Il cammino verso la nuova musica di A. Webern

La grossa parte di questo testo (A. Webern, «Il cammino verso la musica nuova», Orthotes, Napoli-Salerno 2020) si occupa di mostrare secondo quale processo di naturale (nel senso di necessariamente conseguente) sviluppo la storia conduca dalla musica degli antichi alla musica nuova (in questo caso la musica dodecafonica), dimostrando così che, tenendo fermo il fatto che alle sue origini la musica fosse mossa dalle stesse forze che la muovono ora (con questo ora mi si conceda la libertà di intendere sia il 1932/3 - anni in cui vennero tenute queste conferenze - sia il 2020) e che, dunque, la musica sia una soltanto, ogni autore ed ogni musica sono contemporanei al loro tempo e che il cammino verso la nuova musica, in quanto tale, non ha conclusione né assoluta né, tanto meno, relativa - mi sembra opportuno ricordare a questo proposito la massima che ispirò l’opera tarda di un autore molto caro a chi scrive, Luigi Nono: “caminantes no hay camino, hay que caminar”. Ma in questa breve presentazione mi preme, piuttosto, esplicitare i fondamenti concettuali, a partire dai quali viene condotta l’indagine, che Webern, come fa con la sua musica, distilla mirabilmente in poche essenzialissime parole.

Il testo viene inaugurato dalla citazione letterale di qualche estratto dall’articolo sulla parola di Karl Kraus, apparso in “Fackel” (n.885/7, 1932). Ciò che emerge da essi è che “il nostro impegno verso il linguaggio e i suoi segreti deve volgere verso un guadagno morale”. Da ciò si deduce, in prima battuta, che il linguaggio (di qualsiasi genere) possieda dei segreti. In quanto tali, ovviamente, non possono essere indicati altrimenti se non con il termine “segreti” (o simili, ad esempio “misteri”), poiché un approfondimento sul loro contenuto, su ciò che è detto essere ignoto, significherebbe portare questo contenuto fuori dal velo di mistero in virtù del quale si identifica come tale. Tuttavia la misteriosità della parola, se non altro, getta luce su una capitale differenza: altro è la parola, altro è il parlare. E se per un verso la parola è ricoperta da infiniti veli di inaccessibilità, per altro verso il suo utilizzo ci è concesso ad un livello di intuitività istintuale senza pari. Questo secondo aspetto, nell’ottica di Kraus (e quindi di Webern), fa sì che colui che impari a parlare possa avvicinarsi al coglimento della forma della parola, cioè di ciò che in essa vi è di estraneo al fine pratico - e, si badi, con ciò non si vuole far riferimento al significante, ma piuttosto alla parola come elemento minimo della struttura del linguaggio, indipendentemente dai suoi riferimenti oggettuali. E, se si parla di struttura, si parla di una complessità costituita da elementi in relazione tra loro; tale relazione, affinché riesca a sussistere-tra una molteplicità eterogenea di elementi, deve costituirsi secondo un principio unificatore e, dunque, in qualche modo, deformante gli elementi tra loro relati - che esternamente alla struttura sono sì in-relazione, in quanto molteplicità di elementi che si dà al coglimento, ma in termini di omogeneità di fini (quand’anche, come nell’arte, il fine non fosse altro che se stessa) non raggiungono il grado di struttura, o complessità, e quindi necessitano di essere in qualche modo deformati nella direzione dell’espropriazione della propria originaria (illusoria) indipendenza. Questa relazione deformante attraverso cui si manifesta la forma della parola (la parola per la parola, come nucleo della struttura-linguaggio) è la relazione di normatività. Kraus dice che alla forma della parola ci si può solo avvicinare, e così, dunque, alla normatività. Cioè, la legge è qualcosa che guida senza che mai si realizzi. La legge incarna il dover-essere, che in quanto dover-essere non può essere-di-fatto. In questo senso si parla di “guadagno morale” in relazione all’impegno verso il linguaggio e i suoi segreti. La morale si occupa di ciò che deve-essere, di ciò, cioè, che non è, ma che è necessario che sia. Il guadagno morale a cui ambiscono questi cicli di conferenze, dunque, è proprio questo: far avvertire la necessità negli oggetti della produzione artistica. Come fare? Portando alla luce quegli aspetti in cui si incarna la normatività-attraverso-cui-si-manifesta-la-forma (che per Kraus era forma della parola, ma per Webern è la composizione come struttura - e uso questo termine affinché al lettore rimanga lucidamente presente il fatto che se si parla di composizione, non si parla di nulla di romanticamente trascendente, ma piuttosto di un compositore che l’ha elaborata, e con esso si parla di arte in quanto arti-ficio e di oggetto d’arte in quanto arte-fatto), la quale, ovviamente, non evoca neanche lontanamente un ipotetico contenuto disvelato del “mistero” di quella sostanza di cui la forma è forma, il non contingente dell’opera d’un uomo, l’immediatezza di un processo svolgentesi nel tempo, l’assoluta astrazione di un atto, quello compositivo, umano (cioè il massimamente concreto, nel senso di “in-relazione-con-altro”).

