, che si spinge al limite della sua possibilità tramutandosi in luce accecante, un buio rovesciato. Per poi ricominciare. La ritualistica avrebbe quindi una funzione regolatrice, che si arrende in principio all'inevitabilità circolare dell'uccisione.

RL: Perché hai scelto proprio Orione per il titolo del tuo film? E perché il mezzo filmico ti è sembrato il più adeguato per restituire le pulsioni che soggiaciono ad ogni opera d'arte? 

NB: Sulla figura mitologica di Orione ho cercato di leggere un po' di cose, affrontandole tutte con una quantità tale di preconcetti e previsualizzazioni che mi hanno concesso la grazia di rimanere ignorante quanto ero in partenza. Sulle costellazioni non so nulla. Diciamo che è un titolo che ho ereditato da una ormai sfumata velleità di approfondimento su mito e astrologia, vanificata sul nascere da pensieri così infantili e fantasiosi che faccio fatica a recuperare e tradurre in parole.

Riguardo al mezzo, non è che abbia molta scelta. È quello che cerco di affinare, in cui spontaneamente traduco le idee visive. Del cinema è per me molto importante la capacità di creare atmosfera. Al di là di (miei) sproloqui teorici, abbiamo lavorato tanto sulla creazione di un sensorio connotato da freddezza, metallicità. In questo l'immagine va di pari passo con il suono. L'idea era di rarefare il più possibile il linguaggio: ridurre l'aspect ratio a un 1:1, un quadrato che prima di assecondare le forme che abitano l'inquadratura è di per sé geometricamente perfetto, asettico; abbassare il frame rate a 16; lasciare una lunga porzione di nero e silenzio, facendo nascere gradualmente l'immagine. Diciamo anche che un'arte del tempo consente di sviluppare una forma espressiva diacronicamente cangiante, e in questo caso di mostrare per gradi l'uccisione del silenzio.

Riguardo l'atmosfera, la sensazione generale che mi interessava veicolare era quella di uno spazio liminale proprio del corpo, di quando ci sentiamo freddi, fragili, ma anche ipersensibili agli stimoli esterni e quindi estremamente ricettivi. C'è per me qualcosa di ospedaliero, chirurgico legato all'affiorare di una forma dal buio, alla possibilità di recepirla a piena potenza.

Frame 03

RL: Orione è la messa in scena di ciò che possiamo fare del nulla: custodirlo o violarlo. Se è vero che un tale out-out soggiace ad ogni opera d'arte, anche nel caso del tuo film ti sarai trovato di fronte questo bivio. Letizia sembra creare una stella in risposta alla sua solitudine, la necessità di violare quel nulla mostra l'impossibilità di bastare a se stessa: stufa di specchiarsi in chi le ricorda continuamente di sé deve creare qualcosa di diverso, di profondamente altro. La sua volontà creatrice non è totalmente libera, rimanenedo legata indissolubilmente a questa necessità che la sovrasta. Ti capita la stessa cosa con i tuoi film? Che tipo di rapporto intrattieni con il tuo processo creativo?

NB: La tua osservazione è lucidissima. L'impulso creativo/creazionistico descritto in Orione è rivestito di una grandezza metafisica che non gli appartiene, essendo esso piuttosto riconducibile a ragioni umane (troppo umane), a una fisiologia dell'anima. Su tutto, la solitudine, la conseguente necessità di farsi schiacciare da qualcosa di più grande di se stessi. Per me fare film, per quanto piccoli, equivale a costruirmi una personale pedagogia della fine: impegnarmi a erigere qualcosa che mi sfugge e mi sovrasta, e mi trascina verso di sé. È un impasto di velleità suicide e di sinceri afflati creativi. Questa polarità non intendo risolverla, perché è essa stessa una forza motrice che - quando va bene - mi concede di dimenticarmi di me stesso.

«Scaduto il fervore di una monomania, manca un'idea centrale che dia significato agli sparsi momenti interiori. Insomma, più l'animo è assorto in un umore dominante, più il paesaggio interiore si arricchisce e svaria.

Bisogna cercare una cosa sola, per trovarne molte»

-Cesare Pavese, Il mestiere di vivere

L'idea ossessiva dell'opera d'arte è anche questo: il fervore monomaniacale, l'umore dominante, quella "cosa sola" che trasfigura tutto ciò che la circonda per nutrirsene. Incluso il soggetto.


RL: Tiriamo ora le fila del discorso, concludiamo. Vogliamo provocarti sull'ultimo (il primo?) aspetto che riguarda l'opera d'arte: la forma, il suo fine, la sua fine. Dopo il processo, dopo la formazione, il design e la Gestaltung, con tutto ciò che concerne il movimento di creazione, cosa dire del fatto, dell’opera nella sua compiutezza unitaria? Qual è il soffio che dà unità all'assemblaggio degli elementi, al formarsi della composizione? Cosa significa per te, all'interno della tua produzione e della tua ricerca, concludere, compiere quell’atto attraverso cui si era aperto il divenire della forma?

NB: C'è nel filmmaking un dato materiale che costringe alla conclusione. La fine delle riprese, la fine dei soldi, l'aver sondato tutti i possibili assemblaggi in fase di montaggio. Concludere per me è un'azione puramente operativa.

Significa anche però lasciarsi alle spalle un'idea e il territorio che quest'idea consentiva di esplorare, ed è qui che risiede la componente più malinconica del concludere "cinematografico". Difficilmente si tornerà in futuro su un soggetto troppo simile a un soggetto passato, perché ripetersi è così sconveniente da essere impossibile.

Mi rendo conto, quando scrivo quel poco che scrivo, di rimaneggiare idee che mi abitano il cervello da anni. Di averle assemblate e riassemblate a lungo, fino a quando non hanno assunto un aspetto armonico, fluido, che mi consente di convertirle in sceneggiatura. È forse in quel momento che sento di concludere qualcosa, di sigillare in una forma chiusa una figura spettrale, che ha assunto fino a quel momento i contorni più disparati. Uccisa la metamorficità dell'idea, la si può mostrare ad altrə. Imbalsamata in uno dei suoi possibili aspetti.

Frame 04

Riccardo Lazzarato

Nato a Torino, si laurea in filosofia con una tesi sul concetto di immagine. La sua ricerca esplora le connessioni tra filosofia, tecnologia e cultura audiovisiva nel panorama dell’estetica contemporanea.

Indietro
Indietro

La memoria di un unico odore

Avanti
Avanti

La visione che fa il ritorno