Squilibri metafisici. Un commento a "Sei malattie dello spirito contemporaneo" di Constantin Noica

L’uomo è l’essere malato. La ridondanza ontologica e grammaticale del verbo maledetto (è-essere) segna un percorso. Nello specifico quello che Constantin Noica, filosofo e poeta rumeno, propone in Sei malattie dello spirito contemporaneo (Noica, trad. it. Mira Mocan, 2017), edito per i tipi di Carbonio Editore. Il riflesso ontologico da cui l’autore prende le mosse si potrebbe riassumere: proprio perché essere, l’uomo è malato. Con un minore senso metafisico si potrebbe pensare all’uomo come animale della malattia, macchina in continua manutenzione, satellite fuori rotta. Di contro, la missione folle e avventurosa di Noica in questo libro è più ambiziosa: svelare e comprendere la struttura delle “malattie ontiche”, partendo dal presupposto che “anche l’essere è malato” e che esso è “potenzialmente non solo malato, ma anche falso” (p. 14). Il quadro si configura allora come segue: l’uomo - l’essere (malato) - la malattia. L’autore, con tutta la cura richiesta dal caso, cerca di costituire una narrazione ontologica che aiuti a diagnosticare le malattie dello spirito contemporaneo, le quali, “a differenza di quelle comuni, che possono essere innumerevoli […], possono essere soltanto sei, proprio perché riflettono sei situazioni potenziali o precarietà dell’essere” (p. 36).

La malattia appartiene essenzialmente all’uomo, perché l’uomo è l’unico essere che conosce, accoglie e esperisce la malattia come distorsione creatrice: se provo la malattia conosco la salute e, insieme, la loro differenza. La fortuna dell’uomo inizia dove finisce quella dell’animale; fortuna è quella di non essere mai sano, non desiderare la sanità, cercare costantemente dell’altro, sprofondare coscientemente nel dolore dell’infermità e lì costruire immense impalcature teoriche, per giustificare la propria insanabile mancanza. È la storia dell’occidente, della filosofia e dell’arte, della scienza e della poesia. La malattia ha raggiunto ogni angolo di mondo: gli dei, il cielo, la luce, il tempo, finanche la vita - “con le sue trasformazioni e le sue incertezze, nella misura in cui si è manifestata ai biologi contemporanei, quale risultato di un caso trasformato in necessità” (p. 39) - è malata, soffre e si gonfia insieme all’uomo. La malattia ha raggiunto ogni zona dell’essere, tanto che l’essere stesso è diventato malato.

Le malattie dello spirito sono malattie “ontiche” (p. 15) e ciò comporta almeno due implicazioni: la prima strutturale e la seconda linguistica. Sono sei e vengono divise dall’autore in due ordini speculari (p. 19) - le prime tre indicano una carenza, le ultime tre un rifiuto o un inadeguatezza. Verso cosa? Verso le categorie dell’essere: le malattie spirituali sono dunque articolate secondo una struttura ontica (sono sei, speculari, ecc.). Esse sono, a questo mondo e nella loro prima e fondamentale formulazione, un’astuzia del pensiero greco e dunque originariamente si servono della lingua greca come loro supporto proprio: Noica, da filosofo accorto, tenendo conto di questo vincolo, mantiene il linguaggio greco per nominare le malattie spirituali, indicando, di volta in volta, le proprietà di ognuna.

