Le avventure del principe Achmed – Cinema-ombra

Quello di Lotte Reiniger nel suo Le avventure del principe Achmed è, sinteticamente, cinema. Cinema in un senso profondo, non tanto abissale da scandagliare l’ontologia del proprio linguaggio, ma comunque capace di esibire e conseguentemente dilaniare la propria forma esoscheletrica prediletta, in cui esso giornalmente si incarna per manifestarsi: una movente bidimensionalità. Quella stessa bidimensionalità a cui il pensiero inevitabilmente rimanda ogniqualvolta la parola “film” viene pronunciata, scritta, letta, inavvertitamente ascoltata, e che del “cinema” ci fornisce solo un’immagine incompleta, un frammento del possibile ancora sommerso. Per Bazin e  Pasolini, entrambi convinti professatori del Cinema come di un calco del Reale, il cinema può essere (anche) altro, di più. Può sognare la tridimensionalità, ambire alla carne e alla sua penta-sensorialità (un utopico “calco totale”): il Reale in ogni sua diramazione conosciuta. Adottando quest’angolo visuale, quello che ancora oggi ci troviamo ad osservare non è altro che un embrione, al quale tutt’al più vengono somministrati potenti steroidi che, viceversa, hanno sullo spettatore un effetto narcotizzante.

Parallelamente, il processo di graficizzazione della kinesis (l’etimo stesso di cinematografia) solo per consolidata convenzione e comodità (tecnologica) prende corpo nella bi-sensorialità audiovisiva. Potrebbe avvenire in altre forme, il movimento non è certo prerogativa del visuale, ma è anzi comune a ogni aspetto del vitale. Proprio in questa sua caratteristica ontologica risiederebbe eventualmente la capacità di scandaglio del Reale nella sua totalità propria del cinema. Ciò non vuol significare che la tipologia di immagine attualmente impiegata non sia adatta, ma solo che sia una delle tipologie possibili.

L’Achmed, con poetica inconsapevolezza, gioca proprio sulla piattezza, su quella –ancora una volta- bidimensionalità che non può che limitare l’avvento del calco baziniano nella sua forma definitiva. Quello della regista è un cinema-pellicola, frutto di un processo creativo che investe con forza non già la pellicola-celluloide (il corpo effettivo, organico, sul quale si accanirà Brakhage) ma l’inquadratura (il corpo fruitivo) in quanto immagine-pellicola, patina superficiale. Quello della Reiniger è un film, letteralmente, di silhouettes. Sagome nere stagliantisi su fondali monocromi: non c’è profondità, non c’è organizzazione prospettica. Non c’è pretesa prospettica: è assente ogni aspetto volto alla mistificazione di lunghezza e larghezza volto all’evocazione di una assente e necessariamente impossibile profondità. Salvo alcuni scorci memori della figuratività medievale, il cui impiego, anziché smentire, suffraga quanto esposto.

Quanto seminale in Reiniger (seminale poichè incosciente, primitivo/primordiale) troverà più ampio respiro in Kubrick e, poniamo, nel Jankovics di Feherlofia. Due cineasti consapevoli della natura “pellicolare” dell’inquadratura, e che proprio in seno al frame in quanto stringente necessità inscriveranno le loro operazioni compositive, giustificandone esteticamente la rigidità. Il cinema dei due autori ragionerà sul frame intendendolo non come gabbia escludente di uno spazio più ampio (il che farebbe del cinema un eterno decadrage), ma come garante di uno spazio eternamente eidetico, come elemento ordinatore con il quale convivere armonicamente. Non c’è spazio, in Feherlofia o in Barry Lyndon, per il fuori campo.  Quanto visibile corrisponde con quanto esistente, necessario. Inutile dire che la plasticità che l’animazione consente (Feherlofia), oltrechè –superficialmente- agevolare, drasticizza l’operazione descritta: non a caso uno dei più grandi momenti del cinema d’animazione trova il suo spazio proprio nello “stargate” di Odissea.

Ma, ritengo, non è l’aspetto compositivo quello su cui l’impianto visivo di Achmed agisce con più forza. Sarebbe, per meglio dire, quello “meta-compositivo”. Reiniger ragiona, volente o meno (e allora sarebbe l’opera a ragionare per lei), sulla categoria fruitiva a priori che la silhouette evoca. Figura riassumente il postulato per cui “ogni forma è idea di forma”. Postulato che consente a una chiazza nera di essere riconoscibile come principe, mentre a un’altra come Aladino. Paradosso ovviamente applicabile a ogni figuratività, ma che la silhouette indubbiamente enfatizza, evidenzia con forza. Reiterando il ragionamento iniziale, e ad esso riallacciandoci, Le avventure del principe Achmed è una scarnificazione non del corporale (la celluloide di Brakhage) ma del fruitivo: l’arbitrarietà divenuta convenzione per cui un’ombra pellicolare, se opportunamente segmentata, può non soltanto evocare, ma addirittura figurare. Senza che nessuno, nell’atto fruitivo, abbia da ridire: l’intellegibilità, per virtù di quella stessa convenzione, non è mai a rischio.

Ma proviamo ad andare oltre. Cosa succede quanto queste “ombre pellicolari”, agendo in un spazio che assume attributi di tridimensionalità solo qualora loro convenga, entrano in relazione le une con le altre? Quando due personaggi si toccano per mano, quando un corpo umano si adagia sul tronco di un albero, corpo silvestre, quali le conseguenze? Ammettendo, per sana imbecillità, che l’immagine qui sotto riportata sia un principe, cosa succede se questo stesso principe dovesse salire a cavallo?

Diverrebbe, come visibile, un uomo-cavallo. Un’impossibile chimera, al limite del decifrabile. Se non ci fosse la convenzione fruitiva a salvarci (a obnubilarci), se quel velo lo lacerassimo, capiremmo che sempre, davanti a un “film” (qui nell’accezione convenzionale), accettiamo un paradosso spaziale ancor prima che, poniamo, narrativo (l’insensatezza spesso lamentata di intrecci non verosimili).

Ed è proprio insistendo su questa corporeità dell’immagine filmica che Achmed crea potentissimi chimere eidetico-poetiche, potenziate a venire da un degno erede come Feherlofia. Chimere che si creano con una spontaneità abbacinante, complice anche la costante bicromia dell’opera. Il minimalismo di Achmed ha dunque la lungimiranza di slanciarsi con forza in due direzioni opposte, in una drastica contraddizione interna: da un lato la denuncia dell’insensatezza del postulato fruitivo prima enunciato, dall’altro l’utilizzo di tale postulato come trampolino per la creazione di immagini “maravigliose”, accettabili di buon grado proprio perché su quell’apriorismo basano la loro intellegibilità. Nell’attesa che di essere codificate non abbiano più bisogno alcuno.

Niccolò Buttigliero

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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