«Tutto è suicidio». 90 anni di Thomas Bernhard

La vita è un permanente suicidio e da esso emanano tutti i ricordi, tutte le memorie strettamente congiunte alla morte - la memoria è una vita e una diversità come coscienza della morte.

(Andrea Emo)

Le silence éternel de ces espaces infinis m'effraye.

(Blaise Pascal)


La scrittura di Thomas Bernhard oscilla tra una bellezza mortifera, micidiale e assassina e una proliferazione perversa, morbosa e maniacale. Tale distinzione modale interna alla sua opera non è però altro che lo specchio di una distinzione reale: quella tra il paesaggio, espressione della morte, cripta visibile di un vuoto irrespirabile e invivibile, e l’evento, agente di riconfigurazione vitale ovvero motore semi-mobile della pazzia. La scrittura di Bernhard si muove tra la forma lapidaria della morte e la materia schizofrenica della pazzia: l’una risiede al centro dell’altra: la morte abita lo spazio vuoto interno ad un turbine impazzito che da lei stessa sgorga e prende vita. I due poli, la forma assoluta della bellezza pietrificata, “pietrificata ottusità”, “corpo senza vita” e la corsa monologica priva di ogni ragione, si incontrano nella scrittura vertiginosa di Bernhard nella forma di un trattenere. Nella prosa di Bernhard, la morte è infatti oggetto assunto dalla parola, e quindi implicitamente già messo a distanza attraverso l’uso che ne fanno l’arte e il virtuosismo, la musica e il teatro: «Signore / voglio vedere ciò che deve avverarsi / il mio morire Signore / e il mio commiato in lacrime». “Voglio vedere” scrive Bernhard: non si tratta quindi solo di invocare la morte («Signore dà pane e vino / e lasciami morire ora / e gemere nel vento»), quanto piuttosto di trattarla chimicamente, lavorarla, elaborarla. Bernhard incontra la morte presto: con la guerra, a Salisburgo, nel 1944, dove assiste alla devastazione della città causata dai bombardamenti degli alleati, comprendendo “l’assoluta brutalità della guerra” che, d’altra parte, non gli impedisce di vedere la bellezza nel mostruoso. «Tutta la piazza sotto la cattedrale era coperta di macerie, e la gente, accorsa come noi da ogni dove, guardava sbigottita quell’immagine esemplare, senza dubbio mostruosamente affascinante, una mostruosità che per me fu bellezza». Questa mostruosa bellezza è certamente uno dei primi germi dell’avventura letteraria di Bernhard. Ma c’è un altro dato biografico da tenere in considerazione. Un nuovo incontro con la morte, questa volta una morte potenziale, ovvero una malattia. A diciott’anni, il giovane Thomas viene ricoverato in ospedale, per una polmonite non trattata adeguatamente che si trasforma in una pleurite essudativa grave. Dopo un periodo travagliato in ospedale, Bernhard viene trasferito in una casa di cura nella quale contrarrà una forma grave di tubercolosi. Per i due anni successivi la sua vita sarà un inferno medico. Dall’inferno medico, Bernhard uscirà infermo per la vita. In merito, George Steiner ha scritto che Bernhard, «Alle soglie della vita adulta, si ritrova condannato a morte. E nella costante attesa del realizzarsi di quella condanna e, allo stesso tempo, a dispetto di essa che egli troverà scampo nella cittadella armata della sua arte». In Bernhard, «L’arte del morire è un’arte musicale» (Luigi Reitani). «Quando tutto è già finito – spirito, persone, ricordo – rimane sempre, rimane pur sempre la musica». Con “musica” si deve intendere la più alta forma artistica, letteraria in senso lato, che l’umano possa creare – arte musicale poiché comunica con delle muse capaci di mettere in moto la Parola. Tale processo comunicativo non procede propriamente dal divino al poeta, come viene spesso ripetuto. «L’arte vera sta nel cantante, non nel poeta». La musica dunque proviene dalla natura e trova il suo luogo proprio nell’umano, nel grido della disperazione: «il grido. Una volta si diceva il bambino strilla. Oggi si dice il cantante canta. In fondo è la stessa cosa». Dalla natura – divina in senso prettamente materialista – all’uomo, nella figura