Sul fare del simbolo

 
Wenzel Hablik, Castello di cristallo sul mare,(1914), 200 x 160 cm, collezione privata.

Wenzel Hablik, Castello di cristallo sul mare, 1914, 200 x 160 cm, collezione privata.

 

a Victoria Cirlot

… è piuttosto immaginario questo nostro mondo per coloro che si sono capovolti su se stessi, che si sono rovesciati, giungendo al centro del mondo spirituale che è più autenticamente reale di loro stessi.

P.A. Florenskij

Angelo… verbo del silenzio più alto, significato di cui non si dà stima. Accordatore di polmoni che dora i grappoli vitaminizzati dell’impossibile… Angelo: candela che si china a settentrione del cuore.

R. Char

Non più l’Angelo ‘passa’, trasmette, intercede, ma egli stesso è passaggio: icona dello stesso in-stante… sospeso nel suo essere-istante, pazienta in esso…

M. Cacciari

Un fare

Ogni tentativo di rappresentare il mondo in una conoscenza coerente, che tutto ‘tenga insieme’, inaugura una simbolica del pensiero, una visione che è l’ordine stesso del mondo (Weltordnung) – se è vero che ordo et connexio rerum idem est ac ordo et connexio idearum. La storia della filosofia è l’ininterrotto avvicendarsi di queste chiusure schematizzanti della teoria e delle crisi speculative che, facendo saltare i fondamenti dell’ordine simbolico, riaffermano l’informe opacità del mondo, esigendo una nuova e più potente simbolizzazione. Questo aprirsi e chiudersi del pensiero, così simile alle pindariche «mascelle feroci» della sfinge, ha finito per produrre un nodo che la razionalità moderna non riesce più a districare, una caligine che nessuna speculazione può fendere. E questo è, forse, l’ultimo enigma della sfinge.

Nella grande crisi delle scienze (dove la condizione del potenziamento di una scienza consiste nella progressiva e accelerata specializzazione, da un lato, e, dall’altro, nell’altrettanto accelerata dimenticanza delle relazioni che la legano a tutte le altre) i fondamenti stessi dell’episteme si sottraggono alla positiva determinazione. Ecco la disperazione della razionalità moderna, incapace di governare il proprio prodotto storico, di ricondurre a unità la proliferante molteplicità dei saperi e delle pratiche. E il crollo della pretesa di simbolizzare il mondo (attraverso le categorie logiche che nei secoli la filosofia ha costruito e raffinato) implica il tramonto dell’idea stessa di ‘filosofia prima’: un sapere capace, al tempo stesso, di emanare e di richiamare a sé le scienze particolari.

Ciò che resta, dopo questo esaurimento storico della simbolizzazione, non è soltanto la proliferazione delle opinioni, dei relativismi inconcludenti (che cos’altro è l’ermeneutica?); vi è un’altra nozione di simbolo, consistente non in una speculazione raziocinante, ma nell’esperienza di un movimento sempre in atto, che attraversa e trasfigura ogni ambito disciplinare. Simbolo è ciò che promette l’uscita dallo stallo logico e spirituale della tradizione filosofico-scientifica occidentale, per dirigersi verso un’ulteriorità che sta al cuore stesso di ogni speculazione; una postura del pensiero che manifesta l’armonia stessa che regge e lega fra loro tutte le forme del sapere.

Questo doveva intendere il giovane Cortázar, in una pagina illuminante: «Quest’urgenza di comprensione per analogia, di vincolo prescientifico, nascendo nell’uomo dalle sue prime operazioni sensibili e intellettuali, è ciò che lo porta a sospettare una forza, una direzione del suo essere verso la concezione empatica, molto più importante e trascendente di quanto voglia ammettere qualsiasi razionalismo… qualcosa come occhi e orecchie e tatto proiettati al di fuori di ciò che è sensibile, che colgono relazioni e costanti, esploratori di un mondo irriducibile nella sua essenza a ogni ragione».

