Il cielo stellato sopra di me, il vuoto abissale dentro di me

E in nulla di questo c'è l'astratto. È il figurativo dell'innominabile.

(Clarice Lispector, Agua Viva)

Egli conta il numero di stelle
e chiama ciascuna per nome.

(Salmo 147:4)

Quando l’instabilità è la regola, la pelle si assottiglia fino inspessirsi, all’ultimo. Transitando da uno stato all’altro, si ritrova ad essere vulnerabile: tutto, allora, ci può colpire. I nostri organi sono esposti alle intemperie, ai gesti minimi, ai tocchi più lievi. Se in questo stato qualcuno ci stringe le labbra in un bacio, siamo perduti. Se, allo stesso modo, incontriamo un’opera d’arte – replica perfetta delle labbra più carminie – siamo perduti. Per difetto di distanza, per mancanza di filtri, non abbiamo altra possibilità che immergerci in ciò che ci ferisce, coincidere con la causa della nostra stessa sofferenza. Attraverso l’altro, diventiamo carnefici di noi stessi. Le opere d’arte che illuminano la nostra vista e gli occhi spillati che travolgono il nostro sguardo sono le frecce più velenose, le spine più acuminate. Esse si rinforzano a vicenda, cantando una i meriti dell’altra. Tanto diabolici quanto angelici, i due dardi si prendono con facilità i centri nervosi di ogni adermico.

La controprova: visitare la mostra I sette palazzi celesti di Anselm Kiefer, nell’alienante contesto dell’Hangar Bicocca. In particolare, un quadro: Jaipur. Emblema della perfezione, Jaipur non ha nulla da invidiare al più armonico dei volti. Nulla da invidiare al balbettio delle palpebre di chi amiamo. Massimamente portatore di luce, lucifero, Jaipur vanta la magnificenza architettonica di un tempio greco, la perfezione cromatica dell’inizio: Campo di grano con cervi in volo. Jaipur possiede la potenza interpretativa di un Essere e tempo. E se osservando le opere di Kiefer nella sala industriale dell’Hangar, letteralmente gigantesca, lo straniamento è inevitabile, con Jaipur l’effetto è decuplicato: la sua anima doppia provoca e inquieta la capacità sintetica dell’osservatore, lasciandolo vagare nello spazio della propria alienazione.

Spaccato da un asse tanto irregolare quanto saldo nella sua orizzontalità, il quadro si presenta doppio: in alto, il firmamento d’ascendenza divina; in basso, una piramide invertita, apparente perversione del tentativo umano di cogliere il divino. Il distinguo non è però solo tematico. Il contrasto cromatico gioca un ruolo chiave nel separare le due zone: chiaro, splendente e puntiforme, un grigio toccato dal bianco e dall’azzurro domina il cielo. A colorare la piramide inferiore sono invece tinte sabbiose, opache e dense. Inoltre, se il cielo si presenta immacolato, di tonalità sostanzialmente omogenee, nella zona inferiore della tela appaiono macchie scure, di bruciatura forse (che non è solo una tecnica tra le altre: “Dipingere=bruciare” titola un quadro kieferiano del 1974).

Ad unire le due facce della tela sono delle bianche e sottili linee, la cui funzione è di collegare le stelle in costellazioni fittizie. Non solo il cielo è stellato: gli astri vagano anche all’interno della piramide. Le stelle diffuse lungo tutta la superficie della tela consentono l’articolazione in un’unità del quadro: esse sono lentiggini di luce che ricoprono il volto celeste e quello piramidale, insieme, nello stesso tempo, d’un coup.

