Teatro, arte e cultura. Intervista a Florinda Cambria
Riccardo Lazzarato: Le poniamo oggi una domanda che ha guidato il suo studio su Artaud: che ne è del pensiero, se esso si produce in una scrittura che non intende imitare, ma essere teatro? Chiaramente, non chiediamo una risposta, desideriamo solo ciò che possiamo ottenere, ovvero circoscrivere il campo problematico nello spazio di una suggestione. Questo campo problematico – indicabile come spettacolo integrale forse – in che modo emerge dal rapporto che vige tra corpo e parola?
Florinda Cambria: Non so se quella domanda abbia effettivamente guidato i miei studi dedicati ad Antonin Artaud. Certo, ricordo bene di essermela posta, anzi credo addirittura di averla formulata esplicitamente in un qualche passo del mio primo libro, che si sarebbe intitolato – ma non lo sapevo, mentre lo stavo scrivendo – Corpi all’opera. Teatro e scrittura in Antonin Artaud (Jaca Book, 2001). Sono trascorsi molti anni, ma ancora adesso ho vivida la consapevolezza del fatto che quegli studi e tutte le domande che li nutrirono nacquero da un incontro, anzi da un intreccio di incontri che erano le molteplici facce di uno solo, complesso e poliedrico. Quando dico «incontro» non mi riferisco a nulla di «filantropico» o «rivelativo», ma alla durezza dell’impatto con qualcosa che si frappone e si contrappone, che si para innanzi con la sua solida presenza, mantenendosi a un pelo dallo scontro, alla distanza minima che distingue ancora il trovarsi di fronte a qualcosa dall’impattarlo. È la consistenza materica del pensiero, potrei dire ora, ciò che incontrai. Per una incredibile serie di coincidenze (che non significa casualità), essa mi si fece incontro in occasioni e contesti differenti e pressoché simultanei, proprio nel periodo in cui ero in procinto di portare a termine i miei studi universitari e già avevo deciso che il magistero teoretico di Carlo Sini (con il suo «passaggio all’etica», con il suo «pensiero delle pratiche», con la sua riconduzione genealogica dell’intera logica e metafisica occidentale al corpo e all’uso della scrittura alfabetica) sarebbe stato il quadro di riferimento e il punto di partenza per i miei futuri cammini nella filosofia.
Vi racconto tutto questo perché ciò che poco fa ho chiamato la consistenza materica del pensiero aveva a che fare con l’impossibilità di continuare i miei studi filosofici fingendo di non aver visto e compreso: 1) che i concetti sono solo un modo e un aspetto determinato dell’esperienza di pensiero, una forma particolare del «concepimento» di cui il pensare è capace; 2) che l’esperienza di pensiero è sempre, per così dire, incorporata in «corpi all’opera» determinati (e per corpi intendo anche oggetti, strumenti, supporti ecc., tutti intrecciati e attivamente ingaggiati nel processo del pensare); 3) che l’operare dei corpi nel processo del pensare si fa atto conoscitivo mediante esperienze di rinvio variamente connesse con l’uso di segni; 4) che la trasparenza, l’universalità, la potenza chiarificatrice, il conforto intellettuale, di cui la grande tradizione filosofica del pensare per concetti era stata per me portatrice (credo siano questi, del resto, gli elementi di maggiore seduzione per i quali, da giovani, si sceglie di intraprendere un percorso di studi filosofici), tutto questo – dicevo – poggiava su una sterminata mole di segnetti e di calami e pennini e stili e inchiostri e papiri, pergamene, sete e carte, e su una sterminata mole di mani e polsi e corpi (viventi e non viventi) che li avevano usati e li usavano, che li avevano supportati essendone il supporto.
