WandaVision – Morire eternamente

Morire due volte

In seno al generalizzato massacro in cui Avengers: Infinity War (dir. A. e J. Russo, 2018) consiste, solo due personaggi muoiono due volte. A lato dei sopravvissuti e di coloro che sono scomparsi evanescendo a seguito dello Snap, Gamora (Zoe Saldana) e Visione (Paul Bettany) soccombono a un destino beffardo e atroce, che a loro riserva un accanimento del tutto particolare. Più che essere sottratti all’esistenza nella fugacità dello schiocco di Thanos (Josh Brolin) -atto la cui distruttività si risolve in una puntualità assoluta, fondamentalmente indolore e a-traumatica (tanto che solo il Peter Parker di Tom Holland presagisce e dunque teme la dipartita, in virtù del senso di ragno)- Gamora e Visione sono schiacciati, annichiliti, in un processo di obliterazione insistito tanto da manifestarsi doppiamente.

La prima morte di Gamora e Visione avviene per mano dei loro amanti, rispettivamente Peter Quill/Star-Lord (Chris Pratt) e Wanda Maximoff (Elizabeth Olsen). Questi ultimi giungono ad uccidere chi di più caro hanno al mondo per evitare che Thanos si impossessi di loro, e che compia dunque il suo progetto poli-omicida: il dimidiamento di tutti gli esseri viventi, in favore di un riequilibrio universale tra le risorse del cosmo e chi di queste usufruisce, per il compimento del quale il Titano Pazzo necessita di tutte le Gemme dell’Infinito. Gamora sa dov’è locata quella dell’Anima; Visione è animato da quella della Mente, costituendone una sorta di manifestazione corporale senziente. Prima ancora di esperire la morte, i due sono soggetti ad un processo di oggettificazione che li riduce a cose: non più individualità, irriducibili esistenze, bensì corpi metonimicamente legati agli oggetti cui non solo riferiscono, bensì corrispondono. Se Thanos li desidera, è in quanto oggetti di cui impossessarsi. Se gli Avengers (o chi per loro, travalicando i limiti della formazione canonico-originaria) decidono di proteggerli, è in quanto oggetti posseduti. Quando il rischio del cambio di proprietà si acuisce esponenzialmente, la soluzione è una soltanto. La distruzione del bene. O, se ancora si riconosce ai due corpi-oggetto uno statuto umanoide, l’omicidio. Conclusione cui giungono, parallelamente, tanto Peter Quill quanto Wanda Maximoff.

Il loro intento omicida è però, in entrambi i casi, frustrato. Dal potere di Thanos, proveniente dalle Gemme di cui è già entrato in possesso. Il laser di Star-Lord è tramutato in uno sciame di bolle di sapone, castrato e riconfigurato burlescamente dalla Gemma della Realtà. La morte di Visione, invece, è riscritta attraverso un riavvolgimento temporale operato con la Gemma del Tempo. Thanos invalida solo il risultato dell’atto omicida di Quill e Wanda, in entrambi i casi spinto alla sua conseguenza ultima: Quill preme il grilletto; Wanda disintegra la Gemma incastonata sulla fronte dell’amato. Thanos non nega la distruzione avvenuta, quanto piuttosto sente il bisogno di appropriarsene reiterandola, in un’ipertrofica (di)mostrazione della sua potenza mitopoietica: interviene sulla Realtà stessa, rimodulandola fino a stravolgerne la temporalità. Nel momento in cui invalida la morte di Visione, è il film stesso a riavvolgersi, a essere minato nella sua struttura logico-diacronica, e dunque narrativa. A essere riscritto. La Gemma del Tempo aveva d’altronde già fornito una dimostrazione del suo potere meta-testuale nello scontro tra Doctor Strange (Benedict Cumberbatch) e Dormammu (facial motion capture dello stesso Cumberbatch) occorso in Doctor Strange (dir. S. Derrickson, 2016), in cui unica risposta al paradosso del loop generato dall’Occhio di Agamotto era lo scioglimento arbitrario di un nodo gordiano altrimenti irrisolvibile sul piano narrativo.

Se Thanos riscrive la morte di Gamora e Visione, è per ucciderli di nuovo, rimarcandone l’oggettificazione: Gamora viene sacrificata su Vormir per ottenere l’agognata Gemma dell’Anima, in uno scambio che  sancisce una volta per tutte l’equivalenza della donna all’oggetto di cui conosce l’ubicazione; a Visione viene estirpata manualmente la forza motrice-animante, quella stessa Gemma che consentirà a Thanos di attuare finalmente il suo piano.

Oggettificati, uccisi dai loro amanti, uccisi da Thanos. Più che di una semplice morte, quella che Gamora e Visione esperiscono è un processo prolungato di annichilazione, assolutamente differente, sul piano temporale, dalla puntualità dello Snap. I due vengono sospinti verso l’oblio assoluto. Pure, questo non impedisce loro di rinascere. Di riemergere inscalfiti da quel tessuto mitologico che pareva averli inghiottiti per sempre. Gamora è tornata in Avengers: Endgame (dir. A. e J. Russo, 2019), affiorando da una timeline parallela a quella principale. Visione ricompare invece nel recente WandaVision, ultimo installment del Marvel Cinematic Universe, e sua prima manifestazione attraverso il medium televisivo.

