Clubhouse: la riscoperta della voce

I poeti del '200 chiamavano «stanza», cioè «dimora capace e ricettacolo», il nucleo essenziale della loro poesia, perché esso custodiva, insieme a tutti gli elementi formali della canzone, quel joi d'amor che essi affidavano come unico oggetto alla poesia.
(G. Agamben, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale)

In un’interessante conversazione filosofica pubblicata nel 2007, Peter Sloterdijk raccontò come siamo, fin dal ventre materno, immersi in una “sonosfera”. Ci orientiamo in base ai suoni e all’udito; i primi input esterni ci giungono, in effetti, per via uditiva. La voce dei genitori è uno di questi suoni, ovviamente. Saremmo, quindi, viventi che si orientano per mezzo di suoni, e per questo la voce ci è indispensabile.

La voce non sarebbe un carattere biologico e fisiologico analizzabile come il pulsare del cuore e lo scorrere del sangue nelle vene, e non sembra essere nemmeno un determinato atteggiamento etologico di homo sapiens per proteggersi, comunicare, e attaccare. È un autentico mistero naturale. È solo con Aristotele che siamo arrivati ad evidenziare a pieno la funzione semantica della voce: σεμαντικὸς γὰρ δή τις φόνος ἐστὶν ἠ φωνή[1]. Dare voce alla parola è sempre stata riconosciuta, dagli aedi greci fino alla filosofia di Heidegger, come la prassi umana che ci dispone a dare senso al mondo e alle cose nell’aperto, e quindi ad orientarci nel mondo-ambiente. Le due celeberrime definizioni di essere umano date da Aristotele, in questo senso, sono “animale dotato di parola” e quindi “sociale” (πολιτικόν).

Ciò vuol dire che l’impiego della parola mediante la voce - la continua evoluzione di ciò che Saussure chiamava “parole” lo ribadisce - è creativo in modo misterioso e sorprendente, perché non ne disponiamo, ma ci dispone per natura a parlare e a dare senso. Si ricordi in merito la lezione di Wittgenstein, a proposito del fatto che il linguaggio è di per sé una forma di pensiero, quando si parla si pensa, si dà senso.
Tenendo presente tutto ciò, non è, d’altra parte, un mistero che la nostra società sia incentrata sull’immagine, sull’”estetica” e sulle capacità analitiche dell’intelletto acuite dalla lettura, dalle ricerche online, dalle serie tv e dai bilanci introspettivi sul nostro vissuto - fatti mediante quel verbum interior che Platone per primo definì “senza voce” (ἄνευ φονῆς). La vista è l’organo privilegiato per orientarsi nel mondo: leggiamo i cartelli, osserviamo l’orizzonte, etc. Il suono e l’oralità sopravvivono nella musica, nelle trasmissioni radiofoniche, nelle lezioni scolastiche e accademiche, e nelle comunicazioni di servizio. È, quindi, in un contesto di crisi esasperata dell’oralità e del discorso vivo, ma di soggettività mature, che si inserisce l’invenzione del nuovo social Clubhouse: drop-in-audio chat.

Un social totalmente fono-uditivo, in cui non si pubblicano stati, non si condividono meme e canzoni, foto e video. Ma si fa conversazione, viene riscoperta la dimensione del dialogo tematico, che, fin dai tempi di Socrate e Platone è stata la prassi impiegata come vettore basilare per veicolare e realizzare lo stimolo al ragionamento, lo scambio, e quindi l’esercizio paideutico intellettuale e morale della persona. 
Clubhouse, in altre parole, sembra avere quel potere necessario, e attualmente unico, di restituire dignità alla polifonicità del discorso pubblico, dandogli uno spazio organizzato di effettuazione e sviluppo, in modo tale da valorizzare l’esercizio della voce personale, pensato soprattutto dal movimento femminista filosofico, ma anche di riflettere sul rapporto tra oralità e scrittura oggi, che ha avuto uno dei sui vertici di dibattito filosofico nel confronto tra Gadamer e Derrida, meditato e ricostruito da Donatella di Cesare in Ermeneutica della finitezza (2004). Ciò che il social riesce a fare è , letteralmente, dare “voce” alle persone, voce di cui i muti social network attuali ci hanno pian piano privato, riducendoci ad utenti che scrivono e parlano o da soli registrando video, o al modo dell’intervista pubblica dinnanzi una audience che scrive in chat i commenti alle nostre dirette streaming. 