Ecco, la consapevolezza di questi quattro punti essenziali si riassunse nell’incontro con il lavoro di Antonin Artaud, con la sua pratica del teatro come luogo nel quale le azioni dei corpi sono pensieri in movimento e i pensieri sono corpi che fanno segno, attraversando il processo del significare dal suo momento sorgivo e gestuale alla sua attuazione in blocchi di conoscenza incarnata. Ed è evidente che il teatro, così inteso, non ha più niente a che fare con la dimensione dello spettacolo, nemmeno di quello che potremmo chiamare «spettacolo integrale». Noi siamo abituati ad associare la parola «teatro» alla parola «spettacolo», dando per scontato che l’azione teatrale sia anzitutto qualcosa che si guarda, qualcosa a cui si assiste come «spettatori» appunto. Ma ciò dipende dalla nostra plurimillenaria consuetudine a dare priorità alla dimensione visiva e visibile dell’esperienza (e della conoscenza). In quanto pratica esemplare e collettiva, nella quale si ricordano e si ricostruiscono il movimento sorgivo e i contenuti ogni volta determinati dell’umana conoscenza, in quanto, insomma, prassi antropogenica e movimento sorgivo di ciò che noi chiamiamo «verità» (ma sarebbe meglio usare questa parola al plurale), l’azione teatrale diventa una sorta di laboratorio sperimentale per comprendere il legame tra azione e rappresentazione, tra immediatezza e mediazione, nonché il movimento di emergenza di tale polarità.
In questa prospettiva il tema della scrittura, a cui fate riferimento nella Vostra domanda, e quello della matrice corporea del pensare si saldavano ad un livello molto profondo. Se per «scrittura» intendiamo, in senso generalissimo, l’insieme delle tracce depositate su un supporto e rinvianti a risposte significative entro un qualche contesto operativo, allora un corpo in azione significante è sempre anche un corpo scrittorio. Più che riflettere sul rapporto tra corpo e parola (tema sul quale esiste una sterminata mole di indagini filosofiche dirimenti e chiarificatrici: si trattava solo di studiarle e comprenderne la portata), per me fu problematico e istruttivo affrontare la concreta esperienza di oggetti (pagine scritte, disegni, testimonianze, lacerti di racconti, fotografie ecc.: erano i materiali su cui lavoravo per la mia tesi di laurea dedicata ad Antonin Artaud) che si sottraevano alla mia presa concettuale. Quegli oggetti mi mostravano, al vivo, la dimensione opaca e inafferrabile di un pensiero in azione (quello di Antonin Artaud, nella fattispecie) il quale, sebbene depositatosi nei suoi resti scrittori, non si lasciava trattare propriamente come un «oggetto». Voglio dire che, palesemente, esso agiva su di me mentre io cercavo di agire su di lui, impedendomi di compiere fluidamente il salto in una ermeneutica dei concetti, cioè in una interpretazione dei testi nei modi a cui gli studi filosofici mi avevano addestrata. Mi fu necessario riconoscere di essere io l’oggetto di una manipolazione interpretativa: quegli oggetti, per così dire, mi interpretavano e mi costringevano a interrogarmi su quale fosse l’attore (o l’agente) di quel doppio gioco dalla natura oscuramente ma irrefutabilmente teatrale. Da una parte, allora, quella che prima ho chiamato «la consistenza materica del pensiero» mi si appalesava nella sua insuperabile opacità, dall’altra quella opacità – l’opacità di un corpo in azione rappresentativa – mi imponeva di ripensare alla radice quel che, con una certa leggerezza, avevo inteso fino a lì con la parola «corpo». Dove finiva infatti il corpo di Artaud? Di quale materia era fatto? Dove iniziava il mio? E chi o cosa agiva nel farsi di tutti questi pensieri nella materia di quei corpi in perenne, metamorfica gestazione? Dovevo decidere come corrispondere a queste domande, sicché quello scivolamento della teoretica nell’etica, che tanto mi aveva colpita nell’insegnamento del mio maestro, mi si chiarì in un modo molto concreto e personale.