estrema della voce inarticolata: la musica si produce con il primo grido lanciato durante la fuoriuscita antropica del parto, naturale contrappunto dell’esplosione primordiale che in esso si rispecchia e torna a vivere. Nello squarcio della nascita umana risuona il Big Bang. La Parola è un Evento, o ciò tramite cui l’evento si articola e viene fatto oggetto d’uso: il pensiero che si esprime tramite la parola è «strumento per scatenare la sua meditazione sul suicidio e la sua propensione al suicidio e poi interrompere, ad un tratto, questa meditazione sul suicidio e questa propensione al suicidio». La Parola è la ripetizione mitica dell’evento, di quell’evento sacrificale che è l’esistenza umana nella sua nascita. Nell’opera di Bernhard l’evento è un trauma. Il trauma disattiva il contorno delle immagini che separano e concatenano rigidamente l’esistente, mostrando ciò che solitamente rimane invisibile: il caos, l’assoluta contingenza di ogni cosa, la perenne trasformazione dell’universo, l’assenza di immagini, l’“immagine fratturata” che risiede al fondo di ogni immagine, di ogni forma (Jacques Derrida): «si hanno così tante idee, che si finisce per non vedere assolutamente nulla, è un puro caos, e lo si sa anche. Ci si deve lasciar sorprendere […] “Chiudi gli occhi, apri la bocca”, è il mistero del mondo». L’evento è la presa di coscienza, puntuale e micidiale al contempo, dell’insensatezza dell’esistenza. Non solo, il trauma esplicita il carattere impotente dell’uomo di fronte all’evento stesso, che rimane indefinibile (non circoscrivibile, senza orizzonte) per definizione. Nell’evento traumatico, si trova «l’essere umano totalmente umiliato e in balia degli eventi, che ad un tratto diventa consapevole della propria inermità, della propria insensatezza». L’evento incide nelle circonvoluzioni cerebrali della scimmia intelligente l’inaccettabile verità dell’esistenza: «L’esistenza è errore, dice Ohler. Ce ne dobbiamo fare una ragione con una certa tempestività, in modo da avere un fondamento su cui esistere, dice Ohler». Nel momento in cui l’esistenza è “errore”, ogni fondamento marcisce però sotto la percussione di un errare originario. Questo errare è “fondamento su cui esistere”, ma l’unica forma di vita capace di vivere nell’errore è quella che segue all’infinito la ricombinazione degli elementi, il disfarsi e l’aggrovigliarsi della cloaca primordiale. Questa forma di vita ha un nome: pazzia. «La vita [è] disperazione, a cui le filosofie si appoggiano, in cui tutto, in fondo, deve impazzire». Illuminando l’infondatezza dell’esistenza, l’evento convoca nella mente umana la pazzia e assegna così l’esistenza umana, in ultima istanza, al suicidio. La scrittura di Bernhard si inserisce nello spazio che separa l’evento “illuminante” dalla morte, per trattenere nella parola quel tempo di follia lucida, pensiero delirante, di cui è fatta l’esistenza umana e di cui, nei romanzi di Bernhard, i personaggi e i loro lunghi monologhi sono testimoni e sacri simboli. Testimoni perché nel loro volto, quasi mai descritto («conosco meglio le schiene che i volti delle persone»), è inscritta la verità della vita; sacri perché separati dallo spazio statale, borghese e mediocre della vita sociale. La ripetizione delirante a cui Bernhard sottopone l’oggetto della sua scrittura, facendo peraltro cadere il referente reale in un vuoto d’inconoscibilità (Ingeborg Bachmann), è funzionale esclusivamente a produrre un movimento di ritenuta – rituale e mitico al contempo - dello scivolare inevitabile della pazzia nella morte (spesso suicidaria). Bernhard cerca così di afferrare il momento in cui la morte si fa pazzia, ovvero il momento in cui nascono le forme dell’insensatezza - la vita, l’esistenza, il pensiero; il momento in cui dall’ambiente (sempre figura dell’occlusione vitale, causa di morte) si staglia un individuo (germe del pensiero, della pazzia). Questo stesso stacco, questo passaggio dall’ambiente all’individuo, dalla morte all’esistenza, implica per l’uomo la pazzia. Una volta che si è “usciti” dalla città, ecco che non vi si può più tornare, una volta che si è nati, ecco che non si può più non-nascere, ma soltanto morire, e il suicidio è la forma più sublime della morte. La ripetizione e la variazione che caratterizzano la prosa di Bernhard contribuiscono a modellare una scrittura al contempo sacrificale e mitica, rituale e narrativa. Il sacrificio è evento, corpi che sfumano nella putrefazione, uno spirito disgregato dalla scuola, dallo stato o dalla società, dai genitori. Il mito invece è racconto: «dal sacrificio, insieme al sangue, sgorgano le storie» (Roberto Calasso). Da qui l’ossessione di Bernhard per il troppo tardi: i suoi personaggi sono sempre arrivati un po’ più in là del dovuto, sono quindi impazziti, e temono sempre di andare di nuovo un po’ troppo in là, e quindi di suicidarsi. La filosofia di Bernhard è una filosofia del limite: «L’arte della riflessione consiste nell’arte, dice Ohler, di interrompere il pensiero esattamente prima dell’attimo letale». Bernhard cerca di abitare la soglia sempre già slabbrata che separa la morte (primordiale) dal suicidio (la morte promessa): «Sopprimere la vita o l’esistenza, per non dover più vivere l’una o esistere l’altra, porre fine a questa improvvisa totale desolazione e disperazione con un salto dalla finestra o magari impiccandosi nella stanza delle scarpe al pianterreno, gli sembra l’unica cosa giusta da fare, ed egli tuttavia non la fa […] Ed egli davvero ha compiuto vari tentativi di uccidersi nella stanza delle scarpe, ma neanche uno di questi tentativi l’ha mai spinto troppo in là». Il suicidio non è mai praticabile, ed è infatti al contempo predeterminato e assolutamente immotivato, tutto lo determina e nulla lo causa. Il suicidio è l’assoluta necessarietà dunque l’assoluta impossibilità della vita, ovvero della pazzia. «La follia», invece, è «più sopportabile e il mondo è in sostanza un sistema totalmente carnevalesco». Dalla visione, «stasi, immobilità, nulla, Nulla», all’evento che è la vita, protuberanza tumorale e insensata della visione. Il movimento è però circolare: dai concetti della morte (pietra, visione, ambiente, paesaggio, città, genitori, Stato, società) alle forme della pazzia (pensiero, distruzione, evento, individuo, scrittura), e poi di nuovo da queste a quelli, dalla pazzia alla morte, quando la follia supera il proprio punto di non ritorno e deflagra nell’atto suicidario. L’opera di Bernhard è abitata fino allo spasmo più biliare da una follia che lievita di pari passo con il volgersi delle pagine, fino a che non c’è più pagina da girare, fino a che il pensiero si fa troppo puro e la parola troppo vicina alla morte. Fino a che la lettura e la vita non si fanno irrespirabili. La scrittura di Bernhard si tiene dentro questo circolo, tra una morte e l’altra gioca nello spazio della follia, al cui centro colloca però quella stessa morte da cui procede e verso cui si dirige. Una scrittura folle per la follia dell’esistenza, in cui la morte è il grado zero – sempre assente e continuamente richiamato – del circolo ripetitivo-rituale-mitico della prosa stessa. Si è parlato di uno «spazio paradossale in cui vive e di cui si nutre l’opera di Bernhard: […] tra il nichilismo e il vitalismo» (Eugenio Bernardi). Ma se al pensiero della morte, del nulla, Bernhard oppone una vita, questa vita è l’escrescenza senile di quella, e niente affatto una vita sana, rigogliosa, forza attiva capace di contrastare la passività della morte. La vita, piuttosto, si caratterizza per la sua passività totale, per il suo colore totalmente inerme di fronte al succedersi degli eventi, dei paesaggi, delle cose. L’esistenza, insensata, è l’errore della morte, il suo fuoriuscire nella distanza, e dunque nella domanda, nella camminata, nella pazzia. La lucidità prosastica di Bernhard risiede precisamente nel comporre sintatticamente, senza esporre in piena luce, ciò che non si può vedere, il punto cieco dell’esistenza, la morte appunto: «io ordinai il disordine, / sotterrai all’ombra di alti alberi / le membra