Di todelite sono malati gli spiriti ossessionati dall’esattezza, dall’incorruttibilità, dalla rotondità, dalla perfezione, dalla regolarità, dalla sedentarietà. Coloro che provano la sensazione che doveva provare Parmenide guardando la piatta ma inquieta serenità del mare. Coloro che abdicano se stessi contro quella serenità. Coloro che si stendono, legate alla statistica, alle allucinazioni logiche, che si appiattiscono sul generale. La todelite è la malattia della mancanza del senso individuale (tode ti, come lo chiamava il filosofo greco - questa singolarità individualissima), che quindi si intristisce sul generale. Durante la vita, ognuno di noi fa esperienza di questa malattia in gioventù, “nell’idealismo sciocco, seppur pieno di bellezza ed esaltazione; e, in particolare, nella magia dell’ideale” (p. 70). Finché arriva la biografia, la piena lucidità e quindi l’età della coscienza teoretica, in cui si entra in contatto con un generale degradato. Ciò accade persino nei grandi spiriti come Goethe che entrò in contatto con alcune idee della teosofia mostrando, secondo Noica, di avere disperato bisogno di un senso generale, qualunque esso fosse. La todelite e la malattia della perfezione, la malattia della perfetta rotondità e della statuaria noia che ci suscita l’essere di Parmenide, del tempo assoluto teorizzato da Newton (p. 65-66): in mancanza di un individuale ci si lascia inglobare da un generale dirompente. Questa malattia trova ora corpo nelle espressioni della logica simbolica, del pensiero analitico e rigoroso che padroneggia su ogni campo del sapere, con la pretesa di correggere “tutto ciò che è affermazione del logos”, incattivito dalla “sofferenza per l’incapacità di trovare realtà individuali a misura di sé, dovendole inventare oppure proporre quali modelli ideali” (p. 67).

Se la todelite è la malattia della perfezione, la caholite è quella dell’imperfezione. Caholite (dal greco katholou - generale, che si riferisce alla totalità, olon) ovvero: “le anomalie prodotte dalla mancanza del generale nell’uomo” (p. 43), la mancanza di un principio d’ordine generale per una realtà individuale e le sue determinazioni. L’acatholico desidera prima di tutto essere come singolarità, non riuscendo ad aggrapparsi ad un essere comune. Essere per gli altri, essere nella storia, essere in quanto “statua, fama, giustizia, verità creatore, distruttore - purché sia” (p. 43). Ognuno è, anche solo in parte, malato di catholite in quanto resiste e persiste. La malattia obbliga il paziente ad accresce, accatastare, accumulare esperienze, immagini, cianfrusaglie. “‘Sono ricco di azioni e dunque sono’: è questo il ragionamento di chi nasconde la propria malattia” (p. 50). La catholite è di facile diagnosi, incorre nell’istante in cui ci si libera dalla tirannia di un ordine generale: è il caso del figliol prodigo che abbandona il senso generale della famiglia e della società “per darsi i sensi che vuole e che ignora in quanto generali; perché proprio questo lo esasperava, la tirannia della generalità” (p. 53). Ma la catholite è anche la malattia dell’uomo di cultura, dello straziato dalla lucidità. L’anamnesi di Jaques Monod, che l’autore traccia con biologica attenzione, è significante: è il caso dello scienziato che abbandona la sua sicurezza e sente il bisogno di filosofeggiare; che ha una coscienza del generale ma che non potendolo identificare e manipolare dichiara il mondo come una serie cieca e sconnessa di eventi (p. 58).

“Se qualcuno volesse verificare, a livello culturale, che cosa vuol dire malattia spirituale (comprese la sua positività e creatività), allora deve considerare l’esistenzialismo” (p. 60). Kierkegaard, scrive Noica, conosce il generale, lo anela, lo percepisce, lo rispetta e lo teme, lo soffre e lo reclama ma allo stesso tempo lo evita e “sprofonda in un destino individuale”. Come lui Sartre (nel quale prevalgono le determinazioni dell’esistenza sull’essenza) e Heidegger (dove si giunge al limite, al silenzio, alla coscienza della finitezza, al concetto di Nulla) verificano l’impotenza di trovare un accesso privilegiato al generale. La catholite è appunto una sfida nei confronti del generale, un astio che può sfociare in violenza, odio, desiderio di morte nei confronti di ogni assoluto. La figura della catholite è Nietzsche che grida la morte di Dio.

