La materia sente, conversa, soffre, desidera, anela e ricorda - Intervista a Karen Barad, I Parte

Nella prima parte dell’intervista qui tradotta, Karen Barad, filosofa statunitense, risponde ad alcune domande sui fondamenti della sua ricerca. Che cosa significa davvero “nuovo materialismo”? Che cos’è il realismo agenziale? Che cosa comporta introdurre nel pensiero meccanismi di intra-azione o di diffrazione?

Intervista originariamente apparsa su https://quod.lib.umich.edu/o/ohp/11515701.0001.001/1:4.3/--new-materialism-interviews-cartographies?rgn=div2;view=fulltext

A cura e traduzione di Arianna Locatello

Domanda 1 [1]: "Nuovo materialismo" è un termine coniato da Manuel DeLanda e Rosi Braidotti nella seconda metà degli anni Novanta. Il nuovo materialismo mostra come la mente sia sempre già materiale (la mente è un'idea del corpo), come la materia sia necessariamente qualcosa di relativo alla mente (la mente ha il corpo come suo oggetto), e come la natura e la cultura siano sempre già "natura-cultura" (termine di Donna Haraway). Il nuovo materialismo si oppone alle tradizioni trascendentali e umaniste  (dualiste) che ossessionano la teoria culturale, sul crinale dell'era moderna e post-postmoderna. Le tradizioni trascendentali e umaniste, che sono multiforme eppure costantemente basate su strutture dualiste, continuano a suscitare dibattiti aperti dai nuovi materialisti (si pensi alla polemica femminista sul materialismo fallito nell'opera di Judith Butler, e al patrimonio linguistico saussuriano e lacaniano nei media e negli studi culturali). Ciò che può essere definito "nuovo materialismo" sposta queste strutture dualiste permettendo la concettualizzazione del viaggio dei flussi di natura e cultura, materia e mente, aprendo la formazione di una teoria attiva.
Ponendo una certa enfasi sulla fisica quantistica, lei sembra proporre un percorso molto simile. L'idea del "realismo agenziale", a partire dal 1996 sulla scia dell'approccio di Bohr all'epistemologia che lei ha lanciato a partire dalla metà degli anni Ottanta, sembra allontanare i dualismi che hanno ossessionato anche le scienze umane e le scienze in generale. In particolare, nel caso della misurazione, questo realismo agenziale permette di rileggere la filosofia della meccanica quantistica di Bohr e di criticare il fatto che tanti teorici rifiutano di venire a patti con la natura materiale-discorsiva e performativa delle intra-azioni.
Questo immanente intreccio di materia e significato, che lei definisce "realismo agenziale" e che noi chiamiamo "nuovo materialismo", è la quintessenza della sua critica sia alle scienze che alle scienze umane?

Karen Barad: Il nocciolo della sua domanda è chiaro, ma dato che parla di che cosa sto facendo in termini di critica, volevo iniziare dicendo qualcosa proprio sulla critica. Non mi interessa la critica. Secondo me, la critica è sopravvalutata, enfatizzata e utilizzata in modo eccessivo, a scapito del femminismo. Come segnala Bruno Latour in un articolo intitolato Why has critique run out of steam? From Matters of Fact to Matters of Concerns of Concern (2004), la critica è uno strumento che continua ad essere usato forse per abitudine, ma non è più lo strumento necessario per il tipo di situazioni che affrontiamo oggi. La critica è stata lo strumento prescelto per così tanto tempo, e i nostri studenti sono così abituati ad usare la critica, che possono dare il via ad una critica con la facilità con cui si preme un pulsante. La critica è troppo facile, soprattutto quando l'impegno a leggere con attenzione non sembra più essere un elemento fondamentale della critica. Così, come spiego ai miei studenti, la lettura e la scrittura sono pratiche etiche, e la critica manca il bersaglio. Ora, capisco che la nozione di critica abbia una valenza diversa in Europa rispetto agli Stati Uniti; tuttavia, penso che questo punto sia importante. La critica non è tanto una pratica decostruttiva, cioè una pratica di lettura per l’estrazione di quelle idee costitutive di cui non possiamo fare a meno, ma una pratica distruttiva che ha lo scopo di liquidare, di mettere da parte, di mettere al tappeto qualcuno o qualcosa - un altro studioso, un altro femminista, una disciplina, un approccio, eccetera. Quindi questa è una pratica negativa che penso sia una pratica di sottrazione, di allontanamento e di altro. Latour suggerisce che ci si potrebbe rivolgere alla nozione di Alan Turing di ciò che è fare critica, invece che alla critica in sé (Turing 1950), dove il fare critica si riferisce alla nozione di massa critica, cioè quando un singolo neutrone entra in un campione critico di materiale nucleare che produce una reazione a catena ramificata che esplode attraverso le idee. Come fisica trovo questa metafora agghiacciante e minacciosa. Invece, basandomi su un suggerimento di Donna Haraway, quello che propongo è la pratica della diffrazione, della lettura diffrattiva per modelli di differenze che fanno la differenza. E intendo questo non come nozione additiva opposta alla sottrazione, come spiegherò tra poco. Intendo dire piuttosto che essa è suggestiva, creativa e visionaria.