in dissoluzione». Usando la proliferazione indefinita dell’insensatezza, e trattenendo questa a sua volta dalla tentazione di precipitare nel lago caotico del nulla immobile e primordiale, Bernhard mette in opera la morte, la sua bellezza, la sua serietà, il suo essere drammaticamente grottesca. Ed è nella forma particolare del suicidio, narrato con l’occhio bovino del pazzo, che il buco nero dell’esistenza emerge nel suo status di abisso: «Tutto è suicidio. Quello che viviamo, quello che leggiamo, quello che pensiamo, tutto è avviamento al suicidio. I morti […] sono più affascinanti dei non-ancora morti. Qualunque cosa gli altri ci ricordino, qualunque cosa ci facciano notare, ci ricordano sempre la morte, ci fanno notare sempre la morte. Stiamo affacciati a una finestra nella notte e osserviamo dei funamboli che camminano su corde tese nell’infinito: chiamarli significherebbe condannarli a morte. Ma tutte le volte che parliamo di suicidio, tiriamo fuori qualcosa di comico. Mi tiro una pallottola in testa, mi sparo, mi impicco, sono espressioni comiche». Nei pressi della fine, il comico. Bernhard avvolge la morte con il suicidio: l’ambizione di Bernhard, scrive Canetti, è disciplinare la morte attraverso il suicidio. E ancora: avvolgere il suicidio con la follia, e questo circolo in perenne espansione, ossessivo fino alla nausea, viene filtrato da una membrana ironica, che serpeggia in tutti i suoi scritti. Nell’ironia forsennata con cui Bernhard costruisce la sua narrazione, emerge il tragicomico dell’esistenza in quanto tale; la definitiva impossibilità di separare il bene dal male, la verità dalla menzogna, il grottesco dal reale. Il tempo della non-morte è il tempo della risata, del ridicolo, del comico, è il tempo della pazzia in cui si incastrano tempi vuoti e tempi intelligenti, tempi stupidi e tempi pieni, tempi marittimi e tempi alpini. La morte è l’unica cosa seria che ci sia. Il resto è pazzia. Scuro blaterare o chiaro pensare che sia, la vita rimane ciò che è comico per definizione: «Nulla è da lodare, nulla da maledire, nulla da accusare, ma il più è ridicolo; tutto è ridicolo, quando si pensa alla morte». Serietà della morte, comicità della vita. La vita si oppone in quanto commedia alla morte: «tutto quello che c’è al mondo è una commedia», quello che invece vi è escluso, e che ne rappresenta il limite, la morte, è l’unica cosa seria. Pendolo infinito tra i due estremi, la voce di Bernhard trascrive la differenza e la variazione tra morte e pazzia, serietà e comicità: «appena fuori dal cimitero, eravamo al manicomio, la serietà era già scomparsa». Non a caso, il numero che Aut Aut dedicò a Bernhard titolava “Una commedia, una tragedia” (titolo che riprende, naturalmente, È una commedia? È una tragedia? dello stesso Bernhard).. L’innesto della morte, ovvero il serio, sul comico, ovvero la pazzia, e viceversa, produce un chiasmo che marchia l’opera di Bernhard e ne fa uno degli autori più brillanti dell’ultimo secolo: «la vita era una tragedia, e noi nella migliore delle ipotesi potevamo trasformarla in commedia». Maestro nel forgiare le parole della sua poetica nello stampo dell’ironia, Thomas Bernhard rimane insuperabile nell’osservare e descrivere algebricamente la morte, il suicidio e la pazzia, senza mai perdere la forza di ripetere di fronte alla comica insensatezza dell’esistenza e alla serietà della sua fine, ancora una volta e una volta ancora, nella scrittura come nella vita, Ja.

Simone Raviola

Simone Raviola ha studiato Filosofia tra Verona, Milano e Fribourg (CH). Si interessa di ontologia politica, letteratura europea ed estetica del contemporaneo. Co-dirige la rivista sovrapposizioni ed è socio dell’associazione di produzione artistica Landescape. Suoi contributi sono apparsi sulla rubrica Passaggi (Argo) e la rivista Chartasporca.

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Citadel, di John Smith – Libero scambio linguistico

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Intervista a Micaela Latini. 90 anni di Thomas Bernhard