So benissimo che quest’ordine di discorsi può risultare poco filosofico, mi sono abituata, negli anni, a constatarlo. Ciò che mi sta a cuore è il lavoro di comprensione e trasformazione (per me ancora pienamente filosofico) che dall’incontro con la materia del pensare può nascere. Le conseguenze metafisiche, estetiche, logiche o teatrologiche che ne deriverebbero mi interessano molto meno, invero, perché si tratta di conseguenze seconde e circoscritte di qualcosa che è preliminare e che, per esprimermi in fretta, potrei chiamare il «fare ad arte». Artaud, ad esempio, lo chiamò «teatro della crudeltà».
RL: Emerge in questo suo studio, ma sappiamo che se n’è occupata anche altrove (ad esempio nell’intervento dal titolo “Comporre”), l’urgenza di fare i conti con l’invisibile, con l’enigmatico, per tentare di abitare – o comunque mettersi in cammino verso – quel piano che nel suo libro appare come più-che-realtà (realtà assommata alla propria specifica irrealtà). In che rapporto si trovano il visibile e l’invisibile, il reale e l’irreale (posto che queste due coppie non indichino dei contrari quanto piuttosto facce della stessa medaglia) nell’azione? Potremmo circoscrivere la domanda rispetto alla messa in atto dell’azione in teatro ma sarebbe ridondante rispetto alla precisione con cui ciò viene affrontato nel suo libro. Ci limitiamo qui ad osservare il problema da lontano. La domanda all’interno della quale le chiediamo di muoversi è la seguente: come tenere insieme due cose che sembrano escludersi e in che modo proprio l’opera d’arte potrebbe essere il luogo di questo “tenere insieme”?
FC: È bene precisare che, propriamente, un enigma non è qualcosa di invisibile, ma è appunto una composizione che tiene assieme elementi incompossibili. Diversamente da un indovinello, un enigma non ha da essere sciolto o risolto; esso non ha e non chiede una soluzione, il suo carattere peculiare è proprio l’insolvibilità. È l’irriducibilità alla scomposizione analitica ciò che un enigma realizza e manifesta, e in questa irriducibilità al criterio della «chiarezza e distinzione» o della «non contraddizione» risiede ad un tempo la sua oscurità e la sua efficacia. Sicché, ad esempio, un enigma non è l’unione di visibile e di invisibile perché questi due ordini non sono affatto incompossibili: appartengono al medesimo piano di possibilità in quanto, come tutti i contrari, sono l’uno la condizione dell’altro. Aggiungo che la tendenza ad associare l’«invisibile» all’«irreale» (come en passant mi pare accada anche nella Vostra domanda) deriva dallo stesso pregiudizio sulla priorità della visione a cui facevo cenno poco fa.
Anche realtà e irrealtà sono sullo stesso piano, per lo stesso motivo. Quella che nel libro da Voi ricordato chiamai «più-che-realtà» (rifacendomi a un testo artaudiano degli anni Venti, in cui si accenna a «una realtà più reale della realtà») oggi direi che si riferisca a un piano dell’esperienza ove la distinzione tra reale e irreale non è già data, come non è data la distinzione tra possibile e impossibile o tra potenziale e attuale, per usare solo alcune delle dicotomie a cui siamo normalmente abituati. D’altra parte, queste dicotomie sono sempre l’effetto di una qualche cesura, di un taglio o di una prospettiva che appunto decide – ogni prospettiva lo fa – il suo qui e il suo là. Agire è operare questo taglio. Artaud, in tal senso, è perentorio quando scrive: «Tutto ciò che agisce è crudeltà». Ciò che necessariamente scompare o precipita nello sfondo inafferrabile di ogni azione è allora una dimensione non orientata, non prospettica, il punto cieco della prospettiva, dimensione che delle prospettive è, a posteriori, il presupposto in abstracto. Invero quell’astrattezza con-cresce con le prospettive medesime. Sicché sarebbe più corretto dire, a mio avviso, che solo la loro enigmatica composizione è concreta.
