Seduzioni dell’inconscio. La psicosi nella sua forma

È il 1946 quando Jacques Lacan tiene a Bonneval il dirompente Discorso sulla causalità psichica.[1] Da quell’intervento, nel 2020, otto tra psicoanalisti, filosofi e medici prendono le mosse per interrogare un margine indecidibile: tra (supposte) normalità e follia. Indecidibile e insondabile sono i significanti che movimentano una ricerca sostenuta, costitutivamente, sul mistero dell’essere, della causa, della decisione.

L’insondabile decisione dell’essere. Filosofia e Psicoanalisi dinnanzi alla causalità alla follia, edito da Orthotes e curato da Viviana Faschi, è un volume che sceglie di insistere sul punto più arduo per la filosofia, quello in cui la sua identità con se stessa vacilla. L’impressione è che ci sia dell’impossibile nel fissare cosa stia al di là e cosa al di qua del limite; lo esperiamo interrogando la psicosi.

La psicosi è il fuori linguaggio, la follia scatenata dalla forclusione (espulsione estrema) della struttura? O è la struttura stessa? Si forclude il Simbolico o un preciso significante del Simbolico, il Nome-del-Padre?

Indecidibile il margine tra quella costruzione che ci garantisce di abitare il mondo nel legame sociale, ossia il fantasma – microstruttura narrativa inconscia, singolare al soggetto, che difende e al contempo è finestra di affaccio sul Reale – e il suo delirio intrinseco. Si tratta quindi di stabilire a che altezza inizia una follia. Non sorprendiamoci se la risposta tende a una complessificazione del rapporto univoco causa-effetto, causa-senso e se smentisce la regressione etiologica verso l’individuazione della causa prima. L’univocità di tali nessi si mostrerà a sua volta come indecidibile.

D’altronde, ce lo insegna bene la concezione del tempo in psicoanalisi (cfr. p. 29): l’inizio di un trauma si perde, non si mostra nel suo scatenamento diretto del sintomo, la temporalità è una matassa da ricostruire ammettendo che il futuro possa precedere il presente e che il passato possa seguirli. In una narrazione che, insistendo, ripetendosi, d’un tratto differirà da se stessa. Ripetizione-differenza, attacco-stacco, dentro-fuori, vita-morte, queste parole potrebbero inglobarsi l’un l’altra fino a confondersi. Intuiva bene Derrida in La vie la mort [2] come ogni opposizione e dicotomia non si possa più sostenere. Il fuori non solo sarà il dentro, ma sarà il dentro del dentro. Così, nel volume, la Psicoanalisi si innesta intimamente nella Filosofia in un movimento di ricerca della verità, che non si può condurre altrimenti, cioè non senza un’immistione preliminare dell’altro.

Sarà un imperativo etico: richiamare in maniera incessante l’altro escluso nell’atto della propria affermazione. Un’affermazione che spesso ha dell’immaginario, del miraggio di voler fare Uno, di ricondurre se stessi a unità, rispetto al Reale di un corps morcelé. Sotto il profilo delle alterità escluse dal miraggio identificatorio, una rassegna toccante di “buchi” nei pianeti interi. Essere un pianeta intero è proprio quel che un’esperienza psicoanalitica non produrrà, diversamente dall’ego psychology. In questo saggio la sfericità dell’ego pieno è indebolita e poi decostruita fino alla sua inconsistenza: il soggetto, lacanianamente, è tale solo nel luogo della sua Spaltung, nella «virtualità permanente di una faglia aperta» (p. 150). Dunque nella sua follia? Gli orifizi nelle sfere, gli Altri esclusi dall’identità dell’io in se stesso, sono il caso borderline che “sceglie” – vedremo la problematicità di questo termine – di abitare il limite e di fare di questo un godimento (cfr. p. 96), o ancora il Matto dei tarocchi che appare a se stesso come il più sapiente, perché persevera instancabilmente nella propria ricerca, e agli altri come folle perché «fuori dal comune buon senso» (p. 11), l’anoressica che mangia il niente,[3] ossia un oggetto-niente: e che oggetto di desiderio è un oggetto niente, causa di un non-desiderio?

Tali casi, dai vecchi ai cosiddetti «nuovi sintomi», stressano l’ovvietà del discorso con cui assegniamo un al di qua e un al di là del limite, provocando contrazioni-estensioni nel limite stesso fino a dubitare del suo statuto ontologico.