Jaipur è un quadro al contempo analitico e sintetico. L’analisi è evidente, la sintesi non è nascosta. I due processi sono contemporanei. En diaferon eauto. Cielo e piramide sono separati e subito riuniti sotto il segno delle costellazioni stellari. Estrema difficoltà, estremo talento di Kiefer: armonizzare disgiungendo. Hölderlin: «simili ai dissidi degli amanti sono le dissonanze del mondo, conciliazione è entro la discordia stessa e tutto ciò che è separato si ricongiunge». Separare e riunire, creare distruggendo. Trattare i materiali, annichilendoli, per riassestarne il valore, l’uso. Dare all’analisi lo spessore della sintesi, e viceversa: “La tavolozza è poiesis alchemica: il fare che dissolve e separa, che solo disciogliendo-analizzando può manifestare, portare alla presenza” scriveva Massimo Cacciari, nel suo omaggio a Kiefer del 1997. E che altro è messo in figura in Jaipur se non questa stessa tavolozza che mentre discioglie i legami tra alto e basso, cielo e terra, dei e uomini, porta uno nelle braccia dell’altro, pensandoli e raffigurandoli ex novo nella loro unità? La grande poiesis è questo: contrappunto del divino, musica atta «a testimoniare, a ferire / a insolubilmente saldare / a inguaribilmente separare». Il quadro di Kiefer è simbolo dell’anarchia e della legge, mise en forme «sonnambulicamente esatta» tanto della cardatura quanto della tessitura del cosmo. Jaipur è la memoria di ciò che non si può ricordare, è la figura dell’immemorabile trauma che ha scosso l’unità assoluta per farne una duplicità vincolata e che, al contempo e in ogni momento, scioglie i lacci della distanza per riunire sotto un’unica egida le forme disparate del cosmo.

What will survive is the art not the world. […] Je pense toujours à la mort. Moi, je crois que je suis une partie dans le cosmos. Une petite, petite… Tu peux imaginer ça? Et tu es composée de ces très petites trucs et ces très petites trucs son part du cosmos aussi. Alors tu fait part de tout ces très petites, petites choses. Alors, un fois, quand tu es mort, ça ne change pas trop, parce que les petites, petites trucs, ils sont là toujours. Comprends?

Dunque, maestro dell’attenzione, Kiefer. Un’altra adoratrice e maestra dell’arte alchemico-simbolica, Cristina Campo, ha scritto una volta:

[...] dall’immagine l’attenzione libera l’idea, poi di nuovo raccoglie l’idea dentro l’immagine: a somiglianza, ancora una volta, degli alchimisti che prima scioglievano il sale in un liquido e poi studiavano in quale modo si riaddensasse in figure. Essa opera una scomposizione e una ricomposizione del mondo in due momenti diversi e ugualmente reali. Compie così la giustizia, il destino: questa drammatica scomposizione e ricomposizione di una forma.

La visione è atto primo di un dramma il cui scopo ultimo è la raffigurazione. In Jaipur, cielo e terra, dei e mortali, le «eterne erranti» e le sempre troppo caduche piramidi, collassano in una nuova armonia, in un’inedita sintassi del pentagramma visivo. Il quadro di Kiefer è la definizione più precisa di “educazione all’attenzione”: allo stesso modo di un brillante viso, Jaipur ci insegna a scomporre e ricomporre, ovvero a conoscere – a vedere a fondo, per iniziare pensare.

Che cos’è conoscere? Passare dalla comune vista, la doxa, al «divino realismo» della percezione. Bucare l’immagine, per arrivare all’inesprimibile che la compone. Percepire, ha scritto una volta Cristina Campo, «è riconoscere ciò che soltanto valore, ciò che soltanto esiste veramente», e continuava: «e che altro veramente esiste in questo mondo se non ciò che non è di questo mondo?». Percepire non è altro che catturare il risvolto del visibile, la sua controparte umbratile: l’invisibile proprio di ogni visibilità. Questo invisibile non sta altrove: è lì, in evidenza assoluta, è quello stesso dinamismo che detta il ritmo della manifestazione. L’invisibilità della manifestazione è la sua logica.