 

Morire eternamente

«Hey, don’t sweat it, sis. It’s not like your dead husband can die twice».

Questo quanto affermato da “Pietro” (Evan Peters), rivolgendosi a Wanda, nel sesto episodio di WandaVision, All-new Halloween Spooktacular!, nel momento in cui Visione rischia (nuovamente) di morire fuoriuscendo dai confini dell’Hex, l’ecosistema finzionale creato dalla strega sokoviana in cui la realtà è piegata ai canoni rappresentativi della serialità televisiva. “Pietro”, soggiogato e animato da Agatha Harkness (Kathryn Hahn), parla di morte interpretando un morto: abbiamo assistito alla dipartita del Pietro Maximoff originale (Aaron Taylor-Johnson) in Avengers: Age of Ultron (dir. J. Whedon, 2015). In un gioco di meta-casting atto a intensificare la carica esiziale del personaggio, il ruolo di “Pietro” è affidato a Evan Peters, volto di Quicksilver nella serie cinematografica Fox dedicata agli X-Men. Peters proviene da una supernova, da un franchise irrimediabilmente estinto. Il suo corpo, più che di una morte individuale, è sineddoche di un’ecatombe: quella di un intero universo narrativo, destinato ad un oblio imminente, anche per via dell’assimilazione della Fox da parte della Disney (e dunque, osmoticamente, dei mutanti da parte dei Marvel Studios). “Pietro” stesso è un bi-morto.

Ma il Quicksilver di WandaVision non è solo un abissale coacervo di morte. È, al contempo, scaturigine di una carica vitale inquantificabile. Peters, nonostante tutto, torna ad interpretare Pietro Maximoff. E, attraverso lui, Pietro Maximoff torna a nuova vita nell’MCU. Si tratta di una meta-performance, votata al sostentamento di un’esistenza tanto illusoria quanto effimera. Ma WandaVision è d’altronde un luogo in cui tutto ciò che vediamo è finzionalizzato, riscritto dai poteri di Wanda. Un universo totalmente psichicizzato, in cui tra pensiero e azione non sussiste più alcuna differenza (perlomeno all’interno dell’Hex, non-luogo in cui la maggior parte della serie è ambientata). La materia cessa di opporre resistenza all’intervento psichico, divenendo malleabile, suscettibile all’intervento mitopoietico di Wanda e, subordinatamente, di Agatha. “Pietro” nega che si possa morire due volte (qualcosa di già avvenuto in Infinity War, come si è constatato). Bisognerebbe correggerlo, affermando altresì che non si possa morire solo due volte. Questo perché, nel circolo di riassorbimento e riemersione dal tessuto mitologico in cui le figure dell’MCU sono radicalmente immerse, è dato morire eternamente. Personaggi come Aghata Harkness, Doctor Strange, Thanos e Wanda hanno dimostrato di non essere costretti a subire passivamente le dinamiche del tessuto finzionale in cui sono inscritti, bensì di poterlo all’occorrenza riscrivere dall’interno, di poterne piegare il continuum. A Wanda basta immaginare Visione per rigenerarlo, condurlo a nuova vita.

Così recitano le ultime parole rivolte da Wanda al suo amante sintezoide, nell’episodio conclusivo di WandaVision, The Series Finale:

«You, Vision… are the piece of the Mind Stone that lives in me. You are a body of wires and blood and bone that I created. You are my sadness and my hope. But mostly, you’re my love.»

Seppellito nell’immaginario di Wanda (e, appena più subliminalmente, nel repertorio mitologico della Marvel), Visione può rinascere non appena la sua immagine venga rievocata, o anche semplicemente invocata in un fugace raptus emozionale, dal momento che consiste tanto di elementi meccanico-carnali quanto di materia eminentemente sentimentale. Un cadavere la cui riesumazione non è mai problematica. Così la sua (ennesima) dipartita non è suggellata da un addio, ma da un serafico e prospetticamente aperto «So long, my darling».

«I’ve been a voice with no body. A body, but not human. And now… a memory made real. Who knows what I might be next?» 

Visione stesso riconosce la sua natura transeunte, e, parallelamente, transmediale. Da voce a corpo, da corpo a ipostatizzazione psichica. Nel suo trans-corpo si riverbera e si afferma la capacità dell’MCU di configurarsi non soltanto come organismo inter-testuale (ossia come costellazione filmografica), ma anche inter/trans-mediale (appropriandosi, attraverso WandaVision, del medium televisivo, ripercorrendone la storia e riproponendo le marche stilistiche di ogni sua epoca), oltreché trans-mitologico (sconfinando in universi narrativi estranei al “canone”, attraverso operazioni di meta-casting ad un tempo sottili e plateali: oltre al già citato caso di Peters, pensiamo all’apparizione di J. K. Simmons come J. Jonah Jameson nella scena mid-credits di Spider-Man: Far From Home, dir. J. Watts, 2019).

Who knows what might be next?

Niccolò Buttigliero Junior

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

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