Nel secondo capitolo di Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter and Meaning (Barad 2007), ho discusso in dettaglio di quella che chiamo metodologia diffrattiva, un metodo per leggere in modo diffrattivo le intuizioni l'una attraverso l'altra, costruendo nuove intuizioni, leggendo attentamente le differenze che contano nei minimi dettagli, riconoscendo come intrinseca a questa analisi un'etica che non si basa sull'esteriorità ma piuttosto sull'intreccio. Le letture diffrattive portano a provocazioni inventive; danno da pensare. Sono impegni rispettosi, dettagliati, etici. Voglio tornare al nocciolo della sua domanda ora che ho detto qualcosa sulla critica. Non intendo soffermarmi su questo, ma penso che sia importante dire qualcosa su tale nozione e spostarla su questo tipo di provocazioni e altri tipi di impegni.
Quindi, tornando al nocciolo della sua domanda, l'intreccio di materia e significato mette in discussione questo insieme di dualismi che pone la natura da un lato e la cultura dall'altro. E che separa le questioni di fatto dalle questioni di interesse (Bruno Latour) e dalle questioni di cura (Maria Puig de la Bellacasa), e le sposta verso ciò che qui negli Stati Uniti chiamiamo "divisioni accademiche separate", per cui la divisione del lavoro è tale che alle scienze naturali sono assegnate le questioni di fatto e alle scienze umane, per esempio, le questioni di interesse. È difficile vedere i modelli di diffrazione - i modelli di differenza che fanno la differenza - quando la suddivisione delle preoccupazioni in domini separati elude le risonanze e le dissonanze che compongono i modelli di diffrazione che rendono visibili i grovigli.

Vorrei fornire due esempi esemp per rispondere alla sua domanda. Recentemente ho tenuto un discorso ad una conferenza allo Stevens Institute of Technology[2], nel New Jersey. Stanno iniziando a rinnovare il loro programma di studi umanistici. Sono interessati a prendere spunti dagli studi scientifici e a farli rientrare nel loro programma. Questo è il modo in cui ne parlano. Quello che propongono è l'inverso di come alcuni penserebbero il potenziale impatto degli studi scientifici: non usare le scienze umane per pensare alle scienze, ma usare le scienze per ripensare le scienze umane. Questo è il loro progetto ed è stato un convegno molto interessante. Ma c'era qualcosa nel modo in cui questo è stato inquadrato che mi ha spinta a vedere se potevo entrare in dialogo con loro. Innanzitutto c'era l'idea che ciò di cui c'è bisogno è una sintesi; una sintesi o un'unione delle scienze umane, e delle scienze, come se fossero sempre separate e non sempre già aggrovigliate. Così da avere la scienza ad occuparsi delle questioni di fatto, della natura, e così via, da un lato, e le scienze umane, il significato, i valori, e la cultura, dall'altro. In un qualche modo che avrebbe consentito un'unione delle due cose. Così abbiamo parlato dei modi in cui esistono già intrecci tra le scienze umane e le scienze; non sono cresciute separatamente le une dalle altre. Stavo solo facendo notare loro alcuni dei limiti del pensiero analogico, come la ricerca di immagini speculari tra le scienze da un lato e le scienze umane dall'altro. E stavo raccontando loro questa meravigliosa storia che Sharon Traweek narra quando stava facendo un lavoro sul campo sulla comunità della fisica delle alte energie allo Stanford Linear Accelerator (SLAC). È in piedi in una sala dello SLAC e nota un fisico che fissa le immagini di frattali sulla parete. Fissa le immagini e glielo chiede: «Puoi dirmi cosa c'è di così bello in quelle immagini?» Il fisico si rivolge a lei con questo sguardo perplesso sul viso e le dice: «Non sono proprio sicuro del perché tu abbia fatto questa domanda. È ovvio! Ovunque si guardi è lo stesso». E naturalmente le femministe non sono abituate a guardare o a godere del fatto che tutto sia uguale, ma a pensare alle differenze.

