Bruno Latour e l'ipotesi Gaia

Io voglio dipingergli non soltanto l’universo visibile, ma l’immensità di natura che si può concepire nell’ambito di codesto scorcio di atomo. Ed eccogli un’infinità di universi di cui ognuno ha il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nella stessa proporzione del mondo visibile.[1]

Il problema della fine del mondo- della possibile fine o della fine già avvenuta- è un problema che ci riguarda tutti. È tale il problema su cui riflette l’antropologo brasiliano Viveros de Castro, il quale si domanda quali siano le paure che affliggono l’uomo dell’epoca dell’antropocene, l’epoca del grande sconfinamento della natura nel politico o del politico nella natura.
«É curioso notare che rispetto alle tre grandi idee trascendentali di Kant, ovvero Dio, Anima e Mondo …] è come se stessimo assistendo al crollo dell’ultima idea, visto che Dio è morto tra il XVIII e il XIX secolo, l’Anima poco più tardi (il suo avatar semiempirico, l’Uomo, potrebbe aver resistito fino alla metà del XX secolo), lasciando così il Mondo come ultimo e vacillante bastione della metafisica»[2].

In seguito alla sparizione di Dio, alla fine della teologia e di pari passo ad essa della sua creazione più propria, l’Anima, resta forse il solo Mondo come ultima grande idea metafisica, eppure anche tal ultima idea è messa in crisi dalla filosofia contemporanea. Questo Mondo, unitario e oggettivo forse già non esiste più; ad oggi sembra infatti non essere più possibile parlare di Mondo al singolare, si parlerà di molteplici mondi, a loro volta istituiti da diversi soggetti. Come è possibile dunque parlare di fine del mondo? A quale mondo si fa riferimento? Ad essere terminato non è forse solo il Globo nel quale credeva di vivere l’Uomo moderno europeo? O forse è solo un’illusione? Forse crediamo nella sparizione di questo Mondo perché credevamo di essere quell’Uomo, ma dal momento che l’Uomo non esiste più- o mai è esistito- può essere che nemmeno suddetto ipotetico Mondo oggettivo e controllabile sia mai esistito davvero. Niente Dio, niente Uomo, niente Mondo, o per lo meno niente Mondo in senso unitario. Il fatto è che come mostra de Castro un mondo è tale solo per un soggetto e dunque la fine di un mondo va di pari passo con la fine del soggetto che lo istituisce come tale: «La “fine del mondo”, in questi discorsi, ha un significato determinato- diviene pensabile in quanto possibile- solo se si stabilisce allo stesso tempo per chi questo mondo che finisce è un mondo, chi è il mondano o “mondanizzato” a cui spetta di definire la fine»[3]. Si tratterà dunque di comprendere quale tipo di mondo stia finendo e per quale tipologia di uomo. Intrecciando l’analisi di de Castro con quella di Latour è rilevante notare come sia il mondo dell’Olocene ad essere ormai finito, il mondo naturale inteso come sfondo inerme, equilibrato e passivo rispetto all’azione dell’uomo, detentore del potere indiscusso sopra la natura stessa. All’epoca dell’antropocene non è più credibile parlare di un mondo concepibile come disanimato e senza possibilità di azione.

Eppure, un mondo deve pur esserci perché un mondo lo abitiamo, questo che ci rimane è il mondo di Gaia, un mondo limitato, contingente e necessario al tempo stesso, ed è a questo mondo che l’uomo occidentale è costretto ad affacciarsi come suo limite concreto e sua ancora di salvezza.

«È che Gaia, Ge, Terra, non è una dea propriamente detta, ma una forza che proviene dall’epoca antecedente agli dei. “nella teogonia di Esiodo- scrive Marcel Detienne- Terra è una grande potenza degli inizi”. Prolifica, pericolosa, saggia, l’antica Gaia emerge in grandi spargimenti di sangue, vapore e terrore in compagnia di Caos e di Eros»[4]

La reintroduzione di questa antica figura mitologica ha permesso di prendere coscienza del nuovo paradigma di pensabilità di Gaia, che non è da pensarsi come un superorganismo, come un Tutto formato da partes extra partes, come una macchina. È stata superata l’idea di Mondo per approdare a quella di Gaia, “entità” di difficile definizione. Si potrebbe dire che Gaia è il risultato dell’implicazione reciproca delle molteplici agency- umane e non- presenti nella realtà, non sta alla distinzione parti/tutto come non sta a quella Natura/Cultura. Gaia è la figura che consente di superare tutte le polarizzazioni possibili, permettendo così di pensare la profonda implicazione di ogni organismo con l’ambiente che lo circonda e con gli altri organismi. Nella prospettiva di Latour ogni organismo non si situa in un ambiente inerme adattandosi allo stesso, ma è a sua volta produttore e modificatore dell’ambiente che lo circonda: «Ogni agency modifica le sue vicine, seppur molto leggermente, per rendere la propria sopravvivenza un po’ meno improbabile»[5].