Alcune porzioni di mondo evidenziano al massimo il loro leggerissimo carico, la loro anima invisibile. Sono poche, come è vero che la bellezza è rara. Quando una cosa mostra la sua apparenza, nonché il residuo d’invisibilità che la compone, diciamo che “è bella”. Il bello è ciò che stacca in apparenza tra le apparenze, ekphanestaton. Il bello è ricco di luce (phos), il più luminoso: l’astro. Ma non vi è luce senza ombra, ordine senza caos, visibile senza invisibile.

La maculatura di lentiggini rosse che incastrano due occhi chiari, per esempio, diciamo che “è bella” perché vi riconosciamo la diabolicità. I punti arancio-rossastri coprono di filamenti intermittenti la superficie liscia della pelle e fermano la sua caduta verso l’esterno, costituendo il volto in un’unità armonica. La mappa di lentiggini collega i differenti elementi facciali, nella loro singolarità, oltre il loro esseri separati – legando le differenze nell’unità sintetica la cui regola viene doppiata nell’ombra. Il viso è in quel caso composizione perfettamente manifesta che mostra, nella forma del celato, il doppiofondo in cui risiede la regola e il caos, la legge e l’anarchia. Aperto e chiuso, un volto che giudichiamo bello è trasparenza assoluta e opacità totale. Al limite dell’acutezza, dell’apertura, il volto si ricongiunge all’ottusità più totale, all’idiosincrasia. Le lentiggini e i loro correlati mostrano ciò che dal volto è allora assente: la regola ultima, imperativa, del loro allinearsi, l’ordine decentrato che si staglia sul nulla dell’indifferenziato e sul caos dell’anonimato. Poteva non esservi legge, eppure essa splende nascosta. Ombra di luce, luce d’ombra.

Jaipur, ancòra, ancora. Come bellezza in figura, «la Bellezza a doppia lama, la delicata, / la micidiale». Leggiamo nella scheda dell’opera: “la piramide diventa simbolo del vano tentativo di avvicinamento dell’uomo al divino”. Eppure, come abbiamo visto, si tratta di una considerazione superficiale. Jaipur mostra, inoltre, un punto di fuga assoluto che fa da tramite tra la piramide e il cielo, tra l’uomo e il dio, tra l’uomo e l’invisibile: il fondo della piramide invertita. Esso domina il quadro: staccando nettamente per peso e spessore cromatico dal resto della piramide, il rettangolo è collocato centralmente, in senso orizzontale. L’intera piramide “punta” verso il suo fondo e le linee della struttura vi convergono, portando lo sguardo ad acquietarsi su di esso. Inoltre, quattro linee bianche – ben in contrasto sullo sfondo sabbioso della piramide - si fermano nei pressi di una stella che risiede esattamente al di sopra del rettangolo. Cosa racchiude il parallelepipedo? Cosa racchiude quel denso grigio che, simile ad una bara, giace disteso nel punto più basso – idealmente – del quadro?

Il semplice rettangolo grigio è il punto in cui l’iconoclastia è totale, le immagini e le figure vengono sciolte nel forno alchemico dell’arte kieferiana. Il grigio è la nigredo, punto di accesso verso la materialità dell’esistenza, il puro esserci. Il centro della piramide è la soglia che conduce al fondo dell’immagine, al caos che segue e accompagna il nulla che circonda la struttura del mondo: «all’origine è Kaos. Primo fra tutti gli dei a sorgere dal nulla». Secondo Meister Eckhart, nelle sue tenebre più profonde, dove qualunque immagine o simbolo è bandito, l’anima umana è identica a Dio, in una perfetta coincidenza. Fondo, Abgrund, Gottheit, Nulla e Kaos: nomi del Primo e del suo manifestarsi via negationis. Il rettangolo raffigura dunque “la porta stretta”, “la soglia ridotta”, da cui è necessario passare per accedere al fondo dell’anima ovvero alla luce divina. Se Salendo, salendo, sprofondo (2001) è ugualmente vero il contrario: “sprofondando, sprofondando, salgo”. Nel suo punto più infimo e oscuro, l’anima si apre al cielo e vi co-incide. Micro e macro, anima e universo, giungono a comunicarsi la propria identità; così come in un volto vediamo il manto stellare e nelle costellazioni l’espressione felice di chi amiamo. È nella propria intima e caotica legge che l’uomo conosce Dio. La piramide invertita non è dunque, allo stesso modo della separazione cromatico-tematica, simbolo di divisione irreparabile, quanto di intima differenza, tragica unione. Nel Primo, microcosmo e macrocosmo parlano la stessa lingua cifrata.