Siccome questa nuova tecnologia della socialità emerge come prodotto d’investimento in una società di massa dominata dal denaro, Clubhouse può essere visto tanto come un’ultima invenzione per creare una nuova offerta a una domanda smisurata, che generi ricchezza e nuovi accumuli e dispersioni del denaro che ormai pervade ogni minuscola sfera della vita contemporanea, quanto come la risposta digitale all’esigenza di riscoprirci custodi della parola, uditorio dialettico-apodittico (penso al ‘discutere insieme da amici’ nel senso del Menone), soggetti aperti alla socialità orale che sappiano parlare con disinvoltura e coraggio nel proprio dire, con lo scopo di arricchirsi su, ed arricchire la stessa, elaborazione generale di un tema. In uno spazio come Clubhouse il parlare in pubblico non deve per forza corrispondere al timore di doversi vergognare di dire cose sbagliate, alla pressione di dover dimostrare la propria competenza, o allo scopo di suscitare ammirazione: ciò che apre il social è proprio la sfida di dire cose importanti con vero interesse, senza essere limitati dallo scolastico rischio di sbagliare, dal dovere di dimostrare qualcosa, dal fare business o promozione. Ma anche dalla preoccupazione pietosa televisiva di offendere il buon senso, perpetuata negli algoritmi social che esortano a identificare rispetto e dignità con l’autocensura automatica degli utenti e a non contraddire il celebrato pregiudizio con discorsi impopolari.
Discutere discorsivamente, l’etica del discorso di cui ha parlato Habermas, consente oggi come ieri di conoscere gli altri, di confrontarsi su tematiche in modo trasparente così da contribuire alla loro elaborazione sociale e personale. Paradossalmente, proprio l’etica del discorso da cui nacquero l’isegorìa e la parrhesìa della più ammirata democrazia, si è ritrovata uccisa dalle moderne società liberal-democratiche delle telecomunicazioni e dei social media. Interagire, interloquire, conversare, non sono affatto neologismi. Però sono parole dimenticate nel loro significato, perché fraintesa e mortificata è continuamente, nella vita quotidiana, l’attività che designano. Lo stato della conversazione quotidiana non ha subito pressoché nessun miglioramento da quando Heidegger evidenziò, un secolo fa, che nel contesto sociale “soprattutto e per lo più” si parla per parlare. Vale a dire che innanzitutto si mettono, ancora ad oggi, in atto brevi scambi di parole senza mirare a capirle davvero e ad ascoltarle sul serio, si parla di niente pur di non stare zitti e di non dire l’essenziale, la battuta e lo scherzo nel discorso svolgono oggi questa funzione degradata dell’ironia e del sarcasmo al servizio della chiacchiera vuota, impiegata come svago irriflessivo, anziché come dispositivo di senso, propria di persone che hanno stimato come terapeutico al quieto vivere il non-parlare. Ciò comporta ovviamente che non diamo valore alla parola e che rendiamo impraticabile qualsiasi discorso costruttivo alternativo a quello della comunicazione del calcolo razionale sulle situazioni contingenti. A fatica si supera la ricezione psicologica delle parole e quasi mai in gruppo discutiamo intorno ad un tema a lungo. Tranne ai convegni e alle conferenze, certo. Ciò che è nuovo, e per diverso tempo auspicato, in Clubhouse è, perciò, proprio la restituzione alla dimensione sociale, quotidiana e gratuita, della possibilità di parlare direttamente online intorno a temi, con lo spirito giusto da attribuire al discorso, evitando tanto i rituali dei convegni, quanto proprio le stesse piattaforme digitali di video-conferenza come Skype, Zoom, Meet, etc, che sono state inventate per scopi diversi della nostra socialità, rispetto a quello che impropriamente gli abbiamo assegnato di strumenti di socializzazione libera e di confronto. Ne può uscire una vera baraonda goliardica o aule di lezioni. Da uno spazio social libero che si organizza per includere miliardi di utenti ci si deve aspettare di tutto. Mentre i social consolidati ci hanno abituato a scrutare in tutti i modi possibili, privatamente, contenuti resi pubblici da altri, seguitando indisturbati a coltivare, più o meno, ognuno i propri interessi per conto proprio, “anonimizzando” i suggerimenti e i consigli anche culturali; Clubhouse è un social in cui si può praticare online l’antica arte della conversazione, con una organizzazione interna relativa su base tematica: le «stanze». Non mi soffermerò sulle questioni apparentemente elitarie di web marketing per cui attualmente il social è disponibile per iOs e non per Android, né sulla questione della fruibilità su invito o su richiesta da lista d’attesa, che, però, almeno a prima vista ricordano il festino privato dei boudoir, in chiara contraddizione con l’open source della app. Non parlerò nemmeno delle importanti conseguenze della diffusione di questo social per i digital studies odierni (un ruolo speciale in questi studi lo svolge di sicuro la Digital Death), né del pericolo che Clubhouse dia il colpo di grazia al personalismo, che nelle società democratiche sopravvive a stento, e, malaticcio, viene guardato con indecoroso sospetto e commiserazione. Ciò che conta, in questa fase, è evidenziare come sia a tutti gli effetti possibile osservare Clubhouse come un esperimento sociologico che ha il potenziale di revitalizzare lo scambio di opinioni costruttivo combattendo la riduzione dell’ein-ander-setzen del con-versare reciproco, proficuo per la crescita degli interlocutori, a suggestione immaginifica e ad esternazione privata divulgativa spalmata su un pubblico di privati online in modo retorico e spesso auto-conclusivo, tipica dei post e delle storie, attraverso la riconsegna dell’oralità al nuovo contesto sociale digitalizzato. Non era poi così scontato trovare un modo per fare davvero comunità colloquiando, alternativo alla solidarietà pontificata da decenni dai progrediti sistemi democratici degli Stati occidentali (onlus, associazioni umanitarie, centri sociali, circoli, etc) o al suo radicale opposto (organizzazioni criminali, baby gang, tifoseria ultras, etc). Certo, tutto dipenderà dai contenuti delle discussioni, e la sterile e divisoria prevaricazione da salotto televisivo è sempre dietro l’angolo. Così come il narcisistico esercizio performativo di auto-esibizionismo. Ma abbiamo imparato che gli atteggiamenti e i contenuti non dipendono dal medium, ed è assolutamente positivo il fatto che sia giunto uno spazio di libera discussione online alternativo alle piazze manifestanti e ai palinsesti televisivi, in un contesto sociale, al fondo, pieno di network social, ma povero di autentiche iniziative associative.

