Il metodo e la postura del filosofo
Diciamolo subito questo saggio, dal titolo Bertolt Brecht (Orthotes, 2017), non tratta di Brecht. Non dobbiamo farci trarre in inganno dal fatto che in copertina, vicino al nome dell’autore – Rocco Ronchi – sia presente, come titolo dello scritto, anche il nome e il cognome del teatrante. Quelli di Orthotes sono stati chiari fin da subito, per orientarsi nella lettura di questi saggi, appartenenti alla collana Sillabario, è bene far particolare attenzione alla nota introduttiva che compare nella seconda facciata. L’obbiettivo della collana è facile da enunciare: indagare il presente tentando un esperimento con la verità. Meno evidente, per orecchie poco allenate alla filosofia, potrebbe essere il metodo di questa indagine. Un metodo, quello presentato in questo libricino, che ricalca il metodo stesso del teatro di Brecht: nessuna rappresentazione, non ci si pone di fronte al presente come ad un oggetto esterno a noi, per comprendere il presente in tutta la sua profondità è necessario sondarlo dall’interno. Ecco la direzione principale, ecco l’imperativo che muove gli autori a interrogarsi sul presente a partire da alcuni dei grandi nomi che hanno permesso di generarlo per come si presenta oggi. Lo sforzo richiesto è quello di un corpo a corpo con un pensiero in continua evoluzione, in continuo movimento e in questo flusso i nostri autori trovano e ri-trovano le loro ossessioni, le loro passioni segrete. Queste ossessioni vengono indagate, spogliate e analizzate nei loro punti nevralgici, riuscendo così a mostrare un reale che fatica a trovare il suo posto perché troppo spesso pre-categorizzato prima del tempo, un presente che, tendenzialmente, viene spiegato unicamente guardando all’indietro, retrospettivamente direbbe Bergson. In gioco qui non è solo la possibilità di un presente vivo e vivente ma è in gioco la stessa filosofia e con essa il teatro, vista la comunanza di metodo sottolineata puntualmente in questo saggio. A ben vedere, come afferma Ronchi, riprendendo Lacan, «ciò che funziona è il mondo. Il reale è, invece, ciò che non funziona» (pag. 102). Questo malfunzionamento è il luogo nativo del teatro epico brechtiano: il metodo ideato da Brecht è proprio il tentativo di riflettere, assoluta differenza dallo spiegare, questo inceppo, questo meccanismo che salta. Il teatro si fa specchio del reale, diviene luogo dell’accadere dell’evento. La stessa direzione è intrapresa da buona parte del Novecento filosofico, in modo particolare, ma non unicamente, da quella parte che Ronchi nomina sotto la felice espressione “canone minore” – espressione che concede il titolo al libro in cui si presenta il programma di ricerca che nel 2017, e tutt’ora, appare tra le uscite imperdibili di un’agenda filosofica aggiornata.
Tentiamo allora anche noi un corpo a corpo con questo saggio e proviamo a ripercorrere il percorso che Ronchi lascia apparire dietro la sua analisi del metodo brechtiano. Dobbiamo mettere in luce, anche noi, la peculiarità di questo metodo di un teatro che, oltre che essere definito epico, possiamo intendere come filosofico: non si tenta di dire, di spiegare il reale ma si mette in mostra, si mette in scena un sintomo di esso. La differenza è abissale ed è una differenza di postura, oltre che di natura. Approfondiamo meglio questo aspetto cruciale, qui infatti si gioca tutta la battaglia. Brecht fissa il punto di partenza del suo celebre metodo nella «problematizzazione dell’ovvio e nella conseguente riduzione dell’atteggiamento naturale, vale a dire nella sospensione preliminare di ogni ingenua credenza nella pretesa naturalezza dell’ordine dato» (pag. 10). Quale postura è possibile per chi si affaccia al presente in modo critico, per chi sospende con uno sforzo tutto il complesso di credenze che si ereditano dai nostri educatori? Ovviamente la postura più adatta è quella del personaggio principale di Le storie del signor Keuner, infatti il Brecht-Keuner rigetta l’ovvio che gli viene proposto come tale e si pone criticamente verso di esso. La fase zero della critica non è quella del giudizio ma è, piuttosto, quella relativa alla sospensione del giudizio, ovvero quella dimensione specifica dove assumiamo l’atteggiamento di chi è spaesato, straniato, di chi, come il pensatore, «deve evitare di trovare naturale, in primis, l’enunciazione» (pag. 27, corsivo mio) la quale non può più essere pensata come una comunicazione tra un emittente ed un destinatario. Bisogna ripensare la comunicazione come un assoluto e il teatro epico di Brecht centra la questione, rilevando la conversazione come luogo originario della differenza polemica: il dissidio, il polemos che abita questo luogo permette una creazione continua ed inarrestabile di senso il quale si trova sempre fuori dal detto, perché è ciò che si tenta di dire con esso. Il senso “manca sempre il suo posto”, per usare un’altra espressione cara a Lacan, e per questo motivo l’enunciato che dovrebbe dire questo senso si ritrova ad esser più un suo sintomo, una traccia, che una sua fedele rappresentazione proporzionata.