Che cos’è, allora, un simbolo? La domanda è mal posta. Che cosa fa un simbolo? Ecco la formulazione corretta. La domanda giusta sussume in sé quella sbagliata. Talvolta, rispondendo alla domanda esatta, si risponde simultaneamente anche alle infinite errate, conducendo l’errore nel dominio del vero. Ma non è formulabile in un discorso. È un’energia infigurabile: profilo lampeggiante fra le pieghe di un prisma, silenzio che abbraccia una moltitudine di voci.

Fra il XIX e il XX secolo, nel divampare della crisi delle scienze, l’azione dinamica e viva del simbolo è stata esperita e descritta – precariamente, così come si può indicare mediante parole, immagini o suoni, un sapore – da alcuni autori, fra loro diversissimi, lontani l’uno dall’altro come corpi celesti. Ma ciò che occorre interrogare è proprio la consonanza delle loro concezioni del simbolo: l’atmosfera oscura e diafana che li avvolge, e li riunisce in un’unica costellazione.

Realtà della soglia: l’Angelo

La terra invisibile (unsichtbar Erde) che chiede all’uomo di rinascere in lui: la Nona elegia contempla in questa immagine il proprio inizio («sembra abbia bisogno di noi / tutto quello che è qui, l’effimero, che / stranamente ci riguarda») e la propria conclusione («Terra, non è questo che vuoi: invisibile / sorgere in noi? – Non è il tuo sogno questo, / d’essere una volta invisibile? – Terra! Invisibile!»). Introducendo il lettore nel cuore del poema, Rilke afferma che il compito dell’uomo consiste nel ripetere alcune semplici parole, perché esse sono la soglia attraverso la quale deve risorgere la terra: «Siamo qui forse per dire: casa, / ponte, fontana, brocca, albero da frutto, finestra, – / al più: colonna, torre… ma per dire, comprendilo, / per dire così come persino le cose intimamente mai / credettero d’essere… / Soglia: cos’è mai… / Qui del dicibile è il tempo, qui la sua patria».

Rilke sottolinea che questo invisibile non coincide affatto con il non-visibile; l’idea di qualcosa che non è ancora visibile presuppone il nascondimento di un contenuto che si potrebbe vedere, se solo l’uomo fosse capace di rimuovere la cortina che glielo occulta. Ma l’invisibile non può essere visto alla stregua di un oggetto («Non il vedere [Nicht das Anschaun], qui / lentamente imparato»); ecco l’esigenza di passare dal vedere qualcosa al puro vedere, a quello sguardo che coincide con la verità stessa del veduto, e nel quale la terra risorge.

Il simbolo non nasconde nulla dietro di sé, se non il movimento metamorfico che lo fa accadere: «Che cosa, se non metamorfosi [Verwandlung], è il compito a cui ci solleciti? / Terra, tu cara, io voglio». Per questo il simbolo-evento è una soglia, varcando la quale si diviene il simbolo stesso; simbolo è ciò che si è disposti a diventare nell’istante in cui lo si attraversa: «E così ci affanniamo e vogliamo adempirlo [l’irrevocabile essere stati], / contenerlo nelle nostre semplici mani, nello sguardo che più ne trabocca [überfüllteren Blick] e nel cuore senza parola [sprachlosen Herzen]. / Vogliamo divenirlo [Wollen es werden]»; «Vedi, io vivo. Di che? … Esorbitante esistenza / mi scaturisce dal cuore».

In una lettera non datata a Witold von Hulewicz (il bollo postale indica il 13 novembre 1925), Rilke torna su questi nuclei speculativi, in particolare sull’Angelo delle Duinesi. Il bersaglio polemico di queste pagine è il modo triviale – definito ‘cristiano’ e ‘cattolico’ – di intendere il simbolo: lo scadimento cronolatrico dell’eternità a infinita durata e dell’invisibile a un contenuto accessibile solo post mortem. L’Angelo a cui Rilke fa riferimento, all’opposto, è precisamente l’aver luogo della visione, è la trasfigurazione simbolica in atto, la risurrezione della terra invisibile.