Ma in che modo la relazione di normatività costituentesi tra gli elementi di una composizione dovrebbe evocare il senso della necessità di quest’ultima in chi la cogliesse? Le leggi che regolano l’esposizione del pensiero musicale evocano una duplice necessità: la prima ovvero quella di esprimere un’idea che non possa essere “detta” se non attraverso suoni; la seconda ovvero quella che regola l’andamento compositivo nei suoi elementi costitutivi (armonici, melodici ecc…). E le due cose sono una. Uno dei propositi di questo testo, infatti, per altro condiviso da tanta produzione artistica e critica non solo musicale del Novecento (vd. ad es. R. Longhi, «Breve ma veridica storia della pittura italiana», Abscondita, Milano 2013, p.15, o A. Schoenberg, «Rapporto con il testo», in «Stile e idea», Feltrinelli, Milano 1980 ecc…), è quello di intendere l’arte come autosufficiente. Essa non abbisogna di immagini fantastiche o sentimentalistiche che riconducano il discorso musicale a una giustificazione esterna del tutto contingente e spesso arbitraria. La musica, come l’arte tutta, basta a se stessa e, se, per un verso, come si è detto, del suo mistero non si può far parola, per altro verso l’insieme di leggi, per mezzo delle quali gli elementi d’uso istintuale (come il suono, o la parola ecc…) sono resi struttura dall’artista, rendono manifesto, oltre che la già citata autosufficienza dell’opera, anche il suo valore intrinseco, extramorale, pronto ad accogliere la patina del tempo che farà dire di lei d’esser capolavoro.

E qui giungo all’ultimo punto. Ho parlato di valore non casualmente. Il valore non risiede in altro rispetto a chi lo attribuisce - e di certo non nella cosa a cui è attribuito. Il valore è sempre valore-per-qualcuno. In questo senso l’opera d’arte può possedere un valore intrinseco, e cioè perché l’opera d’arte è fatta dall’uomo e dall’uomo eredita il valore che l’uomo vuole in essa riconoscere. Webern parafrasa Goethe: «la musica è la natura con le sue leggi in rapporto al senso dell’udito» (p.12), e poco prima «l’uomo è il vaso in cui fluisce ciò che la natura universale vuole esprimere. […] Il nostro compito deve essere quello di rintracciare le leggi (che sono cosa umana, ndr) in base alle quali la natura, dal punto di vista particolare dell’uomo, diviene produttiva» (p. 12). In tutte queste asserzioni emerge chiaramente il punto più significativo del testo e dell’indagine weberniana (e che, anche se ormai a quasi cent’anni, ancora rimane troppo ampiamente inascoltato nei luoghi dell’arte): tutto ciò che si può dire e - come dirà anche poco dopo (vd. conferenza III) - comprendere (nel senso dell’ afferrare come atto che lascia traccia di sé e che dunque non appartiene all’immediato dell’esperienza, vera dimensione del mistero indicibile) dell’arte è solo ciò che le compete in quanto mirabile tecnica agita dall’uomo, che in quanto tale possiede in se stessa gradi di perfezione variabile e, dunque, un valore relativo calcolabile (come dirà Webern, il Parsifal di Wagner rimane un capolavoro della civiltà occidentale con o senza l’approvazione di Nietzsche relativamente alla trama, solo convenzionalmente e contingentemente connessa alla musica). Nel suo mistero l’arte, d’altronde, non è una cosa che si possa dire, ma sono consapevole che dirne l’indincibilità è, a rigor di logica, un dire menzognero. Mi affido dunque a una stella molto più fulgida di quella che impugna ora la penna, Carmelo Bene: non il dire, ma il lasciarsi dire è ciò che deve fare l’artista.

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Teatro, arte e cultura. Intervista a Florinda Cambria