L’arte di Kiefer non è però astrattamente spiritualista, è invero intrisa di storicità, coscienza del proprio tempo e dell’eterno che lo tange. Non è possibile credere senza riflessione: la modernità ha tranciato il sottile filo che congiungeva terra e cielo, mortali e divini. Impossibilitati a conoscere Dio, siamo condannati invero a rimanervi in contatto, sia pure nella disperazione della sua assenza, nella notte più profonda del suo lasciarci. Sia pure nella distanza che ci separa da ogni fede. Commentando una poesia di Stefan George, Martin Heidegger scriveva: .«La notte – è vero – è oscura. Ma l’oscurità non è necessariamente tenebra». E il Sacro, continuava, «permane, nell’atto che si sottrae. Dona il suo avvento, mantenendosi in quel sottrarsi che è insieme restare». Kiefer corrisponde al darsi che si sottrae del sacro, producendo nello spettatore una «lived experience of proximity where the remote is made present but is immediately withdrawn into the distance». Nonostante la rovina e la perversione della piramide, il manto stellare raccoglie e lega in un’analogica sinfonia gli uomini e gli dei. E il singolo, nella sua più intima solitudine universalmente condivisa, può ritrovare una traccia del sacro assente. Nell’adieu che la nostra epoca ha rivolto a Dio, gli dei permangono nella forma dell’assenza, della presenza negata: alfa privativa, a-dieu. Ma la separazione è anche un tendere verso, à dieu. L’arte di Kiefer è un invito alla conoscenza del mondo, al pensiero dell’impossibilità degli dei. Le opere di Kiefer sono capaci di dare forma a quel vuoto abissale in cui ogni piramide collassa, nuove costellazioni iniziano ad articolarsi e dove perdere e trovare il dio, scendere e salire, sono modi opposti di un medesimo cosmico comunicare.

Ma poiché in tali dimensioni non vi è alto né basso, non fuori né dentro, e il centro del cuore non è altra cosa dall’infinito dei cieli, né l’atomo dalle galassie, e le parole perdono ogni precisa direzione, le due esperienze non sono in realtà due ma una sola. Si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi.


Marzo-Giugno 2021, Milano-Verona

Addenda

Leggo in questi giorni il felice saggio Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità di Emanuele Coccia. Il libro si chiude con l’invito a pensare la filosofia come una forma di chimica: il che significa, scrive l’autore, «immaginare che ogni pensiero sia un atto di sintesi cosmica. […] Pensare non significa più rappresentare e proiettare una forma astratta sulla materia, ma sintetizzarne una nuova, cambiare materialmente il mondo. Ogni minima trasformazione materiale è allora essa stessa un atto del pensare, un’idea». Trasformando i materiali attraverso un alchemico processo morfogenetico, Kiefer non solo pensa ma, al contempo, pensa che cosa significhi pensare, tratta la materia per capire che cosa significhi lavorare la materia. Nell’atto che si svolge riavvolgendosi, lavoro dello spirito e lavoro della materia arrivano a coincidere simbolicamente, testimoniando tutta la verità dell’assioma kieferiano per cui «Painting is philosophy».

4 Giugno 2021

In alcuni dei più significativi quadri di Kiefer, metodo compositivo e contenuto tematico coincidono. O meglio: l’uno esprime l’altro, il quale si risolve interamente nel primo. La poiesis è sia processo di creazione delle forme, ovvero l’operare kieferiano, sia ciò che Kiefer mette al centro del quadro. La magia, il mistero, l’enigma della trasformazione è così il metodo e il contenuto delle opere dell’artista tedesco. Anche il paradigma musaico (di comunicazione, spezzata o riuscita, con il divino) è ciò che permette a Kiefer di dipingere, la sua incerta strada verso la forma, e, al contempo, l’“oggetto” delle sue raffigurazioni.