Naturalmente l'immagine speculare di ciò è che la scienza rispecchia la cultura, quindi abbiamo una sorta di realismo scientifico contro il costruttivismo sociale, che ovviamente sono entrambi speculari. Quello che propongo, invece, è il concetto di diffrazione, attingendo al lavoro della mia collega e amica Donna Haraway. Come dice Donna, «i modelli di diffrazione registrano la storia dell'interazione, dell'interferenza, del rinforzo, della differenza. La diffrazione riguarda la storia eterogenea, non gli originali. A differenza delle riflessioni, le diffrazioni non si spostano altrove, in forma più o meno distorta, dando così origine a industrie [di storia delle origini e delle verità]. Piuttosto, la diffrazione può essere una metafora di un altro tipo di coscienza critica". Quello che stavo sottolineando è la differenza nello spostamento dall'ottica geometrica, dalle questioni di rispecchiamento e di omogeneità, di riflessività, dove per vedere la tua immagine nello specchio ci deve essere necessariamente una distanza tra te e lo specchio. Quindi c'è una separazione tra soggetto e oggetto, e l'oggettività riguarda le immagini speculari del mondo. Invece, lo spostamento verso la diffrazione, verso le differenze che contano, è davvero una questione di ciò che i fisici chiamano ottica fisica rispetto all'ottica geometrica. L'ottica geometrica non presta alcuna attenzione alla natura della luce. In realtà, è un'approssimazione che viene utilizzata per studiare l'ottica di diverse lenti, o specchi. E si tratta la luce come se fosse un raggio (una nozione astratta). In altre parole, si tratta di una posizione completamente agnostica rispetto al fatto che la luce sia una particella o un'onda o qualsiasi altra cosa. È solo uno schema di approssimazione per lo studio di vari apparati. Al contrario, la diffrazione permette di studiare sia la natura dell'apparato che l'oggetto. Cioè, sia la natura della luce, sia la natura dell'apparato stesso. Ne parlo molto nel capitolo 2 di Meeting. Ma quello che volevo far emergere è il fatto che si impara molto di più sulla diffrazione usando la fisica quantistica.

