Intervista a Micaela Latini. 90 anni di Thomas Bernhard

Simone Raviola: La malattia e la minaccia della morte dominano la vita di Thomas Bernhard fin dalla più giovane età. Gli stessi temi si ritrovano poi in quasi tutti i suoi scritti. Nell’opera di Bernhard, qual è il rapporto tra la vita e il racconto che se ne fa? Il suo lavoro letterario è una semplice rielaborazione artistica della malattia che lo ha a lungo accompagnato, oppure esso è capace di superare la propria origine biografica?

Micaela Latini: La questione dell’origine è forse il tema centrale e ricorrente dell’opera di Thomas Bernhard, un’origine che compare in diverse maschere e nelle più svariate figure. L’origine non è da far coincidere totalmente con la sua odiata e amata Austria, non come luogo geografico, bensì – direi –con la contingenza che ci è toccata in sorte e che rischia di annientare, o almeno di tarpare le ali al movimento del pensiero. Intorno al nucleo tematico ruota anche il rapporto tra l’insensatezza dell’esistenza umana e la decisione di darle un senso. In fondo tutti o quasi tutti i personaggi principali di Bernhard, spesso in contrasto con dei loro alter-ego, si accaniscono su un compito, che poi è il compito della loro vita. Non importa quale sia questo compito, il punto è che proprio in questa ricerca di senso ci concentrano i loro sforzi. Il racconto della vita, per ritornare alla tua domanda, o meglio alla tua rosa di domande, è proprio questo tentativo di fare i conti con la propria vita, di contrastarla in qualche modo “contropelo”. Bernhard lo dice esplicitamente in qualche intervista: il pensare ha bisogno di contrasti. E quale contrasto migliore del proprio sé? Bisogna sempre fare attenzione a non sovrapporre Bernhard ai suoi personaggi, che pure rimandano a diversi tratti della sua figura e della sua biografia. Anche la sua cosiddetta autobiografia è in qualche modo, proprio per quell’amalgama di realtà e finzione che la caratterizza, anche un’opera letteraria in cui, o meglio, attraverso cui Bernhard filtra il proprio sé.

Come scrittore lui si colloca sempre esemplarmente sulla invisibile linea di confine che separa senso e non senso.

Mi sembra che una cifra significativa per comprendere a pieno la questione della dialettica tra vita e rielaborazione della vita, ovvero del non-senso e della ricerca del senso, si possa rintracciare tra le pagine del suo ultimo romanzo: Estinzione. Lo sforzo del protagonista è qui – come noto – quello di scrivere una biografia che in realtà non è altro che un’antiautobiografia, ovvero una biografia che nel costruirsi distrugge la “forma di vita” (per dirla con Wittgenstein) che dovrebbe mettere su carta. Non è un caso se la stesura di questo testo – che poi è il romanzo Estinzione stesso – viene coronata con il suicidio, in un cortocircuito tra arte e vita che lascia molto da pensare.

SR: Thomas Bernhard ha scritto poesie, racconti, romanzi e opere teatrali. Qual è il rapporto tra le differenti espressioni letterarie di Bernhard, quali gli aspetti di contiguità e quali invece le discontinuità che emergono all’interno del suo lavoro pluridecennale? E, al contempo, sussiste un’evoluzione temporale in Bernhard o ci troviamo di fronte ad un’unità invariata?

ML: Ha iniziato con la poesia, ma il successo è arrivato con la prosa. E anche le sue opere teatrali hanno riscosso un notevole successo. Chiaramente diversi sono i motivi che sopravvivono e circolano nelle diverse espressioni letterarie di Bernhard (aggiungerei anche le interviste che sono anch’esse intessute di motivi preziosi). La prosa di Bernhard – non dimentichiamolo – è sempre anche una prosa teatrale: quando si apre un suo libro è come se si aprisse un sipario, e anche l’architettura narrativa denuncia una forte influenza della impostazione drammatica.

