Pieces of a Woman, di Kornél Mundruczó – L’insufficienza del nascere

Martha e Sean Carson, una coppia di Boston, sono in procinto di avere un bambino. La loro vita cambia irrimediabilmente durante un parto in casa, per mano di un’ostetrica confusa e agitata che verrà accusata di negligenza criminale. Comincia così un’odissea lunga un anno per Martha, che deve sopportare il suo dolore e al contempo gestire le difficili relazioni con il marito e la dispotica madre, oltre che confrontarsi in tribunale con l’ostetrica, divenuta oggetto di pubblica denigrazione. 

Pieces of a Woman, diretto da Kornél Mundruczó, Stati Uniti, Canada, 2020, 126’

 

A rivelarsi incapace di assurgere a ruolo di genitrice non è solo Martha (Vanessa Kirby), ma quella stessa opera che si prefigge come obbiettivo l’ossessiva mostrazione del suo dolore, nonché della sua elaborazione. Il problema non pertiene all’oggetto mostrato, ossia al lutto e alle sue conseguenze. Anche la Morte può dirsi madre, scaturigine indiretta di processi di filiazione: il dolore, la perdita, concorrono alla formazione di un terreno fertile per i riassestamenti e i tentativi di riedificazione a venire, che su di esso avranno luogo. Connotando gli eventi che seguono alla perdita, il lutto si carica di una maternità “collaterale”, favorendo l’incubazione di una rinnovata pulsione vitale, dichiarando la necessità di tornare a vivere, di rinascere. Ma in Pieces of a Woman l’ombra esiziale della perdita ingloba ogni tentativo di reazione, dispoticamente. Questo non perché la rinascita venga drammaturgicamente esclusa o frustrata, ma piuttosto perché il film di Mundruczó è affetto da un’insufficienza strutturale la cui causa primaria è un’esacerbata imponenza fondativa, per cui ogni elemento posteriore alla morte di Yvette (la figlia di Martha e Sean, interpretato da Shia LaBeouf) non ne è che la pallida eco. E questo in particolare sul piano stilistico. 

Dopo un breve prologo il cui scopo pare unicamente riconoscersi in un’opera di necessaria contestualizzazione diegetica (allo spettatore vengono fornite le dovute coordinate spazio-temporali, e gli vengono presentati i personaggi principali), Pieces of a Woman esplode in un lungo attimo di potenza che non sarà più in grado di ripristinare o emulare: un piano sequenza di circa 23 minuti, in qui si raffigurano le lancinanti doglie di Martha, il suo parto, nonché la (brevissima) vita di sua figlia Yvette. Mundruczó insiste in particolare sul corpo di Kirby, sui suoi spasmi e respiri, nonché sulla sua performance attoriale (premiata con la Coppa Volpi a Venezia 77). Il piano sequenza con cui Pieces of a Woman esordisce è una vera e propria “scena madre”, la più carica sul piano rappresentativo (sia per quel che concerne lo stile cinematografico, sia per quel che riguarda l’interpretazione attoriale), emotivo, tematico. Costituisce inoltre la scaturigine drammaturgica dell’opera, la sua conditio sine qua non. Ma con il suo peso e la sua icasticità, posti a fondamento di un lungometraggio che con quei 23 minuti dovrà fare i conti, il piano sequenza da materno muta in matrigno. Il suo peso (e la sua pesantezza) graveranno su ogni inquadratura a venire. La nascita/morte di Yvette disegna una cesura insanabile tra se stessa e le sue conseguenze, la sua progenie. L’unitarietà del piano sequenza, la sua organicità e il suo fascino, vengono disintegrati dalla dipartita dell’infante. Una caduta irreversibile. Dalla mostrazione enfatica di un dolore ambivalente (da un lato fisico, quello del parto; dall’altro psichico, per la perdita) si passa ad una narrazione zoppicante, esangue, incapace di suturare la ferita di una genesi fallace, interrottasi ex abrupto. Ecco che, come il corpo di Martha fallisce nell’atto procreativo, Pieces of a Woman si mostra incapace di dare vita a se stesso, fallendo nella prassi creativa. E questo non per un’insufficienza da cui il fondamento sarebbe afflitto, ma al contrario per la sua esacerbata imponenza. Quello del cinema è un processo di strutturazione in fieri, deflesso dall’attimo e volto verso uno sviluppo diacronico. Se la sceneggiatura è una «struttura che vuol essere altra struttura»,[1] medium evanescente, il film è -mutatis mutandis- una struttura strutturantesi, che pur non anelando la reincarnazione di sé in un linguaggio altro (la sceneggiatura, letteratura proto-cinematografica) è espressione di un linguaggio ontologicamente incapace di darsi una volta per tutte. Una doglia continua. Nel suo adeguamento pedissequo alla maternità “fallace” di Martha, Pieces of a Woman non fa altro che perpetrare un’imitazione sterile, increativa. Mundruczó dilata l’attimo fino a dargli la parvenza del processo, fa dell’inquadratura singola un’ipertrofica performance dall’innegabile potenza attrazionale. Ma nascere, una volta per tutte, per un film non può essere abbastanza. Ogni fotogramma anela il suo successore, sua progenie logico-causale. Muore partorendo, vive morendo.

Torino, 21 Gennaio 2021

[1]Cfr. P. P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972

Niccolò Buttigliero Junior

Vita low budget in campionato juniores. Vedere, scrivere, fare cinema - ut scandala eveniant.

Laureato al DAMS di Torino in Storia e teoria dell'attore teatrale con una tesi sul «progetto-ricerca Achilleide» di Carmelo Bene. Vive in un cinema e lavora in un teatro.

Indietro
Indietro

Seduzioni dell’inconscio. La psicosi nella sua forma

Avanti
Avanti

Il mondo altrove – La quarantena di Sam Levinson, tra Euphoria e Malcolm & Marie