L’horetite (horos, determinazione) è l’impossibilità di guidare la propria volontà, non concretizzando nessuna delle determinazioni contenuta nel possibile. Viene subito in mente Oblomov, il simpatico perdigiorno fabbricato da Goncarov. Ma non si tratta nemmeno di perdere la giornata: Oblomov, come ogni horetico, semplicemente fa quello che fa, si ripiega, tenta di agire ma si ricrede, dice corregge e smentisce. Per l’horetico tutto è meravigliosamente uguale, per cui ogni determinazione è indifferente. Noica ne individua delle tracce nei grandi impazienti della storia delle lettere, dal Don Chisciotte - che, per sua impazienza nel realizzarsi, deve sostituire alla determinazioni che non riesce a darsi delle pseudo-determinazioni sghembe e grottesche - a Faust - che invece “desidera le determinazioni del generale per il suo essere ‘geniale’” (p. 88). Le determinazioni, nell’ottica del malato di horetite, diventano tutte pseudo-determinazioni. Noica nota anche che a Zarathustra, personaggio horetico per eccellenza, una volta sceso dalle montagne, nulla accade, egli non è in grado di agire o darsi determinazioni adeguate; “Zarathustra scende, dopo il ritiro sulle montagne durato dieci anni, come incarnazione di una vasta natura generale, predicando a vuoto ed errando senza meta” (p. 91). Se questa è la forma acuta della malattia, la forma cronica agisce proprio sui principi dell’attualizzazione, che rendono possibile ogni determinazione: lo spazio e il tempo. Perché, contro la coscienza comune, il tempo non passa, mentre le cose confluiscono in esso; ovvero: tutto accade nello spazio e nel tempo, ma a essi non accade nulla. Non accade nulla indica qui assenza di significato, assenza di differenze. Noica parla a questo proposito della vita degli angeli - nella quale non capita mai nulla, ci si attraversa - e della mitologia del folklore rumeno, che raffigura il Paradiso come un luogo dove “tutti gli uomini avranno la stessa età e non vi sarà dimora, né amore, né parola, bensì ‘sarà sempre lo stesso giorno’”. Tutto è uguale. A ben vedere però è la malattia di coloro che si sono imposti un’ordine superiore, oltre quello della generalità. Il loro profilo, la loro verità diventa un altra. Ma dopo la vittoria sul generale, ricadono nella tristezza più buia: il binomio tristezza-vittoria “esprime la paura indefinita che il mondo possa rimanere lo stesso, oppure che tutti i tentativi di cambiarlo possano renderlo un non-mondo” (p. 98). Con l’horetite cronica compaiono “l’accidia, la mancanza di fiducia in sé, la rassegnazione attiva, oppure il senso di noia e di mutilazione per mezzo dell’assoluto” (p. 103).

Le ultime tre malattie sono speculari rispetto a quelle che abbiamo ora brevemente descritto. Sono le malattie che ci auto infliggiamo: gli uomini le ricercano volontariamente, anzitutto “attraverso il rifiuto di uno dei termini ontologici indicati” (p. 104). Questo rifiuto può quindi essere diretto alle determinazioni (è il caso dell’ahoretia), all’individuale (atodetia), al generale (acatholia). È di facile comprensione, anche qui, la scelta semantica, trattandosi infatti della privazione (a-) delle categorie dell’essere che abbiamo attraversato in precedenza.

L’ahoretia, il rifiuto, la rinuncia delle determinazioni, è l’espressione plastica del teatro del Novecento. Nel teatro di Beckett, ad esempio, ne viene raffigurata una forma esasperata: le determinazioni individuali cessano di esistere, interrompono la consuetudinaria rete significante nella quale sono solitamente inseriti. “‘Niente da fare’ è la prima battuta di Aspettando Godot” (p. 30). Ma le radici di questa malattia vengono rintracciate a partire dai testi che compongono la Bhagavadgita, dove all’eroe, Arjuna, viene chiesto “di essere distaccato dalla lotta e non desiderare i suoi frutti” (p. 105), di riconoscere dunque in ogni azione anche la sua squalifica. È il comportamento degli stoici che soli, insieme agli asceti delle origini (anacoreti, padri del deserto) e ai mistici cristiani, sembrano avvicinarsi alla malattia costitutivamente indiana. Nessuna determinazione, nessuna battaglia, nessun turbamento, nessun corpo - Nada, Nada, Nada (Juan de la Cruz).

