Clubbing: piacere e resistenza. Intervista a Enrico Petrilli

Enrico Petrilli è assegnista di ricerca presso l'Università di Milano Bicocca. Ha scritto di clubbing, droghe, theory e rinascimento escrementale su Zero, Prismo, Not, CheFare, il Tascabile e Dinamo Press, mentre è appena uscito per Meltemi Editore il suo primo libro: “Notti tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere”. A partire da questa sua ultima pubblicazione, abbiamo rivolto a Petrilli alcune domande sul clubbing, il piacere e la loro relazione.

Simone Raviola: Hai da poco pubblicato con Meltemi la rielaborazione della tua tesi di dottorato: Notti tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere. Com’è nata l’idea di una ricerca intorno al mondo del clubbing? Che cosa ti attira dei club e dei suoi frequentatori?

Enrico Petrilli: Beh il punto d’inizio sono le mie esperienze personali, l’aver scoperto la musica elettronica (parecchio in ritardo) e le notti passate con i miə amichettə. Imparare tutti assieme come il dancefloor sia un’esperienza – viscerale, intima e relazionale – molto distante dai concerti, ossia la modalità di fruizione musicale con cui siamo cresciuti. E poi le fughe fatte all’estero per finire in situazioni che sembravano impossibili, e capire le potenzialità inespresse del clubbing a cui eravamo abituati. Però sarebbe sbagliato limitarsi a questo lato della storia, perché c’è anche da dire che sono un sociologo dell’alcol e delle altre droghe e per questa ricerca ho deciso di fare una precisa scelta di campo: studiare il piacere, un tabù quando si parla di sostanze stupefacenti e largamente sottovalutato nel dibattito sociologico più generale. La scelta degli eventi di musica elettronica come fieldwork è stata la logica conseguenza di questa scelta.

SR: Il volume è diviso sostanzialmente in due parti: la prima indaga storicamente e concettualmente il piacere, la seconda si concentra invece sull’esperienza dei clubbers. Ma cosa unisce il piacere e il clubbing?

EP: Le discoteche – scusatemi l’espressione da boomer – sono un fantastico paradosso. Tra i luoghi del tempo libero, mi sembrano l’unico in cui è possibile sperimentare con piaceri tanto diversi e intensi come ballare (liberamente, senza dover rispettare una coreografia) e ascoltare la musica, cazzeggiare con i propri amici o conoscere un sacco di gente, il people watching, consumare sostanze (legali o meno che siano) e via discorrendo. Se penso ad altri spazi del tempo libero mi sembrano molto più asettici e con un potenziale edonico molto limitato. Basta citare due casi: le palestre, in cui il corpo è strozzato da una disciplina ferrea, o i cinema, in cui si è costretti ad essere solo degli spettatori. Ovviamente, i club di musica elettronica non sono solo questo, perché il loro potenziale edonico è messo a servizio della produzione di capitale attraverso una serie infinita di tecnologie del potere che – semplificando – provano a limitare le esperienze dei clubber.

SR: Nel capitolo dedicato alla “genealogia della società danzante” scrivi che le discoteche sono “uno spazio intermedio tra il lavoro e la casa” e che, inoltre, sono capaci di mettere in crisi “la rigida distinzione tra pubblico e privato”. In questo senso, si potrebbe pensare allo spazio della festa come un luogo “comune” nel quale tanto la legge (statuale) del pubblico quanto la libertà assoluta del privato vengono sospese a favore di nuove regole dinamiche?

EP: Non mi spingerei tanto in là… il quel capitolo analizzo come le discoteche abbiano rappresentato “uno spazio intermedio tra il lavoro e la casa”, in una società in cui vigeva ancora una netta separazione tra pubblico e privato. Questo significava, da un lato, il dominio di un’ideologia domestica che relegava le donne ad un compito di cura domestica e, dall’altro, una limitazione delle possibilità di espressione nello spazio pubblico per tutti quei soggetti che non rientravano nel modello antropologico dominante, quindi persone LGBTQ e POC. Tuttavia, oggi questa rigida composizione dicotomica dello spazio sociale è in crisi. Da un lato, si registra un’erosione costante dello spazio pubblico, in favore del privato; dall’altro il lavoro sta sempre più colonizzando la casa. Non faccio riferimento tanto allo smart working, quanto all’incapacità del soggetto contemporaneo di tenere separati questi ambiti di vita. Basti pensare a come risulti del tutto naturale auto-definirsi in base ai propri successi o fallimenti lavoratrici, o in quanti siano ossessionati dal proprio lavoro (e non siano capaci di parlarmi d’altro!!!).