Mi rendo conto che la questione è complessa e mi scuso se, nel contesto di questa intervista, non riesco ad essere più precisa. Ho cercato di esserlo nel saggio a cui fate riferimento nella Vostra domanda (Comporre, in AA.VV., Figure dell’alterità, Inschibboleth, 2019). Una via per farmi meglio intendere è forse questa: esistono modalità di azione che producano l’effetto, non di sprofondare nell’indifferenziato o nel non-mediato che (ripeto: astrattamente e a posteriori) precede ogni mediazione prospettica e ogni differenza (ossia ogni azione), ma di tenere assieme la prospettiva parziale con l’intero, il continuo indiviso e indivisibile di cui essa è parte? Se azioni di tal fatta esistessero, sarebbero veri e propri enigmi: è chiaro infatti che il continuo non può avere parti o prospettive, né tanto meno sommarsi a parti o prospettive. Che significherebbe dunque «tenere assieme» la parte (l’azione determinata) e l’intero, se non comporre degli incompossibili?
Ebbene, a me pare di avere fatto esperienza, in certe occasioni, di azioni di questo genere, nelle quali simultaneamente percepivo il più radicale ed enigmatico degli «et… et», la concretezza più piena, la simultanea presenza di una estrema precisione prospettica e del suo incommensurabile, sulla soglia della loro medesimezza evanescente. Più che un’«opera d’arte», nel senso che attribuiamo per lo più a questa espressione, ho riconosciuto in quelle situazioni una operatività e una efficacia correlata a quel «fare ad arte» cui mi riferivo poco sopra. La questione dell’arte, a questo livello, non ha quasi più niente a che vedere con i temi classici dell’estetica occidentale – e dico «quasi» perché c’è tuttavia una dimensione interstiziale che, anche nell’estetica occidentale, ha tenuto in contatto arte e conoscenza, etica e cosmologia, poiesis e praxis.
RL: Come intendere il termine cultura oggi e in quale accezione deve essere percorsa per provare a costruire, o meglio a coltivare, un modo dell’abitare umano un po’ meno umano? Questa è un’urgenza che non cessa di emergere e non può cessare. Provochiamo così, con questa suggestione, il suo discorso: cosa resta quando ogni cosa è stata già detta? E se nulla resta da dire allora ci chiediamo come fare cultura, cosa resta da fare?
FC: Non mi pare che ogni cosa sia stata detta: si continua a dire infatti. E anche il dire è un fare. La metafora che usate, e che mi è cara, del coltivare è molto eloquente: quando si coltiva la terra si ripetono scrupolosamente certe operazioni, si fa tesoro dell’esperienza propria e altrui, si affrontano gli imprevisti, si vigila, si strappano le erbacce, si eliminano i parassiti e le lumache (se sono troppi e pericolosi per il raccolto), si fatica tutti i giorni secondo l’andamento delle stagioni, e si attende che il lavoro dia i suoi frutti. È fin troppo semplice, descritto così, ma se provaste a coltivare anche solo un piccolo orto vi accorgereste che più o meno è quel che si fa. Chi coltiva non ha il problema di essere originale, ma di produrre quel che serve per vivere. Certo, ci sono sempre degli imprevisti e nella capacità di trovare soluzioni sta il «cervello fino» di cui, come è noto, è dotato, insieme alle scarpe grosse, il contadino.
