AUT NUNC AUT NIHIL

Sto scrivendo questo perché tutti, un giorno, saremo morti (ma sei stato sepolto da cadaveri senza storia come tanti altri, tanta lugubre morte accumulata in quelle città che hai attraversato come un vento frenetico, una voce di speranza).

Se i morti non vengono resuscitati, Paolo ha lottato per nulla, e avrebbe fatto meglio a starsene in locanda a bere. Il Classico, paradigma di paradeison (luogo di santità, spazio separato) delle anime elette, segna lo iato tra la terra e il cielo, tra l’ora e il sempre. Il Classico è sacro, sakāru interdetto e sbarrato al presente. La radice cristiana del problema va intesa senza dover essere, simul, accolta.

Se i morti nel sacro e per il sacro non vengono resuscitati, se non partecipano costantemente alla vita nel richiamo generale della storia attiva, non si può dire altro: domani moriremo. E altro non si può veramente dire: domani moriremo. L’illusione della civiltà, lo spazio sacro e diviso della religione passa in quello laico (laido, nell’etimo tommaseo) della cultura e si nomina Classico.

Fosse una fatica solamente umana, perché combattere le belve di Efeso? Perché naufragare tra i pericoli della scrittura e dell’opera, nel contemporaneo? Perché, se non per qualcosa che trascenda la vita e l’uomo – l’Avvenire, la Memoria, la Posterità?

Bene, se il Classico è ciò che deve sempre essere rianimato – (ri)attualizzato, come da vuoto motto universitario – sull’altare di un regno carismatico (Olimpo certificato di scrittori e artisti – Meridiani dello spirito), è arrivato il momento di smantellare e riconoscere la pia illusione dietro l’idea di zona separata, privée delle anime elette.

Ciò si traduce in un problema concreto di carattere perfettamente pratico e significa: cosa farsene della possibilità della scrittura, della lettura, della creazione artistica e del pensiero? Se un regno dei fini è, fuor d’illusione, l’immagine consumata di uno spazio trascendente, per chi scrive chi scrive? per chi dipinge chi dipinge? Ad essere bugiardi, per la vita del futuro. Ma si tappa gli occhi di fronte agli orrori del presente! Classico, ma per chi? Da dove? Ora, sotto la penosa categoria del verosimile, si parla di interessi, economie, industria e distribuzione. Ora scarico ora deprimente, il presente fa saltare i cortocircuiti che riuscivano a produrre il Classico. Perché? Perché è stato svestito, svelato: il Classico non è uno spazio separato, il Classico è il Contemporaneo.

Quindi, si scopre goffa e vana l’idea della contrapposizione Classico-Contemporaneo. Uno tempo dell’altro, l’archeologia qui non può essere cronologica: essi nascono insieme. Un “Classico” è stato uomo del suo tempo, è stato prodotto, educato dal suo tempo – dal linguaggio e dalle opere –, ha ricevuto, suo malgrado, il macigno di un’eredità da tenere sulla schiena. Altrimenti, dove può collocarsi un Classico? Eppure il classico, nato, è venuto al buio, non già alla luce. Ha visto nell’attualità buia del tempo la slogatura del presente, segnandolo come arcaico. Indistinta, come in una sovrapposizione di vetro, l’origine (arché) corre in parallelo al tempo e in esso opera.

Se il Classico abbandona l’idea di una memoria storico-teologica (scrivere come lasciar traccia, scrivere in vista della memoria comune, dell’Eden civile), esso è ciò che non può smettere di essere fruito, che non può slacciarsi dal tempo in quanto sua origine in cammino. L’Opera non svela nella propria finitudine l’Altro Mondo, ma ripercorre la ripetizione del tempo dove incontra la sua coda e passa da una carta ritmica semplicemente binaria (metronomo) a una melodica (narrazione, storia, separazione) – fa ritornello. «Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inesitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere» (G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo?).

Il classico è il contemporaneo in cui la morte viene “trasformata, in un istante, in un batter d’occhio, al (suono del)l’ultima tromba” (Paolo). La morte viene ingoiata e vinta, e l’immortalità si salva nella memoria. Spezzato l’appuntamento segreto tra Classico e Contemporaneo, la morte torna ad inquietare, senza soluzione umana. Ricostruire questo segreto significa sottrarsi dalla comprensione “Biennale” – l’Opera come esposizione e mercato – istituita come archivio industriale del classico che, come eterno, non può farsi scena. Problema: resta il pubblico, piccoli San Sebastiano trafitti da frecce di noia, che indulge, che vuole lo spettacolo, la parata del Classico-Contemporaneo, la spendibilità dell’opera.

Se io muoio il classico con me, se vivo convivo con un classico sepolto, sgomitato da cadaveri di ecfrasi in conto vendita. In uno spazio sotterraneo, tra le macerie del presente, si potrà forse ascoltare di nuovo: viene l’ora – ed è questa.

«Perché anche noi, ogni momento, affrontiamo pericoli? Ogni giorno sperimento la morte, com'è vero che voi, fratelli, siete il motivo di vanto che ho in Cristo Gesù, nostro Signore! Se solo per ragioni umane avessi combattuto con le belve a Efeso, a che mi gioverebbe? Se i morti non vengono risuscitati, mangiamo e beviamo; domani, infatti, moriremo! » (S. Paolo, Prima lettera ai Corinzi (I, 15, 52)).

Ma l’arte è tanto grande / e la vita così breve.

Il contemporaneo vive tra le cose morte.

Giacomo Berengo

Giacomo Berengo si forma nella traccia della filosofia tardo e post-moderna. Scrive di una scrittura atipica e mista, privilegiando temi legati alla filosofia della voce, all’estetica del contemporaneo e all’ermeneutica del linguaggio, del testo e del suono. Parallelamente, dal contatto con diverse realtà politiche e di ricerca artistica e musicale, delinea uno schizzo d’indagine sulla potenzialità poetica della TAZ nel poliedro che squadra e unisce spazio, potere, mistica, terrorismo, suono e scrittura.

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Note sulla pittura di Lorrain