Soprattutto, all’interno della prosa, i racconti brevi e i romanzi mostrano molti punti di convergenza nel senso che spesso un tema che viene accennato in un testo trova un terreno più fecondo di sviluppo in un’altra opera. Un esempio emblematico è L’italiano ed Estinzione. Ma ci sono poi delle formule che attraversano più o meno sotterraneamente la sua opera. Il rapporto tra fratelli, o tra fratello e sorella, o tra fratello e sorelle, è uno dei motivi più ricorrenti, e si ritrova sia nella prosa sia nel teatro. È chiaramente un riferimento al rapporto tra il sé e l’altro da sé o, per dirla con Bernhard stesso in Correzione, tra il noi e gli Altri. E l’altro qui non è tanto da intendere come altro genere, ma come l’altro che non si è messo in questione, che trascina la propria esistenza senza mai rifletterla, correggerla, ovvero senza viverla veramente. Un altro tema sicuramente molto presente, e qui torno anche alla prima domanda, è la questione della malattia. In Gelo, in Amras, nella Fornace, in Cemento, in Perturbamento, nel Nipote di Wittgenstein, per citare solo alcune opere di prosa, in tutto il ciclo autobiografico, direi, e poi in Una festa per Boris, in Ritter, Dene, Voss, per il teatro. Nella poesia le cose stanno diversamente. Anche nella lirica di Bernhard il tema della malattia svolge un ruolo importante (insieme ad altri motivi, come la ricerca delle origini e la rappresentazione del mondo rurale), ma la sua funzione è piuttosto quella di avvolgere il tutto in una Stimmung più cupa, e questo anche laddove non si fa esplicitamente cenno a questo nodo.

Ecco, qui, mi sembra che un forte elemento di divergenza sia da sottolineare. Se la prosa di Bernhard è attraversata, intessuta direi, dal filo dell’ironia, per quanto intrecciato al filo della tragedia, niente di tutto questo si trova nella sua lirica che è dominata dalla tonalità del tragico.

Per quanto riguarda l’evoluzione del suo stile narrativo, direi che Bernhard ci ha lasciato dei modelli molto diversi. La prosa di Amras, o di Gelo o di In alto non ha nulla a che vedere con quella di A colpi d’ascia o di Antichi maestri. Ma d’altro lato mi sembra che, al di là delle differenze nettissime, tutto Bernhard sia in qualche modo un attacco ai limiti della scrittura stessa.

Questo per lo stile. Sui motivi, sui temi della sua opera, mi sembra che invece la questione sia ben diversa, perché Bernhard si confronta insistentemente, ossessivamente con gli stessi temi, prendendoli sempre da angolazioni diverse, e quindi confrontandosi anche con “media” diversi.

SR: Nell’opera di Bernhard sono onnipresenti le considerazioni sull’inutilità dell’esistenza e sull’assoluta mancanza di senso della vita. Al contempo, scrivere è per Bernhard assolutamente necessario. A tal proposito hai parlato dunque di un “paradosso della scrittura” (Micaela Latini, La pagina Bianca. Thomas Bernhard e il paradosso della scrittura, Mimesis, Milano 2010). A partire dalle sue considerazioni nichilistiche, che funzione assume la scrittura in Bernhard?

ML: Per Bernhard la scrittura ha il compito di misurarsi con il non-senso della vita, e non per restituirle un senso, quanto semmai per svolgerne il non-senso fino alle estreme conseguenze, per mettere in opera il non-senso stesso. La correzione della vita può essere soltanto questo, e può darsi solo attraverso un esercizio di tal fatta.

SR: L’ossessività dei temi in Bernhard si raddoppia nella ripetizione maniacale con cui questi vengono articolati nella sua prosa. Forma e contenuto della scrittura si specchiano l’una nell’altro nel ritmo cupo e drammatico che muove le fila dei racconti e dei romanzi. Inoltre, la tensione tra la torsione linguistica e l’asprezza contenutistica produce un’inquietudine che esaspera il lettore. È forse questa intollerabile identità eidetica tra forma e contenuto che rende così sublime l’opera di Bernhard?

ML: Inquietudine (Unruhe) è qui la parola chiave, perché è proprio nel perturbamento che Bernhard vede un pungolo per la messa in questione del proprio sé. “Unruhe” avrebbe dovuto essere il titolo provvisorio di uno dei suoi romanzi (Estinzione). Tutto questo ha a che fare con il contrasto, l’attrito che, come dicevo prima, è il vero motore della riflessione. Senza perturbamento non c’è riflessione, c’è una vita abbandonata a se stessa, un percorso acritico. Bernhard è un artista dell’esagerazione, dell’iperbole, è uno scrittore che ha scelto dei toni esasperanti. E lo ha fatto con l’intento di scuotere le coscienze, di provocare una reazione, anche di disgusto, ma comunque di messa in questione, di presa di distanze. Bernhard ci insegna a camminare come i funamboli sulle macerie dell’esistenza.