È all’interno di questo sfaldamento nella composizione della realtà che si registra la sfida per le feste del futuro, riposizionarti all’interno di questo piano sbilenco, per poter continuare ad essere un luogo terzo di resistenza.

SR: Da qualche anno, intorno alla club culture si è costruito un apparato economico non indifferente. A Berlino, il turismo da club è considerato una parte importante dell’introito culturale-turistico della città. I proprietari dei club guadagnano, letteralmente, sul sudore dei clubbers. Salvo rare eccezioni in cui le feste si svolgono illegalmente o in luoghi occupati, i club non sono diventati una sorta di fabbriche del divertimento in cui il piacere viene ampiamente incoraggiato solamente perché è capace di produrre un ritorno economico?

EP: In un certo senso sono d’accordo con te e condivido la necessità di non santificare la club culture, ma di contestualizzarla storicamente. E nel libro dovrebbe emergere chiaramente come le discoteche risultino oggi uno degli avamposti del regime post-disciplinare contemporaneo, motivo per il quale diventa essenziale studiarle. Detto questo, a mio avviso la soluzione non sono “le feste [che] si svolgono illegalmente o in luoghi occupati” perché non riesco concepire qualcosa che sia esterno (e libero) dalla macchina capitalistica. Piuttosto che ricercare un utopico eden raveristico in grado di trascendere il nostro mondo sporco e impuro, ritengo sia strategicamente più opportuna una guerriglia micro-politica negli interstizi del potere – come il fumo, in grado di attraversa i muri di un penitenziario, in Un Chant d’Amur di Jean Genet. Il mio riferimento è, ovviamente, al terrorismo farmacopornografico di Paul B. Preciado, con il suo invito a non limitarsi ad appelli e richieste alla società (che si considera) civile, ma impiegare il nostro corpo e le nostre soggettività come primo strumento di lotta. Questo significa non riprodurre le strategie adatte in passato, ad esempio, dai sindacati o nella liberazione sessuale, ma svilupparne di nuovo, modellate sulle sfide e le complessità del contemporaneo.

perché l'Ordine o lo si ride dal di dentro o lo si bestemmia dal di fuori; o si finge di accettarlo per farlo esplodere, o si finge di rifiutarlo per farlo rifiorire in altre forme

Questa citazione arriva dall’analisi di Umberto Eco su Franti del libro Cuore e, indirettamente, su Panurgo di Gargantua e Pantagruel. Vorrei lasciarla come stimolo riguardo alla contrapposizione tra clubber e raver, ancora così importante in Italia. Mi sembra puntuale il monito di Eco a non illudersi di poter rifiutare l’Ordine perché poi ci si troverà a farlo generare altrove, così come il suo invito ad affrontarlo dal di dentro come Panurgo che si “integra” nella società medioevale ma “ogni suo gesto appare sfasato rispetto alla norma, accetta le convenzioni (la messa) per sovvertirle dall'interno (occasione per distribuir pidocchi)”.

SR: Secondo una nota tesi foucaultiana, non il desiderio o il sesso ma il piacere è il luogo di articolazione della resistenza al dispositivo di sessualità (e più in generale ai diagrammi di potere contemporanei). Ma non è forse vero che il capitalismo ha con il piacere un profondo legame e che, dunque, non è possibile pensare di sottrarsi alla presa del dispositivo di sapere-potere capitalista per tramite di questo? Qual è la differenza tra desiderio e piacere?

EP: Fortunatamente non sono mai stato abbastanza intelligente per diventare un filosofo, o anche solo per provarci. Quindi ho la decenza di non mettermi a definire piacere o desiderio. Però posso dire perché ho scelto di concentrarmi sul piacere e lasciare da parte il desiderio. Prima di tutto perché il desiderio ha una genealogia precisa di natura psicoanalitica ed è stato criticato da gran parte degli attivistə e pensatorə che hanno dato forma a Notti tossiche. Oltre a queste ragioni concettuali, devo aggiungere che il desiderio – con la sua economia della mancanza e un soggetto indirizzato verso qualcosa – non mi sembrava particolarmente utile per descrivere e analizzare le esperienze dei clubber. Nei loro racconti non era importante quello che cercavano o volevano, ma piuttosto quello che sentivano e vivevano agli eventi di musica elettronica, qualcosa di radicalmente diverso rispetto la vita di tutti i giorni. Lavorare sul piacere mi ha permesso di concentrarmi sui corpi dei clubber, per andare a vedere dove li ha condotti (spesso a loro insaputa) l’iper-stimolazione multisensoriale del clubbing. Con questo non si intende sottovalutare i legami tra capitalismo e piacere o la posizione del clubbing all’interno dell’industria del divertimento. Tuttavia, all’interno di questo studio ho fatto mio l’invito di chi mi ha insegnato a non sottovalutare le potenzialità insurrezionali del piacere e a rifiutare le modalità disincorporate e distaccate con cui è studiata la realtà e pensata l’azione politica.

