Gesti, corpi e resistenza: Il cinema di Buster Keaton

Il cinema è il luogo di una triplice alleanza che si fonda su un nodo di movimento. Corpo, gesto, resistenza sono gli assi portanti che si slanciano e si attorcigliano a partire da un unico spostamento: il concatenamento. In fondo, non senza qualche indebito incastro, l’acuta tesi di Gianluca Solla in Buster Keaton (Orthotes, 2016) è così riassumibile.

La rapida sequela di immagini legate l’un l’altra dalla cesura che le separa costituisce un concatenamento, vero protagonista di questo volume per una duplice ragione. Innanzitutto esso è ciò che porta su di sé il peso del cinema in quanto tale, al di là che esso sia il comico di Buster Keaton o di Charlie Chaplin, muto o sonoro. Il concatenamento sembra essere la conditio sine qua non di ogni buon cinema: «Grado zero dell’esperienza cinematografica: non la storia, non la narrazione, la trama “fanno” il film, ma la sequenza che sperimenta senza fine composizioni, scomposizioni e ricomposizioni di corpi e oggetti» (p.177). Ma è anche per una ragione tutta interna alla logica di questa monografia che segnaliamo il concatenamento come il principio basilare della funzione BK. Certo, questo volume è costruito come un unicum segmentato: diviso in diciassette capitoli non sembra presentare grossi salti concettuali. Tuttavia, è nel parere di chi scrive, che vi siano tre nuclei tematici (quasi) ben distinti. Essi sono legati consequenzialmente dalla scrittura, ma questa non è mai del tutto lineare per il lettore attento: il gesto di Solla è esso stesso un concatenamento concettuale. Ogni punto della traiettoria non causa nulla, insiste piuttosto su stesso, fino a sprofondare nel successivo step. La successione simmetrica è un apparenza falsata, equivoca la vera natura del saggio. È interessante qui distinguere la prima lettura dalla seconda. Ad un primo impatto il saggio è veramente completo, impossibile da spezzarsi, lascia l’impressione di una nave che lenta lascia gli ormeggi. Ma è chiaro, per il lettore allenato alla filosofia, che vi sono dei salti invisibili. Voltiamo qualche pagina e, senza renderci conto, ci troviamo immersi in tutt’altro punto. È in fondo questo il funzionamento stesso del concatenamento cinematografico (Keaton) e filosofico (Solla): un susseguirsi di immagini (o concetti), il quale produce ciò in cui si esprime – un legame originale, eppure inevitabile, segnato più dai tagli che dalle connessioni vere e proprie. Non vi è ragione nella connessione fintanto che la connessione stessa non si dà, producendo così la sua ragione.

Cerchiamo però ora, punto per punto, caduta per caduta, di vedere un po’ meglio cosa accade nel cinema filosofico di Keaton. Tutto ha infatti inizio con il corpo e il suo rapporto con lo spazio: «Il mondo ha là, nel corpo, la superficie della sua apparizione […] non è dunque la figura ad attraversare lo spazio, ma sono lo spazio – e le forze che lo abitano [o, diremmo noi, che lo costituiscono] – che attraversano il corpo [...] il corpo qui è come un sismografo» (p.29). In questo passaggio si mettono a punto alcuni punti fondamentali dell’opera di Keaton. Lo spazio che viene letteralmente attraversato dalla figura, attraverso il movimento che nel cinema muto rimane l’unica reale possibilità espressiva, in qualche modo è anche ciò che attraversa la figura e che non ha altro modo che il corpo per apparire. C’è una duplicità intrinseca: dal corpo allo spazio, dallo spazio al corpo. Ma c’è anche un baratro che li separa. Essi sono costitutivamente differenti, divergono non solo per la comune rappresentazione che se ne può avere – scatola e contenuto – ma anche per una ragione meno evidente. Con una formula un po’ icastica potremmo dire: lo spazio funziona, il corpo no. Questa tesi la ritroviamo un po’ ovunque nel libro di Solla. Il corpo è l’inciampo, l’intoppo, ciò che letteralmente non va liscio, ciò che scombina – e la cui sproporzione rispetto a ciò che lo circonda provoca per l’appunto il comico. È nel rapporto tra i corpi e la città che questa sproporzione viene esemplificata al meglio nel cinema di Keaton: «Alla tecnica delle linee rette si contrappone una poetica del corpo umano che è una poetica della deviazione» (p.39). Ovvero, il corpo è ciò che rompe l’abitudine inconsapevole e meccanizzata della città, la quale si rivela, in fondo, statica: «nessun tragitto: solo traffico, percorrenze, pendolarismi» (p.40). Il corpo, sempre fuori tempo, di Keaton è ciò che nella sequela fin troppo regolare della città provoca un movimento letteralmente estraneo, che chiama una vita non ancora incastrata nel flusso regolare, ma capace di creare una novità estrema. Lì, nel corpo che si muove sullo schermo, si mette in crisi ad un tempo il concetto di un agente consapevole come quello di un agente inconsapevole. Per dimostrare questa completa atipicità del pensiero dei corpi di Keaton, Solla si appella al concetto di gesto.

