Che cosa è una casa (quasi un esistenzialismo)
Edoardo Tresoldi, Basilica di Siponto, Parco Archeologico di Siponto, Italia, 2016. Foto: Fabiano Caputo.
A Nuova Yorke ci sono case e ci sono grattacieli. E dentro i grattacieli ci sono altre case, perché un grattacielo è come un contenitore per le case. Le case che stanno dentro ai grattacieli di solito le chiami appartamenti, ma le si può chiamare tranquillamente case, perché, in un’accezione piuttosto generale, una casa è un’unità abitativa, uno spazio vitale.
Dentro le case ci stanno le persone, ma le persone possono mancare. Alle volte, infatti, esse vengono a mancare. È perché sono mortali, dicono. È perché nel loro sistema vascolare si formano dei grumi e allora hanno emicranie e si ripiegano come pangolini. Alle volte sputano catarro, catrame, bile e viscidume vario. Poi, a un certo punto, non riescono più a sputare e si ingolfano come un vecchio motore, e soffocano. Spesso le persone debbono evacuare, e talvolta gli capita di defecare sangue per la presenza di una massa nell’intestino. Allora si fanno stendere su un tavolo e narcotizzare da persone similari; si fanno aprire e sminuzzare in un ambiente asettico. In seguito, assorbono tossine per eliminare per sempre quell’ospite, altrettanto e più nocivo. Così anche i capelli vengono a mancare, ed esse ottengono di morire pelate. Però hanno combattuto, dicono. Contente loro.
Quando muoiono, le persone vanno ad abitare in altre case, in altri appartamenti: dei locali chiamati loculi, e da lì escono solo dopo parecchi anni, per una disposizione comunale, finendo ad abitare chissà dove. Questi loculi in tutto razionali hanno forse ispirato certi alberghi giapponesi dove le persone dormono stipate, e per girarsi gli occorrono grandi manovre da acrobati o farfalle. Ma spesso le persone non sono acrobate o farfalle, e se ne stanno belle supine, come morte. Questa è una grande idea dal grande Oriente antico, di anticipare la morte al tempo della vita, e in quella compostezza serafica la morte ci apparirà un po’ meno vomitevole, probabilmente. Se un loculo è secco e ben sigillato si può verificare il processo detto di mummificazione naturale, come avviene per certe sepolture desertiche.
Si può dire che il mondo sia una casa piena di anditi, che il semplice stare sia un abitare, e che anche i sassi e i ruscelli abitino, per essere abitati a loro volta da insetti, pesci e altre creature. Saremmo tentati di dire che in una casa si può fare a meno di tutto, tranne che delle persone. È, questo, un modo di vedere molto poetico e consolatorio. Tuttavia, abbiamo appurato che non corrisponde al vero, che le persone sono proprio ciò cui si può rinunciare più facilmente (la coscienza è un nulla che erode la superficie compatta dell’essere). Soltanto della casa, la casa non può fare a meno, perché, appunto, la casa è l’abitare. L’idea più esatta di che cosa sia una casa ce la forniscono i russi con quelle loro gaie matriosche. Una casa è un contenitore racchiuso in un altro e così via, per giungere infine al mondo intero: contenitore ultimo, in se stesso contenuto. Ma il mondo non ha il volto pingue e gioviale di una madre.
Di case vuote di persone ce n’è a iosa. In Italia, per esempio, ce n’è sempre di più, e hanno un loro fascino legato all’abbandono e alla rovina, alla décadence. Quando restano disabitate per un tempo lungo, al loro interno si formano muffe e i ragni si moltiplicano, ed ecco dimostrato quanto dicevamo: le case non sono mai realmente disabitate (che non si azzardino, dunque, a riassegnarle). La nostra è una tesi solida e convincente: i ragni, infatti, non mancano mai, con le loro dimore ulteriori fatte di bava, di un filo sottile eppure tenace, che sa sostenere l’acrobata e imprigionare la farfalla. Ma spesso le persone non sono acrobate o farfalle, e per fortuna, aggiungiamo noi, o finirebbero digerite lentamente dai ragni. Dev’essere una morte atroce, perché il ragno le svuoterebbe dell’interiorità loro viventi, paralizzate.
Proviamo ora a determinare di che cosa davvero non si può fare a meno in una casa. Lo faremo così per gioco, naturalmente, pena il cadere in contraddizione (che per alcuni è la morte del pensiero; per altri, l’inizio). Ciò equivale a chiedersi che cosa ci debba essere necessariamente in una casa, che poi è quello che mi aveva chiesto Anna, ed è per trovate del genere che le voglio così bene. Tu, Anna, andrai ad abitare in una bella casa, ancora migliore della tua presente; avrai un bambino per puro egoismo e non commetterai gli stessi sbagli di tua madre (ne commetterai altri, però, bada: è inevitabile). E so che farai tutto questo senza mangiare mai nemmeno una braciola, e senza lasciarti troppo turbare dalle lame o dagli elettrodi, dai proiettili esplosivi, dagli scotennamenti, dai nastri trasportatori e dai tornelli, dai lacerti appesi ai ganci insanguinati e freddi della cella frigorifera o della cantina. So che a te riuscirà di essere felice. So che tu sei brava. E coraggiosa, anche. Comunque, noi procederemo così: via negationis.
Ebbene, di che cosa si può fare a meno in una casa? Si può fare a meno dei tavoli e delle sedie, perché in molti paesi si mangia seduti per terra e si sta abbastanza bene anche così. In certi paesi, a terra ci si appoggiano gli oggetti. Ma degli oggetti se ne può fare a meno e se non ce ne sono, tanto di guadagnato. Si può fare a meno della doccia e del lavabo, perché ci si può lavare nei ruscelli con gli insetti, i pesci e le altre creature. Si può fare a meno del bidet, come i francesi, che dicono di farsi la doccia al posto del bidet, ma noi sappiamo che non è così; che i francesi, semplicemente, il culo non se lo lavano. Si può fare a meno della cucina e del frigo, perché si può mangiare fuori ogni giorno (basta averci i soldi). Si può fare a meno dei muri, perché si possono sostituire con dei pannelli di legno, di carta o anche con niente. Si può fare a meno degli scaffali e dei libri (quelli che dicono che dei libri non si può fare a meno perché i libri sono il cibo dell’anima eccetera non hanno, ovviamente, capito un cazzo, e vengono smentiti di continuo dalla realtà, dai fatti). Si può fare a meno del televisore, perché se ne può fare a meno e basta. Si può fare a meno del letto, e viene solo un po’ scomodo scopare sul pavimento (non scopare il pavimento, che senza il letto di mezzo viene molto più comodo). Si può fare a meno delle persone, già lo abbiamo detto, e si può fare a meno di vivere. Per quello è sufficiente ammazzarsi o, il che è lo stesso (almeno secondo il fine, la fine), lasciarsi morire.
È di morire che proprio non si può fare a meno, dicono. E di abitare, se abitiamo dei luoghi anche da morti. Perciò, in definitiva, non sarebbe un errore affermare che noi siamo una morte abitante, un abitare mortale: è questo che siamo (le persone, cioè noi). La morte è il nostro abito, e ora possiamo smettere di morire agli altri. Ora possiamo morire la nostra propria morte. Ma questo, purtroppo, non lo dice mai quasi nessuno. E allora diciamolo qui. Perché noi, in fondo, lo sappiamo da sempre. Perché, in fondo, a noi non dispiace.