C'è una differenza tra la comprensione della diffrazione come fenomeno della fisica classica e la sua comprensione quantistica-meccanica. Ho preso questa meravigliosa metafora che Donna ci ha dato e l'ho portata avanti aggiungendo importanti intuizioni non classiche della fisica quantistica. La diffrazione, intesa con la fisica quantistica, non è solo una questione di interferenza, ma di intreccio [entanglement], una questione etico-onto-epistemologica. Questa differenza è molto importante. Essa sottolinea il fatto che la conoscenza è un impegno materiale diretto, un taglio, dove i tagli fanno violenza ma aprono e rielaborano anche le condizioni agenziali della possibilità. Non c'è questo sapere a distanza. Invece di una separazione tra soggetto e oggetto, c'è un intreccio tra soggetto e oggetto, che si chiama "fenomeno". L'oggettività, invece di offrire un'immagine speculare e non distorta del mondo, è una questione di responsabilità nei confronti dei segni sui corpi, e di responsabilità nei confronti degli intrecci di cui siamo parte. Questo è il tipo di spostamento che otteniamo, se spostiamo la diffrazione nel regno della fisica quantistica. Tutto questo per dire che ci viene in mente un modo diverso di pensare a quali intuizioni le scienze, le scienze umane, le arti, le scienze sociali, e non dimentichiamo le intuizioni al di fuori del mondo accademico, possono portare l'una all'altra leggendole in modo diffrattivo l'una attraverso l'altra per i loro vari intrecci, ed essendo attenti a ciò che viene escluso così come a ciò che giunge alla materia. In modo da affrontare in un modo molto diverso il rapporto tra le scienze e le scienze umane, che credo sia il punto della domanda iniziale che lei mi ha posto.

Accenno ora brevemente al mio secondo esempio e prometto di non dilungarmi così con ogni domanda, ma devo chiarire alcune cose per cominciare... Ho tenuto un corso in questo trimestre chiamato Femminismo nelle scienze, rivolto sia a studenti di scienze che di lettere, scienze sociali e arti, e stavamo parlando della nozione di alfabetizzazione scientifica e di come questa sia cresciuta fino a diventare di esclusiva responsabilità delle scienze. Ma cos'è l'alfabetizzazione scientifica? Abbiamo speso milioni di dollari per questo negli Stati Uniti e non siamo affatto sicuri di cosa significhi, in realtà. E dopo aver speso milioni di dollari con qualsiasi misura prevista per l'alfabetizzazione scientifica, abbiamo ancora le stesse percentuali di alfabetizzazione scientifica di prima. Secondo queste misure, l'alfabetizzazione scientifica è tra il tre e il sei per cento. E questo è in realtà lo stesso numero di scienziati e ingegneri che abbiamo noi. Questo ci dice qualcosa sul modo in cui l'alfabetizzazione scientifica viene compresa, e come viene misurata, e come viene pensata, e chi deve assumersene la responsabilità, e così via. E così abbiamo parlato del fatto che un diverso tipo di alfabetizzazione è effettivamente necessario per fare scienza. Questa considerazione delle implicazioni etiche, sociali e legali delle varie nuove scienze e tecnologie che arriva in seguito ai fatti, non è abbastanza solida. Per esempio, abbiamo considerato il nuovo campo della bioetica in cui l'etica è ritenuta solo una questione di considerare le conseguenze immaginate dei progetti scientifici già dati. Ma la nozione di conseguenze si basa su una temporalità sbagliata: chiedere le conseguenze potenziali è troppo poco, troppo tardi, perché l'etica, ovviamente, si fa proprio al banco del laboratorio. E così, per quanto riguarda ciò che serve per essere scientificamente alfabetizzati, la domanda è cosa ci vuole per identificare i vari apparati di produzione corporea che sono in gioco. E così, per identificare quelli, abbiamo bisogno di un senso di alfabetizzazione molto più ampio e abbiamo bisogno di tutti i tipi di persone intorno al banco del laboratorio, in modo che l'alfabetizzazione scientifica non sia più vista come una responsabilità esclusiva delle scienze. Credo che questo sia uno dei modi in cui ci mettiamo nei guai in termini di educazione.

 

D2: Potrebbe spiegarci un po' meglio cosa, come o chi è l'agente nel realismo agenziale?