Le implicazioni di un’interrogazione (trascendentale o meno) su cosa fa del margine un margine sono, anche, direttamente politiche: se si tratta il folle, o chi è stigmatizzato come tale, si tratta dei luoghi preposti a ospitarlo, e nonostante siano passati quarant’anni dalla legge Basaglia, i meccanismi di segregazione sono semplicemente mutati: da un’esclusione a una «logica dell’inclusione segregativa» (p. 69), soprattutto nella clinica dei nuovi sintomi. Permangono i tratti di un furor sanandi che ha dell’accanimento, spinte sociali di riabilitazione indotta e forzata, rispetto alle quali bisogna considerare, oltre al diritto ad esser curati, anche il diritto ad essere riconosciuti come forme. Forme singolari, inassimilabili, irriconducibili ad alcunché. Quindi incurabili? La domanda è di ordine diverso, è se vogliamo teoretica prima che clinica. Si tratta di coltivare un’abilità – non senza indugiare in un certo coté di mistero – di ascolto e di visione della forma, nonché di riconoscimento, prima che di diagnosi. La follia è prima di tutto la «grazia di un volto» (p. 147): come ricondurre questa Gestalt all’innesco di cause che ne determinano la grazia? Qualcosa sfugge. C’è del Reale, ed è qui che anche il più puntuale determinismo fallisce. Si può tentare di ritessere le trame dei meccanismi bio-fisiologici con un organicismo di tipo dinamico – pensiamo allo psichiatra francese Henry Ey – [4] ma anche allora, entro le maglie del riduzionismo, non si sarà colta l’emergenza della forma della psicosi.

Che emerga, accade. E sorprende nel suo accadere. La diagnosi verrà dopo, proprio dal mistero di un apparire imprevisto: una domanda, un sintomo, un inciampo.

Non ci si chiede più “quale la causa?” ma “c’è libertà, in questa causalità insondabile?”. La decisione dell’essere non è infatti la decisione del soggetto. Chi è il soggetto della follia?

«Non diventa pazzo chi vuole» è la scritta che campeggia in una sala d’attesa d’ospedale, appesa da un giovane Jacques Lacan che si avvicina alla psichiatria. Se la psicosi non si sceglie, qualcosa sceglie nella psicosi, non differentemente da come qualcosa sceglie in noi, per cui parlare di psicosi è parlare della vita psichica tout court.

Potremmo quindi interrogarci su quanto la follia dica di una scelta soggettiva, di una strategia, di una modalità di resistenza alla struttura.

Prima di saperlo, e tutt’ora a nostra insaputa, abbiamo scelto di acconsentire alla nostra inscrizione nel campo dell’Altro. Un “sì originario” di cui portiamo le tracce nel sistematico diventare-altro per diventare se stessi (cfr. pp. 42-43.). Da qui l’importanza del parametro dell’identificazione, spesso tenuto in sordina. L’Io si sviluppa in quanto tale attraverso una sequela di identificazioni, per cui nelle cosiddette allucinazioni, così come nei fantasmi singolari, non si tratta di fuori-normalità, ma spesso di potenziamento della normale identificazione, di ulteriore «funzionamento delle captazioni immaginarie» (p. 150). La cifra stilistica del volume si condensa in uno sguardo capace di oscillare tra poli non posizionabili, sguardo differenziale che ripercorre l’andirivieni “psicotico” «tra decisione e forclusione» (cfr. p. 117) e finisce per coincidere con il portato stesso della soggettività. Negli snodi prodotti dalle necessarie discontinuità di un volume collettaneo alberga il fantasma di ogni autore, gli spigoli e le impasses di una lettura “ovvia” della psicosi, che va rimescolata, per usare un termine caro agli autori, «enantiodromicamente». Enantiodromico è un aggettivo eracliteo in cui precipitano la “corsa” (δρόμος) e il “contrario” (ἐναντίος) e indica ciò che si oppone convergendo: beninteso, converge per il fatto stesso di opporsi. Il sostrato teoretico del saggio è un discordare, un produrre differenze, differenziando tra loro le differenze, insomma un’operazione di cui si perde inevitabilmente il punto di inizio e il suo concetto.

Quel che resta è la seduzione dell’emergenza di forme che non possono dirsi. Seducendo, attraggono a sé, portano in disparte (cfr. p. 148), e seduzione diventa sinonimo di se-partizione, divisione del sé. Disuniti, as-soluti, sedotti, perdiamo la posizione che ci garantiva, in un prima, di fissarci ingenuamente al di qua della psicosi.

[1] J. Lacan, Discorso sulla causalità psichica, in Scritti, Volume I, a cura di G. B. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 145-187.

[2] J. Derrida, La vie la mort. Séminaire (1975-1976), Seuil, Paris 2019.

[3] J. Lacan, La direzione della cura e i principi del suo potere, in Scritti, Volume II, a cura di G. Contri, Einaudi, Torino 1974, pp. 580-642.

[4] Henry Ey, Manuel de Psichiatrie, Editions Masson, Paris 1989 e Id. Essai d’application des principes de Jackson à une conception dynamique de la neuropsychiatrie, Editions Doin, Paris 1938.

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