A questo punto, un picco estremo di lucidità letteraria e stile filosofico. L’autore, per la potenza della struttura che sta imbastendo, non può fare a meno di entrarvi. In altre parole egli si accorge che il suo punto di vista non è assoluto, fuori dai giochi: anch’egli è un malato dell’essere, un malato di ahoretia. Nelle pagine che seguono a La Cartella Clinica (p. 117), Noica, “descrivendo la malattia spirituale dell’ahoretia, ha avuto la sorpresa di constatare che stava tratteggiando e mettendo a fuoco il proprio destino”, frammento di teoria di cui è composto. La descrizione clinico-autobiografica, dagli anni del rapimento kantiano passando per i periodi di domicilio coatto del 1949-52, in cui riferisce una vita di ritiro e oscurità, si conclude con l’isolamento nei Carpazi, una scelta presa “non per fuggire il mondo, ma per conquistarlo da lontano”, come ha scritto Cioran. La solitudine di Noica è stata veramente quel silente trionfo che solo in questo capitolo si può conoscere da vicino.

Atodetia ed acatholia compromettono termini opposti dell’essere. Se infatti la prima è un rifiuto cosciente dell’individuale - è il caso del tentativo platonico, costruire una città ideale dove l’individuale fosse espunto (p. 131) - l’acatholia rappresenta il “rifiuto cosciente del generale” ed entrambi sono “lontano dall’essere fenomeni di stanchezza e appartenere alla sola dimensione passiva dell’uomo, cioè dal rappresentare un declino e l’inizio della fine” (p. 158). Se l’atodetia “è la malattia tipica della cultura, l’acatholia lo è della civiltà” e, più di tutte, rappresenta il nostro tempo. In che modo? Viviamo, dice Noica, nel epoca della civiltà, il quinto elemento, ancora rischiarati, anche se molto fiocamente, dalle luce dell’Illuminismo accesasi due secoli fa. “Solo che l’intelligenza dell’Illuminismo non si è esercitata liberamente fino alla fine. Essa è stata offuscata da qualcos’altro, cioè dall’empirismo, dall’utilitarismo, dai successi della tecnica e da alcuni grandi esiti biecamente materiali” (p. 160). L’eleganza degli ideali francesi è stata resa goffa e maldestra dal mondo anglosassone, dalla maniacale ricerca di Fair Play, esattezza morale, correttezza ad ogni costo. Allora “i disordini dell’acatholico, nella società presente, “diventano altrettante virtù: l’ordine del mondo immediato (nella stanza, nelle idee, nella parola, nella società), la precisione di tutto ciò che si fa, il self-control, la dignità nei confronti degli altri e di sé stessi, la civiltà la cortesia” (p. 175). E Noica giunge qui, attraverso un antico detto cinese, alla domanda che dovremmo porci tutti, interni ed esterni al mondo culturale, filosofico, scientifico che sia. La pagina del pensiero cinese riportata dall’autore recita: “A chi perde il Dao rimane la virtù; a chi perde la virtù rimane l’amore per il prossimo; a chi perde l’amore per il prossimo rimane la giustizia; a chi perde la giustizia rimane la cortesia” (ibidem). La domanda è chiara: vivremmo in un mondo dove non rimane altro che la cortesia? Non sarebbe, a questo punto, più auspicabile una malattia mortale?

Le domande che questo libro suscita - nelle sue vette come durante il cammino in pianura - aiutano a riflettere sul destino della civiltà europea e sul destino di ogni singolarità che la compone. È questo che vogliamo dall’umanità e da noi stessi? Solamente un modo accettabile di tenere insieme i nodi della società, nella completa piattezza della civiltà e della cortesia, della “filosofia analitica, della logica matematica, della cibernetica, e contemporaneamente del romanzo poliziesco o dell’ingegneristica fine a se stessa, economica e sociale, il mondo della società dei consumi” (p. 174)? Il mondo oggi sembra meno malato che mai e con esso l’uomo - sembrerebbe che niente di così pericoloso fosse successo, niente di più tremendo che la mancanza di una reale malattia, di una sana ossessione, di un vero squilibrio dell’essere.

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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