Che cos’è un gesto? «Il gesto è il movimento minimo ed inapparente che introduce nel contesto in cui sorge una differenza che, per piccola che sia, resta nondimeno irriducibile alla misura, aprendo a quella sproporzione che è del comico» (p.63). Il gesto è ciò che propriamente nel corpo non è mai prevedibile, il resto del sismografo di cui si diceva poco fa. Esso rappresenta il punto di rottura, l’intervallo, tra le forze del fuori e le forze del dentro. Il gesto sembra rivelare la sua differenza fondamentale dall’abitudine (semplice ricezione passiva di una forza esterna consolidata) nel cedimento della servibilità degli utensili. Lo strumento che perde il suo senso, la sua direzione connaturata, è un’immagine di Keaton molto cara a Solla. Appare infatti almeno due volte, la prima è proprio nel contesto di concettualizzazione del gesto: «In generale è l’utensilità delle cose ad andare in rovina. Cessano di essere utensili, cessano anche di essere utili: là dove il tempo è il contrattempo, là dove il tempo è taglio, cesura, interruzione, non offrono più una riserva indefinitamente disponibile all’uso e allo sfruttamento da parte degli uomini» (p.70). Ma, a testimonianza della natura disorientante del gesto, è anche molto più tardi nel testo che riappare questa sostanziale opposizione degli utensili. Tale inutizzabilità di ciò che si dà, in primo luogo e per lo più, come ciò che è da utilizzare, è frutto di un movimento tutto interno agli oggetti. La comicità, il gesto comico di Keaton, risulta così essere la denaturalizzazione dell’uso degli oggetti, la creazione di uno scarto insuperabile tra l’uso e ciò che è usato: «L’operazione comica s’inserisce proprio qui, nell’emancipare gli oggetti dall’occupazione che la nostra società ha eretto a suo feticcio mediante il senso che essa attribuisce, per lo più del tutto surretiziamente, agli oggetti» (p.168). Cinema dei corpi, cinema dei gesti, cinema delle cose.

E qui le cose fungono da sorgente di resistenza, ecco il terzo punto. O meglio: corpi, cose e gesti sono forme di un’originaria resistenza. Essa co-abita l’attore, lo spettatore, il cineasta; ma loro letteralmente non lo sanno. Nel libro di Solla torna infatti più volte menzionato un fantasma che accompagna ma non appare, definito costantemente come ciò di cui non si può sapere nulla. Esso è inappropriabile, non può essere conosciuto o saputo, al massimo solo pensato, ma sempre e solo nella pratica e nel movimento, mai teoreticamente: «Occorre essere funamboli, danzare, cadere: solo il corpo pensa ciò che vive» (p.178). La fonte delle resistenza, una vita mai vista prima, viene vissuta per la prima volta (anche) nel concatenamento cinematografico. Una sorgente che vive e si protrae nello scarto tra l’attore e se stesso, tra il gesto corporeo e lo spazio, tra lo schermo e lo spettatore. Una sorgente che non si esaurisce mai nella sua cristallizzata abitudine, nella ripetizione. E in fondo, ciò che fa di Buster Keaton BK, la funzione così ben descritta da Gianluca Solla, è proprio lo sgorgare incessante della resistenza, sia essa rivolta alla “Polizia” del capitolo sesto o alla città di Hard Luck:

A far ridere è quel particolare, quell’insistenza di un dettaglio infimo, quel tic in cui, con più evidenza che altrove, si rivela la non coincidenza di una vita con se stessa. Quel particolare, che è tanta parte della sua vita, gli si sottrae alla vista: non ne sa nulla, alla lettera. Là è il punto in cui è ostaggio della propria corporeità, ma è anche il punto in cui ci è sottratta qualsiasi visuale su noi stessi. Non siamo mai tanto presenti alla nostra esistenza che là dove la manchiamo. (Su di essa non regna nessun nome tutelare. Là una vita è lasciata a se stessa, abbandonata, forse libera da sé per la prima volta) (p.107).

Simone Raviola

Ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige il collettivo e rivista sovrapposizioni. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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