Disgustosa mania da inglese

Miriam Cahn, Vorkriegsträumen - dettaglio, olio su tela, 2003. Parigi, Centre Pompidou, inv. AM 2016-57.

Microfictions 2018 di Régis Jauffret è un libro strano: mille pagine, cinquecento racconti, cinquecento «io», che poi sono cinquecento «vite qualunque», «vite infami», «vite minuscole». Il libro è una piccola rivoluzione del genere: diffrange la totalità romanzesca, eliminando ogni unità di tempo, luogo o soggetto narrativo, e contesta la dittatura dell'autofiction, facendo implodere l’io narrante in un caleidoscopio di voci che, sostanzialmente invariate nel tono, dissolvono ogni egologia autoriale (il cancro del nonno, la depressione narcisistica, l’amore mancato, la prima caduta dalla bicicletta, etc). Microfictions è però anche una vertiginosa tassonomia di abiezioni, desideri, frustrazioni e mediocrità: con una scrittura pulita e un tono ironico, Jauffret inventa forsennatamente nuove forme di vita, possibilità verosimili o improbabili dell’esistenza umana che come scie nel cielo durano il tempo di qualche minuto: il tempo di due pagine.

Pubblichiamo tre estratti nella traduzione di Tommaso Gurrieri (Régis Jauffret, Microfictions. Racconti, Edizioni Clichy, Firenze 2019): Disgustosa mania da inglese (pp. 201, 202); Iperico (pp. 439, 440); Papà, Cancro (pp. 695, 696).

Si ringrazia Edizioni Clichy per l’autorizzazione alla pubblicazione.

 

Disgustosa mania da inglese

La notte mi rialzavo. Volevo sapere se i miei genitori erano morti. Mi chinavo su di loro tendendo l’orecchio per percepire il loro respiro.

Andavo in cucina a mangiucchiare qualche peperoncino. Tornavo in camera. Mi guardavo nell’armadio a specchio proiettando sul mio corpo il fascio della lampada pieghevole del mio tavolo. Avrei voluto poter ridisegnare il mio seno, cambiare sedere, avere una vulva meno prominente e farmi trapiantare degli occhi da cerbiatta.

Mi addormentavo ascoltando un disco di Alice Cooper. Sognavo che l’intero palazzo sprofondava in mare e che i letti lanciavano dalle finestre la gente che dormiva. Continuavano a dibattersi tra le onde mentre io camminavo in mezzo a una guerra, raccogliendo le bombe. Mia madre mi svegliava senza darmi il tempo di fare un massacro.

«Smetti di scuotermi».

«Allora svegliati».

Aveva preparato un porridge. Una disgustosa mania da inglese che ha partorito una bambina in Francia invece di fare la fattrice nel suo Yorkshire natale.

«Perché ci sputi dentro?».

Lo buttavo nella pattumiera. Andavo in bagno. Non mi piaceva quella tenda della doccia troppo rosa, lasciavo tutto aperto. Mio padre urlava vedendo un rivolo d’acqua uscire da sotto la porta. Uscivo ricoperta di schiuma fino ai capelli.

«Insomma, vestiti».

«Pettinami il cespuglio, piuttosto».

Era spaventato dalla perversione di sua figlia. Per rappresaglia andò a chiudere l’acqua calda. Io svuotai il suo flacone di dopobarba nel lavandino. Arrivai in ritardo al liceo. Tutti parlavano ancora della morte di Georges Pompidou che era avvenuta il giorno prima. A quell’epoca gli avvenimenti duravano, i cervelli erano lenti come i computer IBM incapaci di fare calcoli complessi senza il supporto dei battaglioni di ingegneri dedicati alla loro programmazione.

«Quando tornai la sera a casa i miei genitori erano in salotto a discutere».

Li osservai attraverso un riquadro della porta a vetri del corridoio. Parlavano chiaramente, le loro voci erano in sincronia con il movimento delle loro labbra. Non capivo perché provassero il bisogno di esprimersi invece di tacere come le poltrone su cui erano seduti.

«Mi rifiutai di cenare con loro».

Per ingannare la fame andai a letto con una borsa dell’acqua calda sullo stomaco. Mi rialzai alle due di notte. Respiravano a bocca aperta con appetito. Staccai il tubo di caucciù della stufa a gas. Gli sopravvissi.

Gli anni di ospedale psichiatrico non mi sono piaciuti. Una volta rilasciata ho fatto per trent’anni l’addetta alla reception di un hotel di Digione. Ce l’ho con i miei genitori per essere stati lassisti. Un’educazione severa avrebbe soffocato in culla la mia schizofrenia.

 

Iperico

Secondo lei gli addetti alla nettezza urbana lo butterebbero dentro il camion e non se ne preoccuperebbero più che di un cane morto.

«In ogni caso sarà in pessimo stato».

Pensa che esploderà come un gavettone. E poi la notte le macchine non si soffermano in questo quartiere, passerebbero e ripasserebbero sui resti. Forse la mattina non ci sarebbe più niente.

«Si è certamente sbagliata di grosso».