Seguendo tale prospettiva si comprende come una delle caratteristiche di Gaia sia il suo congenito dis-equilibrio prodotto dalla somma di tutte le parziali intenzionalità delle singole agency che articolandosi l’una con l’altra vanno a costituire un equilibrio dato proprio dal dis-equilibrio. Il merito dell’introduzione della figura di Gaia è quello di aver dissolto l’immagine del Globo, ossia di quel Mondo unitario e oggettivo caro alla metafisica tradizionale. Come già sottolineato da de Castro, anche per Latour un mondo è mondo per un soggetto, per cui si tratterà di comprendere qual era il soggetto creatore del Globo in modo da poterlo oltrepassare, passarvi oltre. È con questo intento che Bruno Latour intraprende quella che chiama “un’antropologia dei moderni”, rapportandosi ai moderni come se fosse un antropologo studioso di una popolazione indigena delle isole Trobriand. Si prefigge di riferirsi al popolo formato da tali soggetti con il nome di Cisinatu, ossia “ciò da cui siamo nati tutti” - con lo scopo ben preciso di ottenere un effetto estraniante sui lettori, estraniamento necessario per il conseguimento dell’obiettivo- questo popolo:

possiede il modo più strano di essere e non essere di questo mondo. Rifiuta di essere un popolo e di essere confinato a un territorio. È insieme ovunque e da nessuna parte, assente e presente, invadente e di una negligenza sconcertante. Se stiliamo la tavola degli attributi, comprendiamo immediatamente perché non disegnano un collettivo. I suoi adepti dipingono Cisinatu attraverso sei qualificativi: è esterno, unitario, inanimato e i suoi decreti sono indiscutibili; il suo popolo è universale e l’epoca in cui è situato è ogni epoca.[6]

In poche e semplici battute Latour ci trasmette la paradossalità di questo popolo che crede far parte del mondo ma in un modo del tutto particolare: pretendendo di avere sullo stesso uno sguardo oggettivo se ne situa all’esterno. Ma come si può essere esterni allo stesso mondo che si abita? Oltre a ciò, ha la presunzione di considerarsi il “popolo eletto”, detentore delle verità assolute e dell’unica visione certa, pertanto crede di essere l’unico popolo legittimato a guidare gli altri e a “colonizzarli”. Il popolo di Cisinatu non si dà confini - diversamente da quello che potrebbe essere un popolo dell’Amazzonia- perché crede di essere l’unico popolo destinato a globalizzare il mondo sotto l’egida della certezza delle verità scientifiche dell’uomo moderno. Eppure, queste verità scientifiche sarebbero fondate proprio sul principio della possibilità di essere falsificate, dunque sulla possibilità di superamento… non nasce forse una contraddizione troppo forte? Una contraddizione di fronte alla quale gli scienziati moderni preferiscono voltare la faccia, ma che gli scienziati di Gaia, da Latour chiamati Terranei, accolgono come punto di forza: solo nel momento in cui sono consapevole della contingenza particolare della mia visione delle cose sarò in grado di non dipendere dalla stessa.

Quest’operazione di ricerca delle condizioni di verità proposta da Latour è propedeutica alla possibilità di una “negoziazione” che ci permetta di confrontarci con altri popoli con verità diverse dalle nostre e dunque mondi diversi, per poter combattere insieme per la sopravvivenza della specie homo. Siamo in guerra, contro i cambiamenti sempre più repentini che interessano Gaia e contro noi stessi, e solo riconoscendo questa condizione di guerra una qualche pacificazione diverrà possibile. D’accordo con Latour una negoziazione sarà pensabile solamente quando ogni popolo accetterà di compiere un’operazione di archeologia delle proprie condizioni di verità e di conseguenza riconoscerà di essere figlio di tale verità, di non essere l’unico popolo ad abitare la Terra e di non possedere che una visione parziale delle cose; inoltre, essendo che Gaia è il risultato sempre in movimento delle co-implicazioni delle diverse agency, come una sorta di anello che comprende ed è a sua volta ricompreso da una molteplicità di anelli differenti, ed essendo le agency non pertinenti solo agli uomini ma a tutti gli elementi di tale “sistema”, allora dovremmo prendere in considerazione per questa “negoziazione di pace” anche le voci di elementi naturali, come oceani, terre, foresta Amazzonica, specie in via di estinzione e molti altri.

Pur considerando la proposta di Latour veramente innovativa e propedeutica ad ogni cambio di prospettiva possibile per quanto concerne la visione della Terra stessa e la possibilità di intervenire per limitare gli effetti del cambiamento climatico, mi verrebbe da avanzare comunque delle considerazioni. Per prima cosa: essendo noi portatori di una visione limitatamente umana, come possiamo pretendere di poterci fare rappresentanti degli altri elementi naturali? È difficile poter dire cosa vuole Amazzonia e cosa invece desidererebbe Tibet. Secondariamente, non risulterebbe comunque un peccato di hybris pretendere che tutti i popoli accettino di compiere un’analisi di loro stessi? Inoltre, l’analisi delle condizioni di verità, pur essendo qualcosa di virtuoso non risulta comunque un’operazione dal sapore occidentale? Figlia dello stesso Kant? Senza contare che la messa in discussione delle proprie verità e del proprio mondo è qualcosa che la stragrande maggioranza delle popolazioni mondiali ha già dovuto affrontare una volta entrati in contatto con la colonizzazione europea e la globalizzazione, che purtroppo risulta essere troppo spesso globalizzazione in un solo senso, quello occidentale. Come mostra Viveros de Castro, gli indigeni sudamericani hanno già affrontato la fine di un mondo a conseguenza dello sterminio avvenuto in seguito alla “scoperta” dell’America ed è in questo senso potremmo prendere tali indigeni come maestri, come coloro dai quali possiamo apprendere che è possibile vivere dopo la fine di un mondo, del nostro mondo, e che non è detto che la fine di tale mondo corrisponda con la fine di tutto.

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