KB: In primo luogo, voglio dire che cerco di tenermi lontana dall'uso del termine "agente", o anche "attante", perché questi termini lavorano contro l'ontologia relazionale che sto proponendo. Anche la nozione per la quale ci sono agenti che hanno un'agenzia, o che concedono un'agenzia, diciamo, ai non-umani (la concessione dell'agenzia è una nozione ironica, no?), ci riporta sempre nelle stesse vecchie orbite umaniste. E non è facile resistere alla forza gravitazionale dell'umanismo, specialmente quando si tratta della questione dell'"agency". Ma l'agency per me non è qualcosa che qualcuno o qualcosa ha in varia misura, poiché sto cercando di spostare la nozione stessa di individui indipendentemente esistenti. Questo non significa, tuttavia, negare l'agenzia nella sua importanza, ma al contrario, rielaborare la nozione di agenzia in modi che sono appropriati alle ontologie relazionali. L'agency non si possiede, non è una proprietà delle persone o delle cose; piuttosto, l'agency è un’attuazione, una questione di possibilità di riconfigurare gli intrecci. Quindi l'agenzia non riguarda la scelta in qualsiasi senso umanistico liberale; piuttosto, riguarda le possibilità e la responsabilità che comporta la riconfigurazione degli apparati materiali-discorsivi della produzione corporea, comprese le articolazioni e le esclusioni di confine che sono segnate da quelle pratiche. Uno dei punti che hai chiesto è il come dell'agency, e in un certo senso, il come si trova precisamente nella specificità delle pratiche particolari, così non posso dare una risposta generale a questo, ma forse posso dire qualcosa di utile sullo spazio di possibilità dell'agency.
L'agency, in un discorso sul realismo agenziale, non richiede uno scontro di apparati, (come Butler ha suggerito una volta) come le norme contraddittorie della femminilità, per cui non riusciamo mai a incarnare completamente la femminilità, perché ci sono requisiti contraddittori. Il realismo agenziale non richiede questo tipo di scontro di apparati, perché le intra-azioni, per cominciare, non sono mai determinanti, anche quando gli apparati si rafforzano. Le intra-azioni implicano esclusioni, e le esclusioni precludono il determinismo. Tuttavia, una volta che il determinismo è precluso, questo non ci lascia l'opzione del libero arbitrio. Penso che tendiamo a pensare alla causalità e alle questioni di agency in termini di determinismo da un lato, o di libero arbitrio dall'altro. Si suppone che causa ed effetto si susseguano come palle da biliardo, e così abbiamo preso l'abitudine di dire che non lo intendiamo veramente in senso causale. E penso che, in un certo senso, la causalità sia diventata una parolaccia, come lo è/era il realismo. E così sto cercando di convincere le persone a parlare di nuovo di causalità, perché penso che sia molto, molto importante. Se abbiamo un gruppo di persone che scopriamo essere molto affetto dal cancro, ad esempio, vogliamo qsapere qualcosa sulla natura di quella comunità e sulle relazioni causali, perché se mi trovo a Love Canal negli Stati Uniti, un'area popolata dove sono state scaricate un sacco di tossine e la gente si è ammalata di cancro, allora potrei voler evacuare la gente. D'altra parte, se sono alla Mayo Clinic, dove stanno trattando pazienti con il cancro e ci sono molte persone con il cancro, non farei la stessa cosa. Voglio davvero che specifichiamo più attentamente i diversi tipi di causalità, ripensando causalità. E questo è in parte ciò che intendo con la nozione di "intra-azione" come proposta di un nuovo modo di pensare la causalità. Non si tratta solo di una sorta di neologismo che ci fa passare dall'interazione, dove si parte da entità separate e queste interagiscono, all'intra-azione, dove ci sono interazioni attraverso le quali soggetto e oggetto emergono, ma effettivamente di una nuova comprensione della causalità stessa.

Prima di tutto, l'agenzia riguarda la capacità di risposta, le possibilità di risposta reciproca, che non è negare, ma assistere agli squilibri di potere. L'agenzia riguarda le possibilità di riconfigurazione del mondo. Quindi l'agenzia non è qualcosa di posseduto dagli esseri umani, o dai non-umani, se è per questo. È un'attuazione. E coinvolge, se volete, sia i "non-umani" che gli "umani". Allo stesso tempo, voglio essere chiara sul fatto che ciò di cui sto parlando qui non significa distribuire democraticamente il potere su un assemblaggio di umani e non-umani. Anche se non ci sono agenti di per sé, la nozione di agenzia che sto suggerendo non va contro il punto cruciale degli squilibri di potere. Al contrario. La specificità delle intra-azioni parla delle particolarità degli squilibri di potere della complessità di un campo di forze. So che alcune persone sono molto angosciate all’idea di non avere un’agenzia localizzata nel soggetto umano, ma penso che questo sia il primo passo - riconoscere che non c'è questo tipo di localizzazione o caratterizzazione particolare del soggetto umano è il primo passo per prendere in considerazione gli squilibri di potere, non un annullamento di esso.