9 giugno 2021

Che cosa significa percepire? «Percevoir c’est alors effectivement toujours percevoir quelque chose, mais aussi percevoir ce quelque chose d’une certain façon, ce qui veut également que toute perception s’ouvre toujours déjà sur de l’autre, sur une alternative : si ma perception implique que c’est toujours d’une certaine façon que perçois, je dois faire place d’emblée à la possibilité de voir autrement». L’altro non è altrove: è iscritto tout-court nella mia percezione. L’autrement è la visibile traccia dell’inesauribile ombra che accompagna ogni cosa, il simbolo di quel risvolto invisibile nel quale le forme si sfaldano e le forze lavorano incessantemente alla decomposizione.

12 giugno 2021

La diffusa illuminazione che domina le città metropolitane è la prima causa di rifiuto del sacro. Lampioni, lampade e lumini, vetrine, cartelloni pubblicitari, faretti e laser: questi sbiaditi soli non si limitano ad illuminare il labirinto della perdizione mondana, in maniera ancora più decisiva ostruiscono l’accesso alle costellazioni, allo scontro di luce e ombra. «L’attimo di spavento del flash, disse, viene qui prolungato in eterno e non c’è più né giorno né notte». Allo stesso modo, la chiarezza della parola e il peccato dell’identificazione offuscano il gioco di chiaroscuri che regola la magia dei volti più brillanti. La stabilità e la lucidità prive di ritmo, qui come altrove, sono evidenti anticamere della cacofonia.

17 giugno 2021

Come sempre, articolando nella parola l’essenza di ciò che si manifesta, i poeti conoscono e mostrano l’immagine in cui l’idea trova casa: «Le tracce luminose (ammirate soprattutto da Gerald), che esse [le farfalle] sembravano lasciarsi dietro in svariati cerchi, scie e spirali, in realtà non esistevano, spiegava Alphonso, ma erano pure tracce fantasma causate dalla neghittosità del nostro occhio, il quale crede di vedere ancora uno sfolgorio residuo nel luogo da cui l’insetto è già sparito, dopo aver brillato per una semplice frazione di secondo nel riflesso della lampada. E proprio in questi fenomeni irreali, diceva Alphonso, in questo balenio dell’irreale nel mondo reale, in questi particolari effetti luminosi nel paesaggio che si stende davanti a noi o nello sguardo di una persona amata, proprio qui si accendono i nostri sentimenti più profondi o, in ogni caso, quelli che noi riteniamo tali».

17 giugno 2021

Un volto, la cupola celeste. Due lenti spiccano, le pupille: condensa di nebulose implose.

22 giugno 2021

Amantes, amentes. Plauto dixit. L’intreccio dell’amore stellare s’informa dal caos del buio claustrale: «la carne debole e la carne forte, macerate nell’atanor del destino, se mi si consente l’espressione, un’espressione priva di significato, ma dolce come una cagnolina perduta sui fianchi di una montagna».

07 luglio 2021

«Tutte quelle stelle, possibile che tu non capisca, tu che sei così intelligente? […] Tutta quella luce è morta […] Tutta quella luce è stata emessa migliaia, milioni di anni fa. È il passato, capisci? Quando è stata emessa la luce di quelle stelle, noi non esistevamo, e non c’era la vita sulla terra, e non c’era nemmeno la terra. Quella luce è stata emessa molto tempo fa, capisci?, è il passato, siamo circondati dal passato, quello che non esiste più o esiste solo nel ricordo o nelle congetture adesso è lì, sopra di noi, e illumina le montagne e la neve e non possiamo far niente per evitarlo»

18 agosto 2021

Simone Raviola

Simone Raviola ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione artistica Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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