Sentire il mondo. Memorie di un malato di covid-19

Da qualche giorno ho il covid-19. Sono positivo. Sono positivo perché ho fatto quelle cose che in tempo di pandemia sono il male: ho abbracciato e baciato amiche e amici, ho condiviso con loro spazi, tempi, consumi.

Il primo effetto è stata la perdita di olfatto e gusto. Da ormai qualche giorno, bevo senza sapere cosa sto bevendo, mangio senza sapere cosa sto mangiando. L’assenza di sapore ha implicato l’assenza di sapere, ed è chiaro che la lingua non mente nel differenziare i due verbi per una vocale. Da cinque, i miei sensi sono diventati tre: tatto, udito, vista. Gli occhi, in questa avventura, sono l’unico viatico ad una qualche forma di conoscenza di ciò che ingerisco. Tuttavia, vedo la birra – bevo la birra – ma non sono sicuro, certo, non so di bere birra. La controprova empirica è saltata. La vista, strumento per eccellenza nella società di schermi in cui stiamo vivendo, funziona male senza il contrappunto sensoriale di olfatto e gusto. Il che sembra dimostrare, peraltro, che la sensazione è sempre una sinestesia, un sentire assieme di ogni organo della percezione. Non c’è vista funzionale che non implichi costitutivamente l’olfatto, non c’è occhio che non lavori i suoi oggetti attraverso la lingua e il palato. Senza due sensi, considerati erroneamente secondari, il mondo mi manca e io manco al mondo: la correlazione è saltata e sembra destituire di alcun fondamento e l’oggetto – che non riconosco più, che non riesco più a conoscere – e il soggetto stesso, me stesso.

La sensazione interna infatti, la propriocezione tipica di questo momento è quella di essere incompleto, privato di un parte fondamentale del mio stesso essere. Come se, al privarmi di alcune fonti di conoscenza del mondo, degli strumenti di accesso al mondo stesso, fossi anche privato di parti costitutive del mio organismo. Il recupero che ho di me stesso, la mia autocoscienza, non è più trasparente a se stessa e non riesce più a colmare la distanza: un’opacità si è creata tra l’io e il me, tra me stesso ed io. Forse allora, dovrei dedurne, non siamo altro che i nostri sensi, nel loro esistere congiunti al mondo che ci svelano. Sono questi sensi che ci permettono di stare presso noi stessi in un’identità del sé con sé. Senza olfatto e gusto, il mio “tatto interno”, la mia coscienza di essere vivo, viene dilaniata e si produce una sensazione di profonda alienazione. Nello sprofondare dell’appoggio del mondo: salato, amaro, aspro e dolce, salta anche l’unità profonda – incosciente nella quotidianità della salute – del mio stesso essere.

Nell’attesa di una guarigione solo promessa, imparo forse, contro ogni idealismo, che non si dà esistenza senza percezione e che, anzi, essere vivo, essere un’unità viva, non è altro che sentire se stessi nella sensazione del mondo da parte di tutti i miei sensi congiunti. Il senso della vita e il senso del mondo mi appaiono oggi solo nel sentire, nell’intima unità che lega i miei sensi ai sensibili che mi circondano, in una sinestesia irriducibile ad alcuna prevalenza prospettica, visiva, uditiva, tattile o mentale che sia.

(Postilla metodologica: L’anestesia mi ha illuminato, a distanza, l’aisthesis, la sensazione. Questa appare ora sotto una nuova luce, più calda, più soffusa ma anche più decisa, all’attivarsi di quella. Paradosso profondo dell’esperienza: non c’è salute la cui verità non sia nella malattia, non c’è sensazione la cui verità non sia nell’anestesia e, paradosso dei paradossi, antinomia delle antinomie, non c’è verità la cui verità non risieda nell’errore. Dal nero del carbone stilla il latte più bianco).

Simone Raviola

Simone Raviola ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione artistica Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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