Come breve esempio, c'è un articolo che ho da poco trovato online di Chris Wilbert chiamato Profit, Plague and Poultry: The Intra-active Worlds of Highly Pathogenic Avian Flu (Wilbert 2006), sulla bio-geopolitica delle potenziali pandemie influenzali. L'analisi di Chris dell'influenza aviaria (H5N1) come fenomeno naturale-culturale evidenzia l'importanza di prendere in considerazione gli intrecci agenziali delle pratiche intra-attive umane e non umane. Chris sottolinea che mentre le organizzazioni sanitarie mondiali e i governi stanno mettendo sotto sorveglianza gli uccelli migratori e i piccoli produttori di polli d'allevamento, i dati empirici non supportano questi collegamenti causali. Piuttosto, la malattia segue i modelli di diffrazione geografica della produzione su larga scala di pollame da allevamento in fabbrica. Quest'ultima dà luogo a densità inaudite di uccelli, assicurando un alloggio di prima classe a zoonosi fiorenti e mutanti. Le carni prodotte industrialmente, le pratiche veterinarie internazionali, le pratiche di biosicurezza, gli accordi commerciali internazionali, le reti di trasporto, l'aumento della densità delle popolazioni umane, e altro ancora sono alcuni dei vari apparati agenziali al lavoro. La causalità non è interazionale, ma piuttosto intra-azionale. Fare una politica basata su approcci additivi a cause multiple, manca dei fattori chiave per evitare le epidemie, come fornire in forme economiche cibo sicuro per le popolazioni più povere e l'eliminazione di forme di uccisione di massa degli animali nelle industrie. Così, oltre a illustrare piacevolmente l'importanza di prestare attenzione alle forme "umane" e "non umane" di agenzia, per così dire, c'è un modo in cui Chris riconosce ciò che viene lasciato fuori dalle pratiche di contabilità quando l'agenzia è attribuita a entità umane o non umane e lasciata a questo. Ciò che viene lasciato fuori è tutta una serie di pratiche materiali molto complesse che contribuiscono a un tipo di epidemia che non è attribuibile né agli organismi stessi né al tipo di cose che fanno le persone. Non conosco Chris. Lo porto alla vostra attenzione, perché penso che ci fornisca un caso interessante a cui pensare.

Un altro esempio che può essere utile qui è quello di cui parla Haraway (2008). È un esempio che viene sollevato da Barbara Smuts, che è una bioantropologa americana che è andata in Tanzania per studiare i babbuini in natura per la sua ricerca di dottorato. Le viene detto, come ricercatrice scientifica di primati non umani, di mantenere le distanze, in modo che la sua presenza non influenzi il comportamento dei soggetti di ricerca. La distanza è la condizione dell'obiettività. Smuts parla del fatto che questo consiglio fu un completo disastro per la sua ricerca, che si trovò a non poter fare alcuna osservazione poiché i babbuini erano costantemente attenti a quello che lei stava facendo. Alla fine si rese conto che questo era dovuto al fatto che Smuts si comportava in modo così strano con loro; on riuscivano proprio a superarla. Era un cattivo soggetto sociale nel loro ambiente. L'unico modo per andare avanti e fare ricerca in modo oggettivo era quello di essere responsabile; cioè che l'oggettività, un tema che gli studi scientifici femministi hanno sempre sottolineato, è una questione di responsabilità e non una questione di allontanamento in assoluto. Ciò che alla fine ha funzionato è che ha imparato ad essere completamente sensibile ai primati non umani, e in questo modo è diventata una buona cittadina tra i babbuini. Potevano capire, almeno in modo comprensibile a loro, e di conseguenza la lasciavano in pace e andavano per i fatti loro, concedendole di condurre la sua ricerca.