Come è noto Brecht è stato molto vicino ad ambienti marxisti e per lui la messa in discussione dell’ordine dato aderisce ad una dimensione politica precisa, quella della lotta di classe. D’altronde il suo teatro non vuole essere, come quello borghese, unicamente didattico-espositivo. La questione della didattica è certamente fondamentale, ma dobbiamo tentare di capirci. La sua è una didattica-dialettica, ossia una particolare tipologia di didattica in grado di presentare la contraddizione in seno al reale come motore propulsivo da cui far scaturire il nuovo, un nuovo presente che è tale perché si sta facendo, si sta creando senza sosta. Si chiude l’epoca del teatro pensato come rappresentazione in cui ritrovare i caratteri generali dell’Uomo attraverso cui far riflettere lo spettatore. Brecht mette in scena l’uomo con la “u” minuscola, vuole mettere in scena un presente che sfugge alle maglie stringenti di categorie passate in cui non può essere né pensato, né, tanto meno, interpretato con sufficiente agilità. Per tentare di focalizzare la dialettica che abita il cuore del pensiero e del teatro del teatrante tedesco bisogna pensare a Dialoghi di profughi, dove, come sottolinea Ronchi, «Brecht farà dire a Kalle che la miglior scuola di dialettica è l’emigrazione» (pag. 35). La contraddizione che emergere dall’atteggiamento dell’ospite estraneo, del migrante possiamo riscontrarla nel venir meno del normale procedere della comunicazione, dove si arresta il dire, e dove si paralizza il percorso di una enunciazione, forzandola così a tornare su sé stessa. Questa operazione di riflessività rende possibile citare il comportamento, lo fa emergere come dimensione originaria della comunicazione – come ben sa chi è abituato a viaggiare in parti del mondo dove non conosce la lingua, spesso il comportamento, nel senso di gestualità, è l’unica fonte comunicativa possibile. L’unica didattica possibile è quella dove si tenta di ostentare il senso nella sua dimensione problematica, in qualche modo contraddittoria, e quindi reale. Una contraddizione che, seguendo gli studi di pragmatica, possiamo chiamare performativa: a contraddirsi sono i due piani dell’enunciazione, ovvero quello della preposizione (il detto) e quello del senso (il dire).
Rocco Ronchi, per riflettere sul presente, parte da Brecht perché ne condivide, almeno in parte, il metodo e ritrova nel suo teatro un atteggiamento precisamente filosofico. Il metodo e la postura sono i due nodi chiave di questo saggio che vengono implicitamente, ed esplicitamente, sciolti attraverso l’analisi di tre dispositivi: teatro, prospettiva e fotografia. Tutti e tre permettono l’emersione di una presenza anonima, pre-riflessiva: l’ospite estraneo, il punto di fuga e la macchina fotografica. Questa presenza anonima si riduce ad essere uno sguardo privo di pregiudizi – metafisici e morali. Lo immaginiamo come uno spettatore senza nome che osserva lo spettacolo della vita, la sua operazione principale è quella di prelevare meccanicamente dal mondo circostante un’immagine orfana, generata automaticamente. L’eccellenza che ritroviamo in tutti e tre questi dispositivi è la capacità di mostrare la spontanea generazione del reale. In questi luoghi il tranquillo scorrere dell’ovvio e del e del pre-costituito trova un’inceppo ma per poter essere testimoni di questa crisi abbiamo bisogno di un occhio artificiale: «il terzo occhio ce lo dobbiamo inventare» (p.90). L’occhio dell’uomo non è, infatti, in grado di vedere come la macchina perché nel guardare sta già giudicando. Allora lo sforzo del teatro di Brecht, della prospettiva e della fotografia sarà quello di estraniarsi dal rapporto uomo-mondo, si vuole esorcizzare la concezione natural-antropocentrica del mondo. I tre dispositivi tra cui si muove Ronchi in questo saggio sono meccanismi per vedere pure impressioni, ma qui «vedere non è coscienza, non è intenzionalità, ma traccia, scrittura, forse dovremmo dire trauma, intendendo con tale espressione l’avvenimento, quasi sempre annunciato dello choc, di un’impressione» (p. 94).