Non capisco bene cosa intendiate per «modo di abitare umano un po’ meno umano». Forse vi riferite alla vexata quaestio del superamento dell’antropocentrismo, del post-moderno ecc.? Se è così, provo a darvi un rapido riscontro in questi termini: se per antropocentrismo intendiamo una figurazione dell’universo che assuma l’esperienza e le forme della vita umana (e di una certa vita umana) come vertice, centro, unità di misura ecc., tale concezione è già da secoli priva di ogni consistenza. Direi anzi che, al di là della superficie (il «soggettivismo» moderno ecc.), tutta la modernità è il progressivo sgretolamento di questa figurazione. La rivoluzione copernicana, o meglio il pensiero dell’infinito bruniano-spinoziano – per dire in breve – e poi il prospettivismo di Nietzsche hanno, fuor di metafora, tolto la terra sotto ai piedi di qualsivoglia antropocentrismo. Si tratta di ricordarlo e comprenderlo, si tratta insomma di diventare moderni fino in fondo, e per fare questo non occorre agitarsi illudendosi di avere adempiuto l’opera solo perché, al posto di «uomo» o «mediazione», diciamo «natura» o «intuizione». È infatti da umani e in quanto umani che diciamo in un modo o nell’altro e, su questo o quel dire, costruiamo le nostre immagini dell’universo, le direzioni entro le quali agiamo e le verità a cui ci affidiamo. Da questa avventura costruttiva che sempre ci impegna, anche quando ci illudiamo si esser fuori da ogni prospettiva (vecchio sogno – lui sì stancamente «antropocentrico» – dello sguardo panoramico), non si tratta di uscire, diventando magari «un po’ meno umani», ma di prendere slancio. D’altra parte la decisione di scommettere su un po’ più o un po’ meno di umanità, non solo sarebbe comunque una decisione di umani, ma manifesterebbe la infondata presunzione di sapere già e una volta per tutte cosa significhi «umano». Per questa strada, secondo me, non si va da nessuna parte.
Diversa è la portata di ciò che Voi, con precisione, chiamate «un’urgenza che non cessa di emergere»: come abitare il dove nel quale, da umani, ci troviamo? Questa domanda è urgente proprio perché, con essa e in essa, ad emergere è anche, di volta in volta, il senso dell’umanità che costruiamo e diventiamo. Non è già deciso cosa sarà umano e cosa non-umano, per le umanità che verranno, finché ne verranno (questione che è, evidentemente, tanto ecologica quanto sociologica, politica, economica, etica e cosmologica, e che, d’un sol balzo, scavalca e mobilita le competenze disciplinari). La funzione della «cultura», in fondo, è sempre stata questa: lavorare perché quella decisione sia anche, nei limiti del possibile, un raccolto edibile, che serva per vivere, affinché altri continuino a diventare umani.
Oggi più che mai le cose su questo pianeta ci mostrano quanto ottusi siano stati i contadini che hanno dimenticato di essere enigmi, di essere cioè relativi e correlati alla totalità irrelata, e che coltivando la terra coltivavano loro stessi, e viceversa. E che non c’è altro modo per abitare. Questo oblio lo stiamo pagando a caro prezzo, noi e il «dove» planetario che ospitiamo essendone ospitati. Ma almeno cominciamo a vederlo. Cosa resta da fare? – mi chiedete. Tutto. C’è da fare tutto, come sempre, e non si comincia mai da zero ma sempre dai resti di quel che è stato, resti sui quali si poggia precariamente mentre li si dissoda a suon di vanga. Ma dire «tutto» – penserete – è dire niente. Allora dovremo stilare un elenco delle priorità, come un piano di battaglia, ponendoci domande precise e studiando attentamente ogni risposta, mentre la mettiamo all’opera e la incarniamo. Dovremo chiederci di che son fatti i resti che ci restano, dove il terreno sia argilloso e dove sabbioso, quale sia la sua esposizione al sole, quali siano le zone ricche di nutrienti e quali siano (al momento) sterili, di quali fonti di irrigazione disponiamo; e poi vagliar bene la semenza: ce n’é di vecchia, non germinerà più: quella va buttata via, senza tema di spreco; in seguito bisognerà addestrarsi a usare con maestria gli strumenti, scoprendo come essi ci plasmino e, col tempo, ci trasformino: in questa duttilità reciproca sta forse il segreto di un raccolto fruttuoso. Può bastare questo elenco per cominciare a lavorare?