SR: Nell’ultimo capitolo, scrivi che le esperienze di festa in un locale permette di resistere alla noia depressiva che caratterizza la quotidianità del (post e narco)capitalismo: l’iperstimolazione che caratterizza il clubbing sarebbe dunque “antitetica all’anestetizzazione sociale”. Ma non è piuttosto vero il contrario? La sovrastimolazione festiva non è forse il naturale contrappunto multisensoriale dell’anestesia feriale? In pratica: nervi sempre più anestetizzati richiederebbero stimoli sempre più accentuati…

EP: Se la realtà fosse sempre un gioco a somma zero probabilmente avresti ragione, ma non vedo perché ragionare in questi termini. Un'altra possibilità è che l’eccitazione funzioni come la conoscenza. Ossia qualcosa che non è definito dalla penuria, ma che piuttosto si genera in maniera esponenziale nel momento in cui è utilizzata e condivisa. Il punto, quindi, non è mantenere la sanità e la forza dei propri corpi o l’essere diligenti e razionare le proprie energie per metterle a servizio di un obiettivo più grande e valoroso (invece di qualcosa di insulso e inutile come la festa), la questione diventa piuttosto come incanalare e impiegare in maniera sovversiva queste dolcissime energie generate dal clubbing. Altrove ho provato a delineare – assieme all’amico e collega Pietro Sarasso – una politica del furore, in cui l’anarchico dispiegarsi delle passioni non è diretto da fini programmatici precisi, come nei progetti politico-escatologici del passato. Prima ho parlato di guerriglia, per indicare un modello di lotta che avviene nelle trame del potere e non è più, quindi, come nelle battaglie campali, tra due schieramenti opposti e messi di fronte uno all’altro. Ora aggiungerei un altro tassello, questa lotta non si basa sulla conquista della bandiera dell’avversario come nelle guerre premoderne o di un obiettivo sensibile (à la Bastille!), perché il potere oggigiorno è multiforme e ubiquo, vale a dire che non è più individuabile in una persona, un simbolo o un luogo. Ritorno ad Eco e alla sua analisi di Franti/Panurgo: le loro azioni di questioni non “mira[no] specificatamente a un utile particolare, ma tutti nell'insieme a una deformazione degli umani rapporti”. Il mio interessamento nel clubbing nasce proprio perché al suo interno ci sono un’infinità di gesti e vissuti che fanno deragliare la nuova ragione del mondo neoliberista, o il realismo capitalista che dir si voglia.

SR: I club sono un luogo di puro contatto-contagio: una pandemia di suoni, odori, luci e corpi che si sfiorano e comunicano. Come credi che cambierà la scena club mondiale dopo questa prolungata serrata causata dal covid-19? A cosa assisteremo? Aumento dei prezzi, entrate contingentate, prevalenza degli open-air rispetto alle feste al chiuso? Torneremo mai a ballare “come prima”?

EP: Magari sapessi risponderti, sono davvero poco adatto a questo genere di domande. Mi sembra già un’impresa studiare un fenomeno sociale, figurati prevederlo… non sono stato programmato per questa funzione. Però non mi stancherò mai di ripetere che sono stati i soggetti LGBTQ e i consumatori di droghe per via iniettiva (non certo medici o casa farmaceutiche) che hanno imparato sulla propria pelle come sopravvivere all’epidemia di HIV e hanno insegnato al resto della popolazione strategie di riduzione del danno per non trasmettere il virus. Quindi ho la massima fiducia che se perdurerà questa situazione di chiusura, allora saranno gli stessi clubber a sviluppare gli accorgimenti necessari per poter tornare a divertirsi e passare le notti a ballare tutti assieme. Sul “tornare a ballare come prima” … non è quello che mi auguro. Se penso alla mia città, Torino, la situazione era penosa già prima del Covid e gli anni ’10 dovrebbero essere ricordati come il collasso della vita notturna grazie alla chiusura di un numero impressionante di club, i poliziotti in assetto antisommossa nelle piazze della movida, il cibo che si è mangiato la città e i musei che fingono di essere discoteche, ma attuano le strategie di sorveglianza dei penitenziari. Tornare a tutto questo sarebbe un incubo, una Groundhog night diciamo.

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