Stupisce lo sprezzo con cui Rilke sembra ignorare l’inesausta lotta, tutta interna al Cristianesimo, fra messianismo ed escatologia, fra tempo della fine e fine del tempo. Ma la cosa più sconcertante è la dichiarata vicinanza all’angelologia islamica: «Se si commette l’errore di applicare alle “Elegie” e ai “Sonetti” i concetti cattolici della morte, dell’al di là, e dell’eternità, ci si allontana del tutto dalla loro origine e ci si prepara un sempre più fondamentale equivoco. L’Angelo delle “Elegie” non ha niente a che fare con l’Angelo del cielo cristiano (piuttosto con le figure d’Angeli dell’Islam)… L’Angelo delle “Elegie” è quella creatura in cui appare già perfetta la trasformazione del visibile nell’invisibile che noi andiamo compiendo». L’Angelo islamico, quindi, è per Rilke la compiutezza della trasfigurazione, nello sguardo, della terra invisibile.

Difficile, allora, non pensare all’angelologia iranica, traghettata in Europa da Corbin. Studiando furiosamente gli insegnamenti dei platonici di Persia e della grande tradizione mistica islamica, Corbin ha infatti ridato voce alla loro metafisica orientale, che non si rivolge tanto a una regione geografica, quanto alla capacità dell’immagine di ‘orientare’ il pensiero verso la sua autentica realtà: il crinale impalpabile del mundus imaginalis, che a un tempo separa e congiunge visibile e invisibile. E proprio per il suo carattere di anticipazione, nel tempo storico, di ciò che è immobile e celeste, questa regione è detta paese di non-dove (Nā-kojā ābād). È il luogo dell’Angelo, della Luce che, invisibile all’occhio, fa vedere. Ecco l’inizio della conoscenza, manifestata nell’illuminazione (zohūr) che svela (kashf) l’essere allo sguardo.

Qui, come in tutta la tradizione neoplatonica, non si tratta di una conoscenza rappresentativa; l’essere che è illuminato-svelato diviene un fenomeno, ma la prima, fondamentale rivelazione è quella interiore: è «un’illuminazione presenziale (ishrāq hodūrī) che l’anima, in quanto essere di luce, fa sorgere sull’oggetto; essa se lo rende presente rendendosi presente a se stessa». In questo presentarsi dell’anima a sé, nel silenzio di un tale riflusso, le stesse percezioni sensibili si fanno diafane, e si profila l’originario spazio intermedio, distante tanto dal mondo sensibile che da quello intelligibile. Questo intervallo tra i due ordini (la Luce pura e gli esseri sensibili), non è già il mondo delle idee, ma quello delle forme-immagini sospese, che «non sono immanenti a un sostrato materiale… ma... possiedono dei ‘luoghi epifanici’… in cui si manifestano, come l’immagine ‘sospesa’ in uno specchio». È il luogo delle immagini vere, forme sottili che non rappresentano qualcosa, ma sono vere in se stesse.

Ma queste forme sono anche autonome dal mondo sensibile. Indicando le idee platoniche (Mothol Iflātūnīya), l’immaginazione orienta-richiama il contemplante dal suo esilio nell’universo della materia-tenebra verso l’Oriente di Luce, ma il compimento di questo evento reale – la trasfigurazione del visibile nell’invisibile – presuppone la realtà del mundus imaginalis stesso. Qui sta la realtà dell’immaginazione, il punto inesteso di una clessidra dove, anziché convergere e addensarsi, i due ordini speculari co-spirano, e vengono incessantemente emanati. In questa sottilissima contrazione che è l’imaginale avviene la trasfigurazione: il corpo è spirituale, e la terra celeste. In questo senso si parla di ‘sole di mezzanotte’ e di ‘luce nera’, espressioni che non si riferiscono a una coincidentia oppositorum, ma al fatto che questa Luce, che fa vedere, non potrà mai reificarsi in un visibile.

