Goodbye World. Conversazione con Michael Bible

Traduzione dall’inglese di Arianna Elena Guinis

Simone Raviola: Ciao Michael. Grazie per aver accettato di rispondere a qualche domanda.

I tuoi due libri tradotti in italiano, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra [The Ancient Hours] e Goodbye Hotel [Little Lazarus], mi sembra siano due romanzi che hanno innanzitutto a che vedere con l’idea di tempo, tempo umano e tempo cosmico. Ma anche tempi che si fondono e si diffrangono nella memoria delle voci che raccontano e che raccontando ricordano. Tempo che non smette di finire e che ossessiona un po’ tutti i tuoi personaggi. Cosa ti interessa del tempo? Cosa cerchi nella manipolazione dei differenti strati temporali? Qual è il tuo rapporto con la fine e che relazione c’è secondo te tra la letteratura in generale e il fatto brutale che persone, cose ed eventi finiscono?

Michael Bible: Sono cresciuto in una piccola cittadina, dove il tempo sembrava avere un peso tutto suo, una sua strana e surreale logica. L’arte sospende il tempo e porta alla luce le sofferenze, i fallimenti e le vittorie. Uno dei chiari obiettivi della letteratura è ricordarci che siamo destinati a scomparire, e che non dobbiamo sprecare le nostre vite provando a impossessarci del futuro o rivangando il passato, ma piuttosto imparare a vivere con umiltà e coraggio di fronte al tempo che passa. Non esiste gioia senza sofferenza, non esiste vita senza una fine.

SR: Il tempo non è solo l’oggetto, ma è anche la stoffa dei tuoi racconti - come di ogni racconto in generale forse. Una delle cose che più mi ha sorpreso dei tuoi libri è come acceleri o rallenti il ritmo della narrazione. Con una frase liquidi una manciata di anni e spendi alcune pagine su un frammento di tempo, senza mai risultare pedante o approssimativo. Come costruisci la struttura dei tuoi lavori? Scrivi d’istinto, seguendo l’impulso, o progettando l’architettura generale? Come sono nati questi due libri?

MB: Di solito parto da una vaga idea della storia e da lì proseguo. A volte un’immagine, un finale o una singola frase mette in moto tutto, ma una volta entrato nel flusso della scrittura resto aperto a ogni possibilità. Un po’ come un musicista jazz che improvvisa su una melodia conosciuta.

 

M. Bible, Goodbye Hotel, traduzione di Martina Testa, Adelphi, Milano 2025, pp. 156.

 

SR: La tua scrittura è incisiva, nitida, a tratti violenta, ma non cinica. Il ritmo della frase è serrato e non si espande in subordinate chiacchierate. Però, insieme all’esattezza della descrizione, si trova spesso la visione. Mi ha colpito molto una frase in Goodbye Hotel, una metafora semplice, ma che continua a ronzarmi in testa perché incastrata alla perfezione nel tessuto narrativo: «Il sole formava diamanti sull’acqua». Quali sono i tuoi punti di riferimento per la scrittura, letterari e ideali? Da dove viene questa necessità di scrivere in maniera breve, dettagliata e pure simbolica?

MB: La prima opera letteraria che ho letto è stata il Nuovo Testamento. I vangeli della Bibbia di re Giacomo offrono un esempio di straordinaria poesia e di sperimentazione narrativa. Da bambino ero ossessionato dalla poesia lirica, così come più tardi sono stato ossessionato dalla poesia narrativa. Per questa ragione, come scrittore di narrativa, la mia attenzione rimane sempre sulla frase. Mi avvicino alla prosa come potrebbe fare un poeta. Immagine, ambiguità, mistero, musica.

SR: In entrambi i libri si ha la sensazione di essere davanti a una scrittura visionaria, quasi mistica, attratta dalla magia e dalle segrete connessioni dell’universo. C’è sicuramente un afflato di spiritualità che, al di qua di ogni pietas religiosa, si incarna in una sorta di fede nel mondo e di quello che del mondo non si comprende fino in fondo. Come pensi la relazione tra la distruzione, ad esempio il fuoco che divampa di cui racconti in entrambi i libri, e questa santificazione beata delle cose - questo sguardo melanconicamente sereno che sembra “benedire” pure il male?

MB: Lo stupore arriva dell'impermanenza delle cose. Non amo gli assoluti, la fugace immagine poetica mi sembra più onesta. La vita non sembra mai definitiva, il tempo non lo permette. Continua a scorrere nonostante le nostre proteste. Per quello che riguarda la fede, credo che siamo circondati da una profondità che la maggior parte delle persone ignora. Le persone tendono ad aggrapparsi a cose come la religione, lo status sociale o il nazionalismo. Non l’ho mai capito. Esiste qualcosa di molto più dinamico, inebriante e pericoloso: l’estatico.

SR: In un breve saggio del 1848 Thomas De Quincey distingueva tra letteratura della conoscenza (literary of knowledge) e letteratura del potere (literature of power). E scriveva: «All the steps of knowledge, from first to last, carry you further on the same plane, but could never raise you one foot above your ancient level of earth; whereas the very first step in power is a flight, is an ascending movement into another element where earth is forgotten». Percepisci questo movimento ascensionale nei tuoi lavori? O cerchi piuttosto di aumentare la conoscenza del mondo in qualche modo?

MB: Sono piuttosto diffidente verso parole come “conoscenza” o “potere”. Sono concetti positivi, legati alla presenza, all’azione, al fare. I miei interessi vanno nella direzione opposta. Sono attirato dall’assenza, dall’ignoranza, dal fallimento, dalla solitudine, dal silenzio.

 

M. Bible, L’ultima cosa bella sulla faccia della terra, traduzione di Martina Testa, Adelphi, Milano 2023, pp. 135.

 

SR: Giochi abbastanza con il punto di vista narrativo. Goodbye Hotel si apre con un invito-preghiera da grande epopea, ad aprire L’ultima cosa bella sulla faccia della terra è invece una sorta di coro che mima quello della tragedia greca. In entrambi i libri ci sono capitoli narrati da un personaggio che, da una stanza di hotel o dalla stanza di una prigione, racconta la sua storia (e forse mente). Come costruisci i punti di vista dei tuoi racconti?

MB: Amo il modo in cui registi metafisici come Bresson, Ozu o Dreyer rischiano la noia per avvicinare lo spettatore alle vite dei personaggi. Questi registi ci negano i comfort dei film hollywoodiani, con trame elaborate, musiche travolgenti e montaggi rapidi. Resistendo a questi elementi creano un'atmosfera che evoca qualcosa di più alto, qualcosa di spirituale. Io provo a usare prospettive narrative in costante movimento per disorientare in qualche modo il lettore. Voglio negargli i soliti comfort della narrativa e sostituirli con un’atmosfera. Qualcosa di inaspettato e strano. Mi sembra che sia più vicino alla vita.

SR: Cosa ne pensi dell’autofiction, così in voga al momento: è per te un genere problematico - o da cui prendi ispirazione? Che spazio ha la verità, e il suo contrario, nei tuoi libri?

MB: Non sono particolarmente interessato a me stesso in quanto soggetto. Preferirei piuttosto che l’autore scomparisse da un’opera di finzione. Sono ossessionato dalle altre persone e dal viaggio della mia immaginazione.

Michael Bible

Michael Bible è uno scrittore nordamericano, nasce nel North Carolina e vive a New York. In Italia Adelphi ha tradotto e pubblicato due suoi libri: L’ultima cosa bella sulla faccia della terra (2023) e Goodbye Hotel (2025).

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Disgustosa mania da inglese