D3: In Meeting the Universe Halfway e in diversi articoli di giornale, lei segue Haraway nella proposta della "diffrazione", la natura relazionale della differenza, come metodologia per trattare teorie e testi non come entità preesistenti, ma come intra-azione, come forze da cui altri testi vengono all’esistenza. D’altra parte, lei si concentra fortemente sul lavoro di Niels Bohr in tutta la sua ricerca. La riscrittura della filosofia che è attiva in tutti i suoi testi sembra essere né doverosa né indegna delle sue idee. Eppure la sua opera può essere letta come uno dei più forti commenti all'opera di Bohr oggi a disposizione degli accademici. Forse il primo che riesce davvero a leggerlo dnelle scienze umane. Accanto a Bohr, naturalmente, lei ha letto molti altri scienziati e studiosi come Einstein, Schrödinger, ma anche Merleau-Ponty, Haraway naturalmente, Deleuze e Latour. Soprattutto per quanto riguarda i filosofi e gli studiosi tradizionalmente non letti nell'ambito delle scienze, lei sembra invece leggerli positivamente, anche se di sfuggita. Come valuterebbe questa concettualizzazione del modo di trattare le teorie, tenendo conto della sua proposta di una metodologia diffrattiva? In altre parole, c'è un senso in cui il suo lavoro non si pone come una meditazione che concorda o meno con il lavoro di Bohr, ma una meditazione che è intra-attiva con esso, creando sia il lavoro di Bohr che il realismo agenziale? E quali sono le implicazioni generazionali della diffrazione più in generale? Le femministe di solito diffidano del pensiero come governato dall'edipicità; femministe come Rosi Braidotti hanno sostenuto una metodologia che non ripete la fin troppo comune relazione edipica con i maestri, affermando il loro status negando il lavoro, e questo si avvicina molto alla tua critica della critica, in realtà. La diffrazione permette una relazione tra testi e studiosi che non è né indebita (affermare il maestro negando l'opera) né doverosa (mettere la "nuova" opera nella casa del maestro)?

KB: Dato quello che ho già detto sulle letture diffrattive, penso che sia chiaro che la sua domanda affermi davvero splendidamente il mio rapporto con i materiali con cui mi sono impegnata nel fare letture diffrattive. Nello spirito delle letture diffrattive, voglio solo dire che le sono davvero molto grata e debitrice per la sua attenta lettura del mio lavoro. Grazie per questo. Sono pienamente d'accordo con quello che ha detto circa il fatto che non sto guardando al lavoro di Bohr come a una scrittura o per essere in qualche modo la "figlia ingrata" di Bohr, ma per leggere varie intuizioni l'una attraverso l'altra e produrre qualcosa di nuovo, nuovi modelli di pensiero-essere, mentre allo stesso tempo sono molto attenta a ciò che Bohr sta cercando di dirci, e penso che lei abbia fatto lo stesso con il mio lavoro, quindi voleva ringraziarla.

[1] Questo testo è il risultato di un evento intra-attivo ("Meeting Utrecht Halfway") che ha avuto luogo il 6 giugno 2009 alla 7a Conferenza Europea di Ricerca Femminista, ospitata dal Graduate Gender Programme dell'Università di Utrecht. Gli autori desiderano ringraziare il Center for Adaptive Optics dell'Università della California, Santa Cruz e l'Infrastructurele Dienst Centrumgebied dell'Università di Utrecht per aver messo a disposizione le strutture per la videoconferenza, Heleen Klomp per aver trascritto l'evento, e il pubblico di Utrecht (in particolare Magdalena Gorska, Sami Torssonen, e Alice Breemen) e Santa Cruz (in particolare la compagna di Karen, Fern Feldman, e il suo compagno canino Bina che sono stati disposti ad assistere ad un'intervista transcontinentale ben prima che il sole sorgesse sulla costa occidentale degli Stati Uniti) per aver partecipato.

[2] Science, Technology, and the Humanities: A New Synthesis, Ap

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