In pochi, mirabili versi, Stevens ha indicato l’Angelo-soglia, secondo la stessa intonazione di Rilke e Corbin: «Io sono l’Angelo della realtà, / intravisto un istante sulla soglia. // … // Eppure, io sono l’Angelo necessario della terra, / poiché chi vede me vede di nuovo // la terra, libera dai ceppi della mente, dura, / caparbia, e chi ascolta me ne ascolta il canto» – quello stesso canto che Rilke chiamava «melodia delle cose [Melodie der Dinge]» e «possente melodia di sottofondo [mächtigen Melodie des Hintergrundes]».

Vita, analogia e infinità

Questa natura estatica dell’illuminazione del simbolo-soglia appare in alcune delle più dense pagine di Pessoa, che riferendosi all’esoterico Ordine di Cristo afferma: «Quando si è scudieri dell’Ordine, non vi si è ancora entrati; quando si è maestri, non gli si appartiene già più». Anche qui, la soglia non deve essere varcata per raggiungere e possedere un contenuto. Il nucleo, la vita del simbolo è la soglia stessa, che è reale solo nell’istante del proprio attraversamento.

Nelle poche righe della Nota preliminare al poema Messaggio, Pessoa espone al lettore-interprete «cinque qualità o condizioni, senza le quali i simboli sarebbero per lui morti, e lui un morto per essi [os símbolos serão para ele mortos, e ele um morto para eles]». Essere morti per il simbolo, quindi, coincide con la morte del simbolo stesso, e il simbolo muore quando viene ridotto ad allegoria, a significato. Il simbolo non sarebbe, allora, che una comunicazione, un modo del linguaggio significante, razionalmente interpretabile – e quindi, una volta codificato, concettualmente oltrepassabile, poiché la comprensione logica del simbolo-allegoria implica immediatamente la rimozione dell’elemento figurale. (Dimentico della propria origine immaginifica, il concetto cerca sempre di soppiantare la metaforica della Hieroglyphensprache). Il rischio di questo approccio errato al simbolo è esattamente ciò che le cinque condizioni scongiurano – ma queste non sono elencate secondo una processuale gradualità intensiva, essendo in realtà consustanziali e contemporanee.

Pessoa comincia parlando della simpatia provata dall’interprete «per il simbolo che intende interpretare», intendendo la disposizione all’azione del simbolo, la partecipazione a una forza che non chiede di essere interpretata, ma vissuta. L’idea ritorna nei Frammenti di filosofia ermetica: «In primo luogo sentire i simboli, sentire che i simboli hanno vita e anima – che i simboli sono come noi. Solo dopo verrà l’interpretazione, ma senza questo sentire l’interpretazione non viene». Perché anche il simbolo interpreta l’interprete, che nell’intuizione («quel tipo di comprensione con cui si sente ciò che sta oltre il simbolo [além do símbolo], senza che si veda») percepisce in sé il movimento di questa potenza invisibile, questa ulteriorità che, innervando la forma simbolica, la eccede – inespressa perché inesauribile.

Così anche per l’intelligenza «che analizza, scompone e ricostruisce il simbolo su un altro livello»: contemporanea e partecipe di simpatia e intuizione, l’intelligenza rompe l’unità formale del simbolo, facendo scorrere in questa operazione il movimento del simbolo stesso, che proprio per questo viene ricomposto su un altro livello. Una volta liberata dall’erudizione e dalla gabbia del calcolo raziocinante, infatti, «l’intelligenza, da discorsiva quale naturalmente è, diventerà analogica, e il simbolo potrà essere interpretato». Ma questa intelligenza analogica – dove la logica discorsiva (dianoia) si riscatta, mutandosi in pura visione (noesis) – coincide ormai perfettamente con il simbolo che inizialmente voleva interpretare. Una simile intelligenza non è altro che la comprensione, ovvero una conoscenza «di altre materie, che permettono che il simbolo sia illuminato da varie luci, in relazione a vari altri simboli, poiché, in fondo, tutto è lo stesso [é tudo o mesmo]». Comprendere un simbolo significa intenderlo come l’infinita risonanza di tutti i simboli, che, nella loro diversità, costituiscono lo stesso simbolo. Trasfigurato in questa consonanza, il singolo simbolo è, al tempo stesso, pienamente se stesso e partecipe di tutti gli altri simboli, di tutte le altre particolari rifrazioni della realtà che innerva ogni simbolo, e che in ogni simbolo appare e agisce.

Un simile movimento non è rappresentabile se non in uno schema graduale-processuale, che va dalla simpatia all’intuizione, fino all’intelligenza e alla comprensione. Ma un’esposizione del genere finisce necessariamente per occultare la contemporaneità di queste figure, il loro essere costitutivamente l’una nell’altra. Per questo la quinta condizione è, per lo stesso Pessoa, «la meno definibile»: non è più possibile descrivere l’esperienza del simbolo (mediandola in una comunicazione) proprio perché ormai si è nel simbolo stesso, in quel puro vedere dove la distinzione fra il soggetto e l’oggetto è abolita. Cercando di nominare questa condizione, Pessoa allude agli eventi e ai contesti più disparati («Direi forse, parlando ad alcuni, che è la grazia, parlando ad altri, che è la mano del Signore Sconosciuto, parlando a dei terzi, che è la Conoscenza e la Conversazione del Santo Angelo Custode»), perché, come i simboli, in realtà queste espressioni sono la stessa cosa: ognuna di esse attinge l’evento della propria singolarità irriducibile solo scoprendo di essere, simultaneamente, tutte le altre («intendendo ognuna di queste cose, che sono la stessa nel modo in cui le intendono coloro che le usano, parlando o scrivendo [entendendo cada uma destas coisas, que são a mesma da maneira como as entendem aqueles que delas usam, falando ou escrevendo]»).

Abbandonata la logica dianoetica e vivendo l’estasi della visione, si giunge alla vertigine dell’analogicità che lega tutti i simboli: un universo sorretto da una ragnatela di armonie geometriche. Ma se il singolo simbolo è interno a tutti gli altri, e tutti gli altri sono interni a lui, allora il simbolo sarà pienamente se stesso solo quando saprà ascoltare, nella propria configurazione particolare, la spinta energetica che attraversa e innerva ogni simbolo. La vita del simbolo sta in questo perpetuo oltrepassamento della propria individualità. Questo non significa che i simboli vengono ridotti ad unum; all’opposto, è la loro infinita e incessante moltiplicazione a svolgersi secondo un movimento unitario. Molteplicità e unità del simbolo coincidono, e coincidono in ogni simbolo.

Al cuore del tempo

Questa vertiginosa contemporaneità – per cui in ogni simbolo si agitano e proliferano tutti gli altri – è anche il motivo nascosto, e proprio per questo centrale, del grande Dizionario dei simboli di Cirlot. Ma anche qui, il pericolo in agguato è lo stesso da cui metteva in guardia Pessoa: intendere quest’opera come una statica campionatura che vorrebbe dare alla muta figura la voce del significato logico, dissolvendo quindi l’immagine nel concetto. Ma il Dizionario di Cirlot non ha nulla della volgare iconologia; non è un’enciclopedia rigidamente, cadavericamente nozionistica. Esso, all’opposto, partecipa della vita del proprio oggetto: ogni ‘voce’ di questo capolavoro implica ed emana un’infinità di significati, senza lasciarsi esaurire da essi. Nel dizionario, l’accidentalità dell’ordine alfabetico scandisce la processione delle voci; ordine che svanisce quando esse siano riconosciute come risonanze di un’unica vibrazione. Sfogliare quelle pagine significa, infatti, essere attraversati dall’energia stessa del simbolo, contemplando il continuo fluire di ogni simbolo nella selva delle infinite corrispondenze – dove ogni rigida forma si versa nelle altre, e in esse si ritrova. (Schema mistico: solo rinunciando alla cadaverica fissità dell’identico è possibile l’istantanea coincidenza di singolarità e infinito, di parte e tutto). Abbandonarsi alla musica di queste corrispondenze, al turbine diafano che in questa simultaneità accoglie e sprigiona ogni timbro particolare, significa essere folgorati e inceneriti dallo stesso sguardo angelico.

Ma l’interiorità del cuore, luogo dell’exaiphnes, non coincide con la dimensione psicologistica di un soggetto. Questi due domini sono, anzi, radicalmente opposti. Ed è la dimensione del tempo a decidere il sopravvento di un contendente sull’altro. Infatti, l’opera dell’Angelo (la visione che trasfigura il visibile nell’invisibile, e nella propria istantaneità dischiude l’originaria co-implicazione di ogni simbolo con gli infiniti altri) spalanca una inaudita concezione del tempo.

L’istante è finalmente strappato all’illusorio fluire cronologico che il continuum storiografico istituisce. Nella Fisica di Aristotele, infatti, la continuità e l’unidirezionalità (220a 25; 223a 33) del tempo-chronos sono deducibili a partire dalla sua definizione, per cui esso è numero-misura del movimento, secondo un prima e un poi (220a 24). Ma questo numero-chronos non ha una realtà oggettiva; all’opposto, esso è il frutto delle rappresentazioni-phantasiai della psyché, ed esiste solo quando questa percepisce-interpreta il mutamento (218b 29-32; 223a 16). Senza l’anima, il tempo-chronos non esisterebbe (223a 25) – tanto basta per sconfessare la fede nell’indubitabilità del tempo come continuità unidirezionale.

Ma nella ierostoria non vi è unidirezionalità. Non c’è nessuna freccia che punti dal passato al futuro, dalle cause agli effetti. Tutto si trasforma: l’interruzione del continuum storico non abolisce il tempo, perché è il cuore stesso del tempo. Non esiste più il momento-movimento, preso nel flusso cronologico e inchiodato alla necessità del suo trapasso; il momento è liquefatto nell’istante-visione, che comunica con tutti gli altri innumerevoli istanti. (Ecco l’idea dello ‘spaziotempo puntiforme’ di Michaux – dove, nelle parole di Segalen, chaque point est une pointe). È la stessa ierofania, che ha avuto luogo in un’ora precisa della storia universale, a rinnovarsi costantemente in ogni visione.

Così, la storia si muta in ierostoria: la terra invisibile risorge, e risorge in un punto irriducibile allo spazio fisico e in un istante non collocabile nel tempo cronologico. La geografia fisica si riconosce come la signatura dello spazio sacro, e il tempo storico è trafitto dall’istante trasformativo, che è il ritmico articolarsi della stessa ierostoria.

Il mondo stesso è il miracolo, e vederlo nell’Angelo significa riconoscerlo nell’istante della sua stessa creazione. Contro le mitologie che pensano la creazione come un ‘passato’, l’Angelo contempla il mondo nel suo nascere ora. In questa sensibilità angelica trovano il loro senso i versi che l’eteronimo Alberto Caeiro scrive nel ’14: «Mi sento nascere in ogni momento / per l’eterna novità del Mondo… / … / (pensare è un’infermità degli occhi) / … / Io non ho filosofia: ho sensi».

Assistere alla propria nascita, che è la ricreazione del mondo: questo è il fare del simbolo.

Tommaso Scarponi

È nato ad Assisi nel 1994. Ha studiato Filosofia a Perugia e a Milano. Attualmente è dottorando in Filosofia alla Pontificia Università Lateranense di Roma. È autore di una monografia su Walter Benjamin, “Benjamin e l’incanto” (Jouvence, Milano 2021), di “Distruzione e analogia. La fine del pensiero in Colli e Melandri” (Castelvecchi, Roma 2025) e di vari scritti apparsi su «De pictura», «Pangea» e «sovrapposizioni». Vive attualmente a Venezia.

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