Io credo che l’opera di Bernhard sia caratterizzata da un sapiente passo incrociato tra commedia e tragedia. E in questo sguardo strabico sta proprio la sua sigla. Bernhard esagera a tal punto che la tragedia si rovescia in commedia, creando un senso di spaesamento in chi legge, una vertigine di senso.

SR: La scrittura di Thomas Bernhard divide nettamente il pubblico dei lettori. La prosa ripetitiva ed ossessiva congiunta alla monotonia dei temi che caratterizza il suo corpus di prose, da Gelo (1963) a Estinzione (1986, postumo), ha sempre destato il più alto interesse piuttosto che la più profonda avversione di illustri commentatori. Tra i suoi detrattori, capaci comunque di ammetterne le grandi doti con giudizi equilibrati, ci sono Elias Canetti e George Steiner. Canetti, che pure aveva salutato positivamente Gelo, scrive in un appunto: “Dal più miserevole piagnisteo è scaturita, in cento ripetizioni, un'intera opera. Per ogni offesa fa mettere al muro diecimila lettori”. George Steiner parla di un autore “prolifico e discontinuo”, capace di grandi opere (“nei suoi momenti migliori il più importante artefice della prosa tedesca dopo Kafka e Musil”) ma anche di “fin troppi romanzi e copioni che imitano sé stessi, meccanicamente cupi”. Qual è il valore complessivo dell’opera di Thomas Bernhard? Si deve parlarne nei termini di un autore mediocre capace di toccare l’alta letteratura in alcuni rari punti o, viceversa, si dovrà dire che si tratta di un genio letterario tout-court?

ML: Non sono io a poter quantificare il valore complessivo della sua opera, un valore certamente di altissimo livello visto anche il successo su scala planetaria.

Ecco, questo credo che sia già un segnale: Bernhard che pure parla quasi ossessivamente di quel che accade in un piccolo Stato d’Europa, è stato tradotto, studiato, rappresentato in tutto il mondo. La capacità della sua scrittura di varcare i confini nazionali ed europei è qualcosa da evidenziare perché significa che l’Austria dei suoi romanzi/dei suoi racconti/delle sue opere teatrali/della sua lirica/della sua invettiva, bene quell’Austria è anche altro da quell’Austria. Basta pensare a una pièce come “Piazza degli eroi”, appena rappresentata (seppur in televisione, causa Covid) in Italia. Un testo teatrale marcatamente austriaco, eppure al contempo terribilmente europeo, e probabilmente anche mondiale; un testo legato alle vicende politiche degli anni Ottanta eppure ancora sorprendentemente attualissimo. Quell’Austria allora ha a che vedere con il complesso dell’origine, con qualcosa che ci riguarda non in quanto austriaci, europei o altro, ma in quanto umanità. Non è forse lo stesso con Musil, o con Kafka? Le riunioni dell’Azione parallela nella Kakania di Musil non ci ricordano forse le adunanze alla Camera dei Deputati o al Senato di marca italiana? E le vicende burocratiche narrate da Kafka non sono ormai un modello sdoganato per dipingere una situazione appunto kafkiana, che però al contempo riportiamo ogni volta a un “nostro” malcostume nazionale? Come Musil, come Kafka, come i grandi scrittori sanno fare, Bernhard tratteggia un’immagine del suo Paese che in fondo è un paesaggio mondiale dell’anima. Come Musil e come Kafka, la sua ironia parla una lingua universale. Che poi questa lingua si fondi su delle variazioni non è affatto un limite. Pensiamo a un modello bernhardiano come “Le variazioni Goldberg”, variazioni appunto, ma che compongono una delle opere più belle di Bach (poi eseguite da Glenn Gould, e al centro del romanzo Il Soccombente). Le variazioni sono uno degli espedienti che Bernhard usa non per conciliare il sonno (come erano state ideate da Bach) ma piuttosto per scuotere l’intelligenza umana, per riaccendere quella dimensione di critica, di autonomia del pensiero. Variazione e ripetizione dello stile, dei temi, delle figure, dei motivi. È proprio nei “minimi passaggi” da una frase all’altra che Bernhard sa svelare la vera tonalità della sua opera, ma solo per chi ha orecchio per sentirla.

Indietro
Indietro

«Tutto è suicidio». 90 anni di Thomas Bernhard

Avanti
Avanti

Seduzioni dell’inconscio. La psicosi nella sua forma