Il nuovo network online è in fase incoativa, pertanto nel parlare di esso - benché abbia già capitalizzato milioni di dollari - è bene privilegiare quella ineliminabile verve speranzosa di cui si permea il discorso sullo status potentiae di qualcosa. Si può già dire, tuttavia, che la funzione del nuovo social, data la sua struttura e la sua origine, in linea teorica e potenziale, ha tutte le carte in regola per produrre un diverso - si potrebbe dire più originario - impiego dei network telematici della socialità. Nonché per recare una ventata di aria fresca correttiva dei problemi di ‘idiotismo’ che viziano i social ormai classici: discussioni ingiuriose e cariche di pregiudizi e nervosismo dei ‘leoni da tastiera’, proprie di Facebook; lo svago pseudo-istruttivo dei video di Tik Tok; la caccia agli sponsor e ai follower in Instagram; i banner pubblicitari a non finire che ottundono e interrompono la ricezione dei contenuti stritolati nel canali social. Clubhouse non è un social molto diverso da Twitch: le persone lì fanno dirette creando “stanze” di appassionati che discutono insieme su tematiche selezionate. La differenza sta nel medium della discussione, che rende Clubhouse più simile a Whatsapp e a Telegram, network di messaggistica (anche) vocale, e più dinamico dei podcast in differita di Spotify. Il nuovo social offre l’opportunità di tornare dalla “chat” scritta al confronto dialogico inteso come con-loquio. Se tali conversazioni su cui ci si raduna per il confronto vertono su tematiche importanti al livello culturale e sociale, allora questo social è un motivo in più per rivendicare la positività delle nuove tecnologie digitali. Per preconizzare l’istituzione di un luogo di apprendimento neoscolastico. Dal momento che il digitale sembra riuscire a superare l’impasse in cui si ritrova irretito da anni, vale a dire il privilegiare la forma della scrittura e dell’immagine in luogo all’oralità. Fenomeno che ha prodotto, da una parte, un grande laboratorio di esercizio globale per l’alfabetizzazione e per lo sviluppo delle capacità analitiche dell’intelletto, anche tra i più giovani, ma al contempo ha comportato una progressiva incapacità di restare concentrati sullo scambio orale, l’indisposizione all’ascolto. Riscoprire la complessità e l’utilità dello scambio orale fatto di parlare-ascoltare significa riscoprire una prassi, quella dialogica, sulla quale per millenni abbiamo costruito la civiltà occidentale tanto al livello politico, che culturale. Questa è l’occasione per renderci conto fino a che punto sia tanto difficile quanto istruttivo conversare in modo davvero efficace, un aspetto che si tende a sottovalutare, o meglio, a nascondere. Proprio per la sua difficoltà, che ha prodotto logorrea, verbosità, e noia, abbiamo scelto di disertare dallo scambio dialogico orale sui social, per pigrizia, per semplificare l’indomabilità dei discorsi e la loro natura aporetica e spesso inconcludente, perché il messaggio scritto lo sappiamo “ascoltare” meglio, visto che leggendolo lo ri-diciamo a noi stessi. Oppure, intanto, è l’occasione sperimentale per fare una diagnosi sullo stato di salute del discorso vivo oggi.

Clubhouse è “sulla bocca di tutti”, sebbene non faccia altro che dare una nuova chance alla prassi della parola pronunciata e ascoltata, un comportamento antichissimo e congenito degli esseri umani, di cui si avverte talmente tanto il bisogno oggi, da parlarne come “novità” entusiasmante.

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