Nella sua vita sono successe tante cose e in quel periodo il suo metro di giudizio si è alterato. In aprile è stata licenziata perché dei colleghi sostenevano di averla vista più volte dedicarsi ad atti a pagamento dietro il banco del reparto formaggi con clienti del negozio. La direzione dell’ipermercato ha generosamente riconosciuto che il suo stipendio da cassiera part-time era misero.

«Ma non tanto da mettersi a fare la puttana».

Per pruderie nessun sindacato ha accettato di difenderla. Adducendo come argomento che la prostituzione non era di loro competenza, i servizi sociali l’hanno mandata a quel paese. Visto che non guadagnava più niente, suo marito l’ha abbandonata da un giorno all’altro. È entrata in depressione, ma grazie alla forza di volontà e ai decotti di iperico ne è uscita alla meno peggio dopo qualche settimana.

«È allora che ci siamo incontrati».

Non le rimprovero la pancia, ho perfino iniziato dei lavori per trasformare il retro della cucina in cameretta. Mi piacciono i suoi bambini come nipoti, ma quando si è padri non si può pretendere sul serio di amare i figli degli altri come i propri.

«Le ho promesso di sposarla».

Dovrebbe anche ritrovare il suo sordido marito per iniziare le procedure di divorzio. Non ce l’ha con lui nemmeno per averla abbandonata, anzi gli è riconoscente per averla messa incinta prima di andarsene. Più la sua pancia cresce più è ubriaca di felicità, certe sere barcolla perfino.

«All’ottavo mese è caduta dalle scale».

Nello spazio di qualche ora il suo umore è cambiato. La sua gioia deve essersi rotta nella caduta e deve essersene andata insieme alle sue urine come fosse un pizzico di sali minerali. Improvvisamente non ha più voluto quel feto concepito la notte degli attentati del novembre 2015. Si è convinta che diventerà un terrorista e farà saltare la casa appena sarà abbastanza grande da mettersi un gilet esplosivo.

«È vero, quando si vuole sopprimere il proprio cane lo si accusa di avere la rabbia».

Ciò non toglie che il medico le ha rifiutato l’aborto. Ha dovuto arrangiarsi. Buttare un neonato dalla finestra è una specie di interruzione volontaria della gravidanza.

«Tardiva, sono d’accordo».

Eppure non è niente di diverso perché lei sarebbe incapace di commettere un infanticidio.

 

Papà, cancro

Mia figlia vorrebbe che mi togliessi di mezzo. Ne ha abbastanza della mia presenza, che finalmente il pianeta sia suo. Non ne può più di essere umiliata da un creditore.

«Questo padre a cui deve la vita».

Nonostante le dica che il suo debito è da tempo estinto, mi accorgo perfettamente che ogni volta che viene a trovarmi è furiosa di vedermi vivo. Cerca i segni premonitori della mia agonia, sorridendomi quando tossisco, baciandomi quando sono pallido, prendendomi teneramente la mano quando ho la febbre. Ma ahimè il più delle volte sono in forma e mi trova mentre faccio giardinaggio, mentre guardo una partita di basket o mentre pedalo sulla cyclette che mi ha regalato trentacinque anni fa per festeggiare i miei raggiunti sessant’anni.

«Va come il primo giorno».

È esasperata di vedermi portare ancora pantaloni corti e canottiera mostrando braccia e gambe muscolose sotto il pelo grigio. Le offro un pezzo della torta al cioccolato che mi ha dato la vicina.

«Vuoi uccidermi?»

«Scusa».

Per me mia figlia è sempre giovane, magra, brillante, corteggiata da tutti i ragazzi del liceo. Quando mi trovo di fronte quella grossa signora diabetica che trascina i suoi cento chili su delle ridicole scarpette, per evitare di deprimersi il mio cervello proietta sulla sua penosa apparenza le immagini di un filmino che le avevo fatto nel 1974 su una spiaggia dell’isola di Porquerolles dove avevamo passato un fine settimana in famiglia. Un Super8 perso nel casino della mia cantina.

«Sei sempre senza colesterolo?».

Ispeziona i risultati delle mie analisi con l’aria insoddisfatta della madre di uno scansafatiche che esamini la sua disastrosa pagella. Inghiotte ripetutamente la saliva, rimette il foglio del laboratorio nella busta e si lascia cadere sul divano.

«Godi veramente di buona salute».

Sospira tristemente. Soffoca un singhiozzo da bambina arrivato direttamente dal mattino del Natale 1961 quando aveva trovato nel caminetto una bambola parlante invece del triciclo che sperava. Bisogna che la situazione sia tragica perché un singhiozzo si prenda la briga di rimontare mezzo secolo e scoppiare una seconda volta.

«Papà, cancro».

La prendo tra le braccia. Odio me stesso per tutti quegli anni che ho impunemente vissuto. Li ho rubati a lei, per colpa mia trema vicino al niente coperta ormai soltanto da una sciarpa di tempo tarmato dal male della morte mentre io mi pavoneggio in un mantello di eternità.

«Tesoro mio».

Nell’incavo dell’orecchio le giuro di morire prima di lei.

Régis Jauffret

Nato a Marsiglia nel 1955, Régis Jauffret è una delle voci